da VINÍCIUS DE FIGUEIREDO*
Riflessioni sull'opera di Rubens Rodrigues Torres Filho.
per Tuxo
Un enigma permeato di linguaggio. Forse questo caratterizza il “sentimento del mondo” che emana dall’opera di Rubens Rodrigues Torres Filho, scomparso nel dicembre 2023. Fu poeta, traduttore, insegnante e filosofo o, come preferiva dire, storico della filosofia . Sebbene fosse contrario alle fanfare, lasciò impronte ovunque. Esaminandoli, è difficile non cedere alla tentazione di ricercare una certa unità basandosi su alcuni motivi ricorrenti. Tra poesia e filosofia, attraverso la traduzione e la saggistica, si creano ponti che collegano una produzione insolita e variegata, costruita sull'equilibrio tra rigore e fantasia.
Poesia e riflessione
Un testo minimale ci dà il tono per entrare nell'argomento. Si trova nel primo libro di Torres Filho, pubblicato nel 1963, lo stesso anno in cui entrò al corso di filosofia all'USP. È un libro di poesie, ma con un titolo filosofico: Indagine sullo sguardo. L'epigrafe è un mini-manifesto poetico. Dice: “La poesia, sforzo di linguaggio, sarà innanzitutto 'logica'”. Segue l’affermazione lirica: “La poesia deve essere scavo e tortura”.
Due istanze a prima vista antagoniste, configuranti un’antinomia che, a un esame più attento, non è nuova. Mário de Andrade lo aveva inquadrato nella tensione tra tecnica (“ordine intellettuale”) e spontaneità (“ordine subconscio”) e, soprattutto nei suoi primi scritti, aveva avvertito che avvicinare la poesia alla “logica” avrebbe potuto uccidere l’elemento soggettivo, essenziale per miscelazione.
D’altra parte, e come avvertirà più tardi Drummond, al di fuori di quello “sforzo di linguaggio”, riportato da Torres Filho, la questione sentimentale resta anodina: “quello che pensi e senti, quella non è ancora poesia” (Drummond, “Search per la poesia"). L'epigrafe scritta da Torres Filho nel 1963 traccia un percorso: la materia poetica, fatta di contraddizioni, slanci, sentimenti e perplessità, deve essere organizzata al punto da esprimere, a livello del linguaggio, come comunicano gli opposti che non sempre sono amici.
Una volta aperta, la stagione dei contrari non tarderà a rivelare i suoi risultati. Dalla fase iniziale, vedere la coppia “interno” x “esterno”, nella poesia separata “migração” (1962):
Mi rivedo, trasfigurato,
riscoperto da chi mi inventa
per la tua convivialità.
Con quanta chiarezza mi toccano le tue intenzioni,
il mio nome sgorga dalle loro bocche come un fiore.
Li abiterò con trasparenza,
tutta la rinascita del tuo discorso
abitare la memoria.
In loro parlo, muovo la testa,
Chiamo. Tutto senza di me,
tutti via, con grande pace e condiscendenza.
Anche se il poeta registra un'alienazione che permea profondamente le relazioni, ciò suscita meno indignazione o militanza che autoironia. Cosa potrebbe sorprenderti: erano gli anni 1960. Il contrappunto aiuta. Entrando nello stesso periodo sulla scena di San Paolo, Roberto Piva intitolò il suo libro d'esordio,Paranoia (sempre del 1963) di “beat-surreale”, una peculiare combinazione di Bréton, Rimbaud e Ginsberg. Da questo miscuglio è emersa una voce poetica che sa di erotismo ampiamente diffuso, anche grafico: lunghi versi si susseguono, alternando tempi verbali e immagini (all'improvviso, Mário de Andrade lo attacca all'orecchio del poeta, vagando con lui per il centro della città), il testo diventa città portatore di energia sessuale, indivisibile, nucleare.
Eliane Robert de Moraes, in un luminoso saggio sulla poesia di Piva, commenta che, in esso, la fuga dall'ordinario è un tuffo omoerotico nell'avventura notturna, che rappresenta il contro-discorso “a tutti i tipi di apparati repressivi, siano essi capitali, della Chiesa cattolica, dei custodi dei buoni costumi o di qualunque altro caso di soggezione della libido”. Questo è anche ciò che dice il poeta, nella Postfazione di piazze (1964): “Contro l’inibizione della coscienza della Poesia Ufficiale Brasiliana al servizio dell’istinto di morte (rimozione), la mia poesia è sempre consistita in un vero atto sessuale, cioè in un’aggressione il cui scopo è la più intima delle unioni” .
Diverso il comportamento di Torres Filho. Il titolo della poesia, migrare, consiste nel passare da una (o)posizione all'altra, in un movimento di andata e ritorno durante il quale la variazione tra esperienze opposte fa sì che il poeta sia testimone della loro divisione in due. Invece di respingerlo, prende coscienza della sua alienazione: «via tutto, con grande pace / e condiscendenza». La sincope tra “interno” ed “esterno” non trasforma le cose; ma l’“io”, disponibile agli altri in questa esteriorità che fa “tutto senza di me”, si rivolge su se stesso e intraprende la sua autodemarcazione.
Grazie al corso del pensiero nella parola (discorso), si attualizza il significato dell'opposizione iniziale. Riconoscendo di essere oggettivato dalle aspettative degli altri, l'“io”, nonostante appaia inappropriato, rimane (in misura sempre variabile, che Torres Filho non si stancherà mai di ricalcolare lungo il suo percorso) intatto. Come un occhio che vede se stesso, il poeta comincia a riflettere, scoprendo ben presto la vocazione che verrà ribadita in un'altra epigrafe, di Il volo circonflesso (1981)
Ciò che è vestigia, investe e istiga
oppure, se si tratta di guardare, indagare.
L'un l'altro: l'occhio si guarda,
Se ti ritiri in te stesso, ti stacchi.
Il tema è vicino, cambia l’approccio. Se, nel caso della “migrazione”, la coscienza nasce dalla duplicazione di sé nel “dentro” e nel “fuori”, nell’epigrafe del 1981, invece, “l’occhio che guarda se stesso”, corrispondente alla “Io” già costituito, esita tra il ritirarsi e lo staccarsi dalle foglie. In un caso, la riflessione è consapevolezza di sé; in un altro, l'esitazione di fronte alla scelta. Una domanda simile riappare nel “poema sem nome”, del 1989: “Caro fiume delle cose, / quale dei due: scorre, fiorisce?”. La domanda, interna alla poesia, la interroga: perché, in fondo, Descriviti e cadere nella vita? Ma come sarebbe questo salto fuori dal linguaggio, visto che il soggetto stesso vi si fonde? “Se cado / è senza muovermi dal mio posto”.
Resta da lavorare dall'interno, formalizzare il fiume eracliteo per stabilire, a partire dalle sue antinomie e senza rifiutarle, un alveo originario, fatto di scorci, ricordi, proiezioni. Questo è ciò che vediamo, ad esempio, in “Un altro miraggio”, del 1993:
Era estate e c'era la luna
(perché era notte) era illuminato dalla luna
Le lame delle palme da cocco
(perché era una spiaggia) e si aprì una radura
per gli occhi (di entrambi) nella notte limpida.
Quello che abbiamo detto (tu
ricordi?) era
da un filo. Non era niente. Mi stavo formando
una rete di connessioni molto leggera
ed elisioni. Nello specchio di quel momento
raddoppiato
ancora una volta (come è stato,
Come ho detto, estate
e spiaggia e c'era la luna)
un altro miraggio di felicità.
Come nella “poesia senza nome”, il mondo è esposto a momenti decisivi, anche quando prosaici (fino quasi a scomparire: “ti ricordi?”). L'album di queste fotografie è un'opera di poesia, le cui scelte sono raddoppiate dall'assenza di un discorso capace di ricordare o comprendere tutto. L'atmosfera piena di suspense del laboratorio poetico di Torres Filho lo metteva in guardia contro l'idea di una verità integrale, sia essa desiderio, ragione o storia. Il “vero in sé” si dissolve davanti alle prerogative della metafora, che esige passaggio. Si comprende meglio questa poesia, che si bilancia sul commercio degli opposti e rifiuta l'idea di risolverli in una progressione ben eseguita. Esita, problematizza; l’impossibilità di una “sintesi dialettica futura”1 si accontenta di aprire finestre e prospettive accoglienti che sono come particelle viste in una nebbia quasi permanente, con giornate più o meno miti.
Scrittura epidermica che comporta variazioni, come attestano queste due poesie del 1987:
Buon inizio
In quel preciso momento
Le nostre labbra si unirono
Da soli
e già mi mormorava tra i baci: – Mi dispiace
che ci ameremo (in senso figurato) proprio adesso.
Il finale di “Capítulo” evoca un’altra atmosfera, da Itabira:
Capitolo
“Urgenza di districare questa moltitudine di significati e connessioni che si presentano e si negano in modi molteplici e intricati. Le perplessità continuano ad essere valide, ottuse. Specchio di convessità impazzite, il volto dei giorni è disposto alla malizia. Futile, fugace, lo sguardo scivola sulle superfici. Camminando, con le mani in tasca, fa un fischio stonato, poi tace, magro.
L'imminente invasione dei sensi (percettivi e mentali) dà il via a entrambe le poesie. Ma, contrariamente alla certezza degli innamorati, in “Capitolo” le perplessità restano, sovrane. Come possiamo vedere, il bisogno di svelare la multivoce può portare a un bacio o al vuoto. Per aprirsi a queste variazioni è necessario incorporare, sul piano formale, diversi modi di poetizzare: dal gioco di parole vicino a Leminski (“poema semipronto”, 1985) ai versi che mimano Camões (“Quatro sonetos”, 1981), convivono dizioni interposte, incorporate da chi si immerge in ciò che legge o sente, per tradursi e così reinventarsi.
Così si legge in “Una prosa è una prosa e una” (1985): “la scrittura inventa la scrittura e ci colloca nei versi che seguono il binario dentro – dal fuori al denso – dal dentro al selvaggio”. Il punto è stato notato da Arthur Nestrovski, il quale, valutando l'insieme, afferma che le poesie “vestono le vesti più diverse, dal sonetto all'aforisma, dall'aneddoto alla meditazione, dal verso regolare al verso libero e alla 'prosa porosa', o 'respirata'. ', dove l'effetto poetico è riservato alle 'immagini a sorpresa' e al 'barocco fonico'”.2
Una versatilità che ha a che fare con il ritiro riflessivo, che consente al poeta, affinandosi, di diventare uno scrittore della propria variazione. Il centro di questa poesia, quindi, tende ad essere vuoto – il vuoto che riverbera accordi diversi, dal mormorio di “tra baci” allo sguardo che si insinua e non trova nulla, mette “le mani in tasca” e prova una via d’uscita. un fischio stonato, seguito da un sottile silenzio. Se in questo momento la macchina del mondo si riaprisse davanti al poeta, non gli basterebbe – come i suoi precursori, gli “allievi spesi nella continua e penosa ispezione / del deserto” – abbassare gli occhi e proseguire nel suo cammino, “lentamente, con le mani che pensano”.
Filosofia e poesia
Quando Torres Filho entrò nel corso di filosofia, la macchina del mondo era appena atterrata a Maria Antônia, ma sottosopra: era il “marxismo uspiano”. Nelle sue memorie, Fernando H. Cardoso ricorda ciò che pensava uno dei suoi protagonisti (e che sarà il primo relatore di dottorato di Torres Filho, fino alla sua revoca nel 1969): “Giannotti sosteneva che in Capitale sarebbe presente qualcosa come uno svolgimento logico, dialettico, fondato sulle cose, sulle strutture oggettive del lavoro, sui rapporti oggettivi tra le persone”. Di fronte a una rivelazione così immensa, che valore dovremmo dare alla poesia: straniamento, abbellimento?
In questo senso antipoetico la “logica” va di pari passo con l’ontologia. Il contrario di quanto insinuava Torres Filho dall'epigrafe di Indagine sullo sguardo, quando, privilegiando la predisposizione espressiva del linguaggio, assunse come esigenza formalizzare le esperienze soggettive per rifletterle nella loro variazione per comunicarle al lettore. All'orecchio di Poros (1989), Benedito Nunes richiama l'attenzione sul fatto che, per Torres Filho (come, prima di lui, Novalis), “la vita originaria del linguaggio” è metafora. Comprendere: passaggio o cambio di prospettiva,3 non “superare” (Sollevamento) di una registrazione discorsiva da parte di un'altra, in teoria superiore e più vicina alla verità.
Nessuna vocazione per l'alpinismo Concept, quindi, perché non c'è bisogno di scalare l'ipotetico Everest per raggiungere le vette. È questo che attesta con massimo rigore e sorprendente leggerezza – bossa-novisticamente? – il trapezista (con questa immagine Fernando Paixão sottolinea la poetica del nostro autore): salta tra poli collegati solo dal ponte che costruisce e rifa sugli abissi del linguaggio.
Quasi un “circo trascendentale”, che converte l’intrattenimento del soggetto con le sue rappresentazioni (la “tela azzurra del cielo” di cui ci parla un altro poeta) in libera riflessione – il minerale che, nell’estrazione dei suoi anni di formazione filosofica, Torres Filho scoperto in JG Fichte. Riguardo a quest'ultima dirà quanto segue: “la radicalità della riflessione dell' Wissenschaftslehre [cioè di chi pratica la filosofia in senso fichtiano] è proprio nell’agilità che gli permette di muoversi tra i punti di vista” (Lo spirito e la lettera, 1975, p. 64).
Per comprendere meglio di cosa si tratta (perché, credo, in questo risiede l'atteggiamento intellettuale di Torres Filho), è utile il contrasto con Hegel. Esaminiamo una nota a pagina 193 del Hegel: l'ordine del tempo, di Paulo Arantes. Il libro, che presentava la versione brasiliana della tesi difesa da Arantes nel 1973, a Parigi X, è stato tradotto in portoghese da Torres Filho. Nel 1981, data della pubblicazione, entrambi erano professori presso il dipartimento dell’USP e specialisti del pensiero tedesco, ma in team diversi.
È noto quanto Fichte fu criticato da Hegel. Fichte, dice quest’ultimo, non sarebbe riuscito ad aggirare il dualismo tra “soggetto” e “oggetto”. Intrappolato dalle antinomie della coscienza, avrebbe trascurato la storia e sarebbe rimasto in una riflessione incompleta – tanto che, in mancanza di mediazione per risolvere l’antinomia tra gli opposti, si sarebbe accontentato di “farli alternare invece di identificarli nell’uno”. stesso processo” (Hegel: l'ordine del tempo, 1981, p. 284).
Al che Torres Filho ribatte (inventando un nuovo genere di commento, il “piè di pagina invadente”): “Nelle sue analisi, Hegel non tiene conto che questo termine medio (das Dritte) corre da un capo all'altro, come un filo rosso (l'espressione è di Fichte), il Dottrina della scienza del 1794, fungendo da filo conduttore (Conduttore) per riflettere, fino a spiegare il suo asse radicale: l'immaginazione produttiva.
Vengono quindi confrontati due modelli di dialettica. Quella di Hegel (seguito da Marx) fa del “senso” (= lavoro) il filo di terra che inscrive l'“universale” o la “ragione” nella realtà. Quella di Fichte, che si muove tra i punti di vista senza reificarli né oggettivarsi. Qui siamo di fronte a quella riluttanza soggettiva che esponeva Fichte all'obiezione “astratta”: in fondo, a cosa servirebbe tale libertà di movimento, se fosse esercitata nel puro intelletto, separato dal mondo?
Tuttavia, come mostra Torres Filho, l'intenzione di Fichte nel circoscrivere il pensiero autonomo, libero da ogni punto di vista, non è quella di confinarsi in se stesso. È vero che la dottrina-della-scienza rifiuta di essere “conoscenza materiale (sapere qualcosa)” (Lo spirito e la lettera, 1975, pag. 68); si tratta piuttosto di “scienza atematica per eccellenza”, “una filosofia strettamente non figurativa” (op.cit., p. 250). Ma ciò non impedisce a chi lo assume di parlare del mondo.
Anzi. Parlarne adeguatamente implica relativizzare i dogmi e lasciare andare la positività irriflessiva che permea l’uso naturale dei segni. Vuotare le parole (“lasciare che le parole siano parole”, come recita il titolo di uno dei capitoli del libro su Fichte) si rivela un prerequisito per recuperare la portata espressiva del discorso – e, così, presentare (scenicamente) il “soprasensibile” ” nel “sensibile”. Con questa aggiunta contro gli equivoci: «è nella lettera, e non al di là di essa, che lo spirito ha corpo e realtà» (Saggi di filosofia illustrati, 1987, p. 112).
Il “supersensibile”, quindi, non esiste da solo, ma richiede l'esibizione sensibile resa possibile dalla pura riflessione (quando, per un attimo, l'occhio si ritrova a guardare). Contrariamente a quanto accade con Hegel, il termine medio di questa operazione, per Fichte, è l'immaginazione produttiva. Facoltà insieme spirituale e sensibile, non riconnette il pensiero alla cosa, come faceva l'ontologia dogmatica, ma lo traduce liberamente in immagine. Il suo parametro è l'intersoggettività, la sua prova del nove è rendere comunicabile l'invenzione.
Qualcosa di questo metodo appare presto nella poesia di Torres Filho, quando la neutralizzazione del significato abituale dei segni dà occasione di reinventarli, come avviene in “O dia é mais”, del 1961:
Oggi non ci penserò
Il giorno è più forte della notte.
Sogno le zucche più mansuete.
Ecco sempre questo adesso.
No, non ci penserò.
Mi vuoi tanto, mi ami tanto,
maledirmi ecc.
Lo lascerò e basta.
Dimensione. Dimensione.
Brucerò e basta.
La notte è più forte del giorno.
Non è?
Mangia il chiaro di luna più utile.
Il giorno... come si dice?
Trasformato in condizione della poesia, il “non pensare” amplia il campo dell’esperienza (le “zucche più mansuete”, le “lune più utili”). Ma questo pregiudizio sospensivo non è sempre motivo di gioia. Anzi. Tornando alla litigiosità che vive sotto ogni cosa, molte delle poesie di Torres Filho riescono a malapena a sostenere l'impasse.
A differenza di “Áporo”, di Drummond (“il labirinto / (oh ragione, mistero) / si scioglie presto”), qui il nodo insiste (come in questa poesia senza titolo del 1962): “Fiore / o labirinto / di mistero senza uscita / dove girare senza fine?” E così via: i “fiori che chiedono di nascere” (“Largo-Allegro-Largo”, del 1965), e dal dolore puro “dove si chiede / un'altra lentezza di fioritura” (“l'amore”, del 1965–1967), al canto che, “refrattario ad ogni ritmo / fuorché il nostro, l'interno / che si era fatto esperto / nel perseverare senza rimedio” (“redondilha”, del 1981), il dolore che appena si attenua è rimediato dall'ironia delle poesie più mature: “lavoro: la nostra comunicazione / verso l'esterno” (“3 expoemas ”, nel 1981).
In questi momenti, la poesia si ridefinisce come irresolutezza produttiva: “ha la fermezza di un lancio / e di una disperazione di gala. / La sua impronta è il filo che va avanti / né sì né no, solo viaggiare” (“arte poética (sic)”, 1981).
Filosofia = storia della filosofia?
Sembra lecito scorgere, in questa permanenza aporetica – che, acquisendo una inclinazione verso l'alto con il progressivo predominio dell'ironia, è lontana dall'atteggiamento malinconico che Hegel opponeva ai romantici –, il germe della stessa riflessione che anima la dottrina-dell'ideologia di Fichte. -scienza. Come ha scritto Torres Filho, il trascendentale è come una sorta di “alba, limbo mattutino dove ci sono significati prima che ci sia un mondo”.4 Sono le parole momentaneamente rimosse dalle chiacchiere mondane, rumorose al punto da dimenticare il mondo.
Allora Torres Filho palpeggiava già Fichte prima di entrare in contatto con i suoi testi? Credere ciò significa ignorare il modo in cui procede lo storico della filosofia. Lungi dall'essere ridotto alla passività degli scribi, il loro lavoro dimostra che l'evidenza del testo emerge solo nella visione di chi lo legge, dell'interprete. Pertanto, questo Fichte che affina il rigore sospensivo di Torres Filho, maturandone la controparte espressiva, non è Fichte “in sé”. Perché questo per noi è inconoscibile. Lo spirito non esiste al di fuori della lettera che lo traduce. Più corretto, allora, sarebbe affermare il contrario: fu Fichte a diventare “rodrigueano”, quando Torres Filho se ne appropriò per illuminare questioni sue e del suo tempo.
Appropriazione rivelatrice del tavolo tra poeta, filosofo, traduttore, saggista e storico della filosofia, uniti nella certezza che il fuoco acquista visibilità solo attraverso la riattivazione del linguaggio (“novolume”). Questa, è bene ricordarlo, fu la novità dell'Illuminismo. Al di fuori della sua caricatura di fede astratta nel progresso o nell'emancipazione, il Aufklärer riappare come qualcuno che vive nell'arretramento del presente – come è successo con Torres Filho, che ha aperto con i colpi di una lama lucente il varco attraverso il quale si riscopre il nostro modo di leggere, immaginare e agire. “Tra i dentali e le fricative va la lingua / creando nomi per ciò che è caro” (“ao foot daliteral descalça”, 1985).
Con la fine dell’ontologia, nel corteggiamento dobbiamo solo chiedere parole – anche quando ci capiamo solo “tramite un filo”. Basterà allora la conoscenza minima, la “rete più leggera di connessioni/ed elisioni”. Tra illumini e illuminazioni, il cielo che tocca con la bocca l'immaginazione ci farà riscoprire che “nel grembo delle stelle / esita un sorridente paradosso” (“reticule”, 1993).
*Vinícius de Figueiredo È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'UFPR. Autore, tra gli altri libri La passione per l'uguaglianza: una genealogia dell'individuo morale in Francia (Reliquiario).
Originariamente pubblicato nel numero 1 del volume 9 di Rivista rosa.
note:
[1] Viviana Bosi, “Rubens Rodrigues Torres Filho: verso e reverse”, Terza rivista Margem, v. 8, n. 11, 2004, pag. 100.
[2] Arthur Nestrovski, “Paesaggi precedentemente anonimi”, Folha de S. Paul, 7 dicembre 1997.
[3] "Poros sono minuscoli luoghi di passaggio dal vissuto al detto e dal detto all'indicibile” (B. Nunes).
[4] Rubens Rodrigues Torres Filho, “A virtus dormitiva de Kant”, Discorso, v. 5, n. 5, 1974, pag. 45.
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