da LEDA PAULANI*
Introduzione alla nuova edizione del libro “Il mito dello sviluppo economico”, di Celso Furtado
1.
Se c'è un tratto distintivo nell'opera di Celso Furtado, è l'idea che non esistevano restrizioni oggettive affinché il Brasile diventasse un Paese forte, sovrano, padrone del proprio destino, con una propria economia e cultura e con un posto al sole in controllo delle sue direzioni globali. Ma in lui questo non è mai stato il riflesso di un’immaginazione nazionale grandiosa e vuota, che veniva pigramente sostenuta dalla fantasia del “paese del futuro”.
Al contrario, la sua percezione si basava sull’analisi del processo socioeconomico che si stava svolgendo qui, un’analisi basata sulla teoria, ponendo sempre come sfondo la connessione tra l’economia brasiliana e il progresso dell’accumulazione di capitale a livello globale. Celso Furtado era un economista politico. Ma soprattutto fu un militante, che non smise mai di lottare per realizzare questa speranza e fu in questa veste che ricoprì incarichi importanti in diversi governi. Divenne quindi un interprete privilegiato delle fortune e delle disavventure di questa periferia.
Ma per parlare cinquant'anni dopo questo grande piccolo libro chiamato O mito do desenvolvimento economico, Voglio sollevare una questione un po' rarefatta e, a prima vista, distante, sia dal tema del libro sia dallo scopo di scriverne mezzo secolo dopo. Mi riferisco alla questione metodologica, o metateorica, o epistemologica, che dir si voglia. Per mostrare fino a che punto questo libro possa essere inteso come un singolare sforzo interpretativo, è necessario considerare non solo che Celso Furtado era un economista politico, e che aveva possibilità concrete, come statista, di affinare ulteriormente le sue analisi.
È anche necessario tener conto di ciò che ha significato per lui il processo di produzione della conoscenza, soprattutto nel campo delle scienze sociali. La deviazione non sarà eccessiva, non solo perché il libro stesso contiene anche un saggio metodologico, che indica l'importanza che Furtado attribuiva all'argomento, ma anche perché, dato il suo oggetto, la riflessione sulla questione metateorica ci riporterà rapidamente al al mito dello sviluppo economico.
Sebbene ci sia molto di questa discussione nella sua triade autobiografica,, Utilizzo qui, a questo scopo, un'intervista che ho avuto il privilegio di fargli nel 1997, e dalla quale è stata tratta una dichiarazione pubblicata sulla rivista Economia Applicato,, quindi da ipe-usp., Quel pomeriggio trascorso a Rio de Janeiro, conversando con il grande economista, che impressionò per la sua figura intensa e forte, ma altrettanto serena, seppi che aveva avuto tre ordini di influenza: quello del positivismo (aveva una biblioteca positivista a casa, come riferì), che gli permise di adottare un tipo di “metafisica costruttiva” che gli diede fiducia nella scienza, quella di Marx, attraverso la sociologia della conoscenza di Karl Mannheim, che la proiettò nella storia, e, attraverso Gilberto Freyre , quello della sociologia americano, che lo ha messo in guardia sull’importanza della dimensione culturale e del relativismo che ne deriva.
Delle tre fonti di influenza, ha affermato che la prima è stata successivamente confutata, perché ha perso la fiducia nella scienza. Ciò che è rimasto molto forte in lui è stato lo “storicismo” di origine marxiana, cioè la percezione che la storia è il contesto che tutto ingloba e che dà all’uomo un quadro di riferimento per pensare. Per lui “chi non ha questa mentalità storica non andrà molto lontano. Questo è ciò che distingue un pensatore dall’economista moderno, che finge di essere un ingegnere sociale”. Nella stessa ottica affermerà più tardi che “l’economia sta diventando una scienza sempre più formale, che è esattamente la negazione della scienza sociale”.
In ogni caso, dalla combinazione delle tre eredità risulta una visione della produzione della conoscenza del mondo sociale che, oltre all'ineludibile considerazione della storia, associa anche l'immaginazione alle necessarie conoscenze teoriche e analitiche. Per lui la scienza è costruita, in gran parte, da coloro che, fiduciosi nella propria immaginazione, sono capaci, spinti dall'intuito, di superare certi limiti.
Per Celso Furtado, tutta la teorizzazione che fu costruita dalla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (ECLAC), tra gli anni ’1950 e ’1970, sulla singolarità dell’America Latina fu il risultato di questa presa di posizione: “Credo che il passo più che abbiamo fatto in America Latina è stato proprio questo: abbiamo immaginato di essere capaci di identificare i nostri problemi e di elaborarne una teoria, abbiamo cioè immaginato che ci fosse una realtà latinoamericana, una realtà brasiliana, e Quindi i fondamenti dovevano essere catturati da questa realtà”. O mito do desenvolvimento economico è anche il risultato di questo spirito.
Oltre alla fantasia, c'è un altro elemento evidenziato da Celso Furtado come essenziale. Secondo lui è necessario impegnarsi in qualcosa, cioè se l'oggetto di cui si cerca la conoscenza è la realtà sociale, il dilettantismo non è sufficiente perché l'immagine di attività nobile che la scienza porta sia efficace: “La scienza sociale ha quella risposta alle domande poste dalla società […], non possiamo esimerci da impegni più ampi, perché ci sono molti ambiti che non meritano l’attenzione della scienza, e sono ambiti vitali”. Pertanto, pur essendo consapevoli dei limiti allo sviluppo della conoscenza che sono intrinseci ad essa, cioè creati dalla società stessa, è necessario insistere sulla produzione di una scienza sociale pura, che non sia ostaggio di interessi specifici e clientela. Ma non è facile, avverte.
Per lo stesso Celso Furtado, tuttavia, questo non è mai stato un problema. O mito di sviluppo economico, scritto in un momento in cui si inneggiava al cosiddetto “miracolo economico” – sei anni di crescita a tassi che oggi diremmo “cinesi” –, non si lasciava sedurre dal clima di euforia (costruito peraltro sotto gli stivali dei militari).
Considerato il momento della sua nascita, non era cosa da poco, in mezzo a tanto sciovinismo, che entrasse in scena un libro che insisteva sul fatto che, per i paesi periferici come il Brasile, lo sviluppo economico, se inteso solo come possibilità del più che i poveri raggiungessero prima o poi il tenore di vita dei paesi centrali era un mito; inoltre, un mito che si configurava come “uno dei pilastri della dottrina che serve da copertura al dominio dei popoli dei paesi periferici”. Il suo impegno per il Paese lo ha costretto a dire che era meglio andare piano, sfuggire a obiettivi astratti, come la pura e semplice “crescita”, e svolgere il compito fondamentale di identificare i bisogni fondamentali della collettività.
2.
E con ciò arriviamo al libro oggetto di questa prefazione, non senza prima sottolineare che non sarebbe mai stato scritto se la penna che lo ha scritto fosse stata di proprietà di un economista convenzionale, che crea i suoi modelli spudoratamente, dimentico delle storia e le esigenze del suo Paese, dimenticando, come ha affermato Celso Furtado nella citata intervista, “che la scienza sociale si fonda sull’idea che l’uomo è innanzitutto un processo, non un dato, una cosa inerte”.
Sono quattro i saggi che compongono il libro. La prima, la più lunga e quindi inedita, la cui quinta e ultima sezione dà il nome all'opera, affronta le tendenze strutturali del sistema capitalistico nella fase di predominio delle grandi imprese. Accanto ad esso si trovano altri tre pezzi: una riflessione su sviluppo e dipendenza, che lo stesso Furtado considera, nella sua presentazione, come il nucleo teorico degli altri, una discussione sul modello brasiliano di sottosviluppo e, infine, il cosiddetto “saggio metodologico ”, in cui l'autore, non a caso, fa una digressione su oggettività e illusionismo in Economia.
Ciò che accomuna i quattro saggi, oltre ad essere stati scritti tra il 1972 e il 1974 – periodo in cui Celso Furtado lavorò come visiting professor presso American University (Stati Uniti) e presso l’Università di Cambridge (Inghilterra) – è lo spirito militante dell’autore e la sua volontà incrollabile di analizzare, mettere in guardia e indicare le strade che lo sviluppo brasiliano stava prendendo, basato su immense disuguaglianze e dipendente da esse per essere “ben -riuscito". Da qui tutti i suoi sforzi per sostenere l'analisi nella discussione sulle tendenze strutturali del sistema capitalista. Come pensare allo sviluppo di un paese periferico come il Brasile senza collegarlo al livello internazionale?
Oggetto iniziale dell'esame del saggio che dà il titolo al libro è lo studio I Limiti alla crescita [Os Limiti alla crescita], lavoro realizzato da Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers e William W. Behrens nel 1972, presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT), negli Stati Uniti, per il Club di Roma.
Nello studio, che sarebbe diventato piuttosto famoso (tradotto in 30 lingue, venduto più di 30 milioni di copie) c'è quella che Furtado chiamerà la “profezia del collasso”. La tesi centrale è che se lo sviluppo economico, come sta avvenendo nei paesi più avanzati, fosse universalizzato, la pressione sulle risorse non rinnovabili e l’inquinamento ambientale sarebbe tale da far crollare il sistema economico globale.
Celso Furtado non è d'accordo con la tesi, non perché sia in disaccordo con la questione in sé, cioè con il problema causato dal consumo esacerbato di risorse non rinnovabili e dal degrado ambientale che ne deriva. Al contrario, arriva addirittura ad affermare che “nella nostra civiltà, la creazione di valore economico provoca, nella stragrande maggioranza dei casi, processi irreversibili di degrado del mondo fisico”, e che, pertanto, è necessario riconoscere “il carattere predatorio del processo di civilizzazione, in particolare la variante di questo processo generata dalla rivoluzione industriale”.
Il loro disaccordo deriva dal presupposto della tesi, cioè che lo sviluppo fosse un processo lineare, che tutti i paesi avrebbero attraversato, per cui, ad un certo punto della storia, avrebbero tutti lo stesso tipo e lo stesso livello di sviluppo allora in vigore. forza nei paesi centrali. Per il nostro autore la tesi, del tutto errata, si scontrava con quello che considerava, nell’intervista, “il contributo più importante da me dato alla teoria economica”, cioè la sua teoria del sottosviluppo, da lui elaborata un decennio prima. Se il sottosviluppo non era una tappa, ma un tipo specifico di sviluppo capitalistico, la tesi lineare era esclusa per definizione, il che rendeva irrealistica la profezia del collasso.
Molto segnato da ciò che stava accadendo in Brasile, Celso Furtado concluse che, data la divisione internazionale del lavoro, sancita dal consolidamento del capitalismo, iniziarono ad esistere strutture socioeconomiche in cui il prodotto e la produttività del lavoro crescono attraverso la semplice riorganizzazione delle risorse disponibili. , con un progresso tecnico insignificante, o, peggio ancora, attraverso lo sperpero di riserve di risorse naturali non riproducibili. Pertanto, il nuovo surplus non era collegato al processo di formazione del capitale, poiché tali economie tendevano a specializzarsi nell’esportazione di prodotti primari.
Tuttavia, per Celso Furtado, più che la tendenza a produrre beni primari, soprattutto agricoli, a stabilire la linea di demarcazione tra sviluppo e sottosviluppo era l'orientamento dato all'utilizzo del surplus generato dall'aumento della produttività. In queste economie, con una debole formazione di capitale, il surplus, tramutato in capacità di importazione, rimaneva disponibile per l’acquisizione di beni di consumo. Fu quindi dal lato della domanda di beni di consumo che questi paesi entrarono più profondamente nella civiltà industriale.
L’industrializzazione della sostituzione delle importazioni, quando si presenta ad opera di filiali di imprese dei paesi centrali, finisce per “rafforzare la tendenza a riprodurre modelli di consumo di società con un livello di reddito medio molto più elevato”, dando luogo “alla sindrome della tendenza al reddito concentrazione, così familiare a tutti coloro che studiano l’industrializzazione dei paesi sottosviluppati”.
3.
A questo tratto, che nel secondo saggio del libro, Celso Furtado mette in relazione con quella che chiama “dipendenza culturale” (soprattutto delle élite), egli associa le caratteristiche assunte in quel momento dal processo di accumulazione, e cioè la il fatto che fossero le grandi aziende internazionali a dare il tono. Tra queste caratteristiche, il predominio degli oligopoli (con modelli di consumo che si omogeneizzano a livello internazionale), il funzionamento dei centri decisionali che sfuggono al controllo dei governi nazionali e la tendenza a costruire uno spazio unificato di azione capitalista.
In questo contesto, i paesi periferici, nel pieno dell’industrializzazione della sostituzione delle importazioni, vedranno un processo di peggioramento delle loro disparità interne. Utilizzando una tecnologia generalmente già ammortizzata, le grandi aziende oligopolistiche sono riuscite a superare l’ostacolo causato dall’incipiente formazione di capitale, ma hanno industrializzato la periferia, perpetuando il ritardo visto nella disuguaglianza. Senza il dinamismo economico al centro del sistema, caratterizzato da un flusso permanente di nuovi prodotti e da salari reali in aumento, il capitalismo periferico, al contrario, “genera mimetismo culturale e richiede una concentrazione permanente del reddito”.
In poche parole, per Celso Furtado, l’evoluzione del sistema capitalista a cui aveva assistito era caratterizzata da “un processo di omogeneizzazione e integrazione dal centro, una distanza crescente tra centro e periferia e un notevole allargamento del divario che, nella periferia, separa una minoranza privilegiata e le grandi masse della popolazione”. Ecco perché la profezia del collasso non poteva realizzarsi, dal momento che il tenore di vita nei paesi centrali non sarebbe mai stato universalizzato nella periferia del sistema.
Il Brasile, con la sua significativa dimensione demografica e un settore di esportazione altamente redditizio, come mostra Celso Furtado nel terzo saggio del libro, era diventato una storia di successo nel processo di industrializzazione, ma non era stato in grado di operare con le regole prevalenti nelle economie sviluppate , di modo che il sistema creato allora spontaneamente ha beneficiato solo una minoranza.
4.
Fatto questo rapido inventario delle principali osservazioni e analisi di Celso Furtado, cosa possiamo dire di O mito dello sviluppo economico cinquant'anni dopo? È evidente che nell’opera c’è un contesto datato, ad esempio quando il nostro autore afferma che il privilegio di emettere il dollaro “costituisce la prova inconfutabile che questo paese esercita esclusivamente la tutela dell’intero sistema capitalista”. Cinque decenni dopo, sebbene il privilegio continui ad esistere, ed è stato rafforzato dalla politica di Paul Volcker, presidente dell' Federal ReserveAlla fine degli anni '1970, la leadership americana è stata oggetto di continue controversie, soprattutto a causa della sorprendente evoluzione della Cina.
Allo stesso modo, considerando il modo in cui Celso Furtado effettua la sua analisi, è implicito che egli considerasse almeno l’industrializzazione, anche se non il superamento dell’arretratezza, come qualcosa che si era consolidato in Brasile, cosa che, oggi sappiamo, non è vera, dato che l’evidente processo di precoce deindustrializzazione subito dal Paese.
Detto questo, però, i successi di Celso Furtado sono sorprendenti. Non è nemmeno necessario considerare la sua preoccupazione per l’esaurimento permanente delle risorse naturali, l’inevitabile inquinamento e il frequente ricorso a “vantaggi comparativi predatori”, soprattutto alla periferia del sistema, che percorre l’intero libro, massima prova della corretta armonia in cui operava la politica furtadiana.
Ciò che sembra più importante menzionare qui è la sua corretta percezione delle tendenze unificanti del sistema capitalista. Va notato che siamo nel 1974, ancora ben lontani dalla caduta del muro di Berlino e dall’inizio del discorso sulla globalizzazione, e anche così egli afferma che “le tendenze verso una crescente unificazione del sistema capitalistico appaiono oggi con molta maggiore chiarezza di quanto avvenne a metà degli anni Sessanta”.
A ciò si aggiungeva anche la precisa percezione che in tutto il mondo si stesse formando una sorta di grande ed unica riserva di manodopera a disposizione del capitale internazionale, data la facilità con cui le grandi aziende potevano evitare aumenti salariali, soprattutto nella periferia, spostare gli investimenti verso aree con condizioni più favorevoli.
Ma ciò che in realtà più stupisce è l’accuratezza delle sue previsioni, fatte cinquant’anni fa, riguardo al destino della modernizzazione in corso in Brasile. Da allora fino ad oggi, con un sollievo dopo l’altro portato dalle politiche sociali ad alto impatto attuate dai governi popolari, il ritardo non ha fatto altro che estendersi. Questo singolare sforzo interpretativo non sarebbe stato possibile senza la comprensione da parte di Celso Furtado della vera costituzione del processo di produzione della conoscenza sociale, coniugando teoria e percezione del carattere storico dei fenomeni analizzati con immaginazione e impegno per la comunità.
Nella suddetta intervista, Celso Furtado afferma: “La mia vita è stata allo stesso tempo un successo e una frustrazione: un successo dovuto al fatto che ho creduto nell'industrializzazione, nella modernizzazione del Brasile, e questo si è avverato; e frustrazione perché forse non percepivo abbastanza chiaramente la resistenza che esisteva ad un consolidamento più saldo di questo processo, cioè che, nonostante l'industrializzazione, si accumulava l'arretratezza sociale”.
Non c’è bisogno di dire altro, credo, sull’importanza di leggere ancora oggi O mito do desenvolvimento economico,ristampato buon tempo.
*Leda Maria Paulani è un professore senior presso FEA-USP. Autore, tra gli altri libri, di Modernità e discorso economico (boitempo) [https://amzn.to/3x7mw3t]
Riferimento
Celso Furtado. Il mito dello sviluppo economico. San Paolo, Ubu Editora, 2024, 160 pp. [https://amzn.to/3Zdg2Ky]
note:
, Vedi Celso Furtado, opera autobiografica (3 voll.). Rio de Janeiro: Pace e Terra, 1997.
, Id., “La lunga ricerca dell’utopia”, Economia applicata, v. 1, n. 3, 1997, pag. 545-63.
[3] Precedentemente collegato all'Istituto di ricerca economica di fea-usp (ipe-usp), responsabile degli studi post-laurea in Economia presso l'Università di San Paolo (campus di Butantã), Economia applicata Passò, qualche anno dopo, alla direzione della FEA-USP a Ribeirão Preto.
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