Il populismo contemporaneo, secondo Enrique Dussel

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da ANTONINO INFRANCA*

Commento a un saggio del filosofo argentino.

Il lettore italiano non deve commettere l'errore di considerare questo piccolo saggio di Enrique Dussel una curiosità filosofico-politica, cioè dedicata esclusivamente alla realtà latinoamericana, la cui lettura può accrescere la sua conoscenza di quel continente, in fondo lontano ed esotico. L'analisi del populismo di Dussel può essere estremamente utile anche per il lettore italiano ed europeo rispetto al fenomeno attuale dei populismi europei, o forse è meglio dire dei populismi europei.

In questa introduzione cercherò di indicare quali sono, a mio avviso, i punti di un possibile trasferimento dell'analisi di Dussel alla nostra realtà europea. Vorrei indicare un senso, una direzione di lettura del testo. Questo senso sarà inizialmente al vertice, cioè partendo dalla particolarità si arriverà all'universalità del fenomeno populista in America Latina, per poi coglierne le specificità utilizzabili anche in Europa.

Per cominciare, Dussel parte dall'analisi del fenomeno populista in America Latina, dove ha assunto una connotazione particolare, tanto da essere considerato un fenomeno esclusivamente latinoamericano. Come comunemente accade, la credenza diffusa non corrisponde pienamente al vero, ma quello che voglio sottolineare è che il populismo latinoamericano è emerso come fenomeno di emancipazione dall'egemonia angloamericana; fu quindi in origine un fenomeno di emancipazione dal controllo neocoloniale. Fino alla vigilia della prima guerra mondiale, l'Inghilterra deteneva il controllo – se non il predominio – dell'economia latinoamericana, dopo aver sostituito la Spagna durante il periodo dell'occupazione napoleonica della penisola iberica. Le vicissitudini europee, legate alla prima guerra mondiale, determinarono un processo di transizione nel controllo europeo dell'economia latinoamericana, come avvenne all'inizio dell'Ottocento tra Spagna e Inghilterra.

Questa volta sono stati gli Stati Uniti a prendere il posto dell'Inghilterra, ma il cambiamento non è stato repentino, bensì lento e costante con momenti di accelerazione e decelerazione. La crisi del 1929 provocò, ad esempio, un rallentamento, perché gli Stati Uniti, più dell'Inghilterra, risentirono della crisi economica e finanziaria e chiusero. La seconda guerra mondiale, al contrario, fu il momento di definitiva accelerazione del processo di cambiamento. Gli Stati Uniti, a loro volta, a causa della guerra, non riuscirono però ad occupare rapidamente il posto dell'Inghilterra nel controllo del Paese. Giardino dietro la casa (dal cortile), come i latinoamericani definiscono l'America Latina in relazione agli Stati Uniti.

Il momento del passaggio del controllo economico ha permesso ad alcune nazioni latinoamericane di fuggire all'estero. Tuttavia, possiamo riconoscere che questi movimenti populisti erano autenticamente popolari, in altre parole, erano motivati ​​solo da genuini interessi della gente, ovviamente manipolati da alcuni leader che provenivano in gran parte dal popolo e non dall'esterno. Dussel ricorda i più importanti e il lettore li ritroverà nel testo.

Ciò che conta è che il populismo è un fenomeno periferico in reazione a una debolezza del centro dominante. Quando il paese dominante è distratto, allora la periferia cerca di emanciparsi dal suo controllo. Dopo si vedrà in che direzione si muove questa emancipazione. In Messico e Brasile non ci sono stati veri movimenti di emancipazione, se ce ne sono stati, la borghesia industriale di entrambi i paesi è diventata più autonoma dalla borghesia americana.

In Argentina e Guatemala, l'emancipazione ha assunto un aspetto più sociale. L'Arbenz guatemalteco fu rovesciato in breve tempo, l'argentino Perón fu più resistente, in primo luogo per le dimensioni del suo paese, in secondo luogo anche per la tradizione economica argentina. Dobbiamo tenere presente che nel 1938 l'Argentina era la quinta economia mondiale e Perón distribuì una piccola parte di quella ricchezza ai suoi senza camicia, costruendo un vero e proprio Stato sociale.

La guerra aumentò ulteriormente la ricchezza dell'Argentina, il più grande esportatore mondiale di carne e uno dei primi esportatori di grano. Sulla base di questa ricchezza, Perón flirtò con l'Italia fascista e la Germania nazista e, dopo la guerra, non si allineò più fedelmente alla politica di dominio degli Stati Uniti. Così i vicini settentrionali, d'accordo con la borghesia nazionale che non sosteneva la distribuzione di servizi e redditi a senza camicia, ha imposto, con un colpo di stato, la fine del populismo peronista. La stessa fine ha avuto il populismo brasiliano con il misterioso suicidio del presidente della repubblica brasiliana, Getúlio Vargas. Possiamo concludere che, finita la crisi, il populismo latinoamericano è stato subito eliminato.

Rimase la ricchezza che si era accumulata approfittando della crisi economica e militare degli Stati Uniti, ma che fu trasferita agli Stati Uniti attraverso l'imposizione, prima, di democrazie deboli e poi, dopo la rivoluzione cubana, di sistemi militari regimi che, con la scusa del debito estero da loro contratto per finanziare la modernizzazione dei rispettivi paesi, hanno trasferito ricchezza – plusvalore – dalla periferia al centro. Seppur in misura ridotta rispetto agli Stati Uniti, anche l'Europa ha beneficiato di questo trasferimento di plusvalore: ricordiamo le decine di aziende che hanno trasferito la produzione nelle proprie filiali installate in America Latina, ma che poi l'hanno riportata nelle rispettive patrie il plusvalore prodotto “laggiù”. Un fenomeno che si è ripetuto negli ultimi vent'anni, per quanto riguarda l'Europa dell'Est, la Cina e altre periferie del mondo globalizzato.

Negli ultimi anni, il fenomeno populista è esploso nella realtà politica del mondo contemporaneo. L'analisi di Dussel del fenomeno populista inizia, come di solito fanno i suoi saggi, con una domanda: che cos'è il populismo? E da qui si passa alle domande successive: cos'è un popolo? Cosa è popolare?

Certo, il populismo moderno è molto diverso dal populismo storico, così come l'attuale populismo latinoamericano è diverso dal suo antenato storico. Questa trasformazione è dovuta al fatto che le persone sono cambiate, che a loro volta sono cambiate perché anche il mondo è cambiato. Ora prevale la globalizzazione, il processo di integrazione delle varie parti del mondo in una totalità più o meno uniforme e omogenea. In America Latina, all'inizio del secondo millennio, i popoli hanno manifestato la chiara volontà di rendersi protagonisti delle scelte da loro e per loro compiute, eleggendo presidenti e governanti che si proponessero di rappresentare le loro istanze di emancipazione. In pratica, il popolo vuole essere protagonista della propria storia. Dussel riprende il termine “plebs” di Laclau e lo trasforma in persone.

Il popolo, dice Dussel, diventa un attore collettivo, diventa il popolo, il popolo in sé. Il nazionalismo tratta le persone solo in funzione del loro essere in se stesse, non chiede loro di crescere, ma, tutt'al più, di godere di una presunta superiorità sugli altri popoli. Le persone che diventano attore collettivo delle proprie scelte manifestano crescita politica e sociale, rivendicano i propri bisogni insoddisfatti, chiedono vita. La sua dissidenza è una consapevolezza, un'autocoscienza della propria esistenza come attore collettivo. Il popolo compie un atto di interpellanza.

In conseguenza di questo nuovo significato di “popolo”, anche il “populismo” ha cambiato significato, è diventato un fenomeno di critica alla globalizzazione. E questo nuovo atteggiamento ha provocato la reazione dei media che usano il termine populismo in modo dispregiativo, senza alcuna distinzione all'interno del fenomeno. Si definiscono così fenomeni “populisti” molto diversi tra loro, come il lulismo in Brasile, il chavismo in Venezuela, il leghismo e il grillismo in Italia, il lepenismo o gilet gialli in Francia, il trumpismo negli Stati Uniti e così via. L'unica caratteristica comune tra questi fenomeni è la protesta contro la globalizzazione.

Ma cosa hanno in comune questi fenomeni nella loro essenza? Praticamente niente o pochissimo. Dobbiamo tenere presente che in America Latina il popolo lotta unito e compatto per la propria emancipazione, mentre in Europa o negli Stati Uniti il ​​popolo lotta per non condividere i propri vantaggi con i popoli della periferia; vantaggi che, in gran parte, sono il risultato del trasferimento di plusvalore dalla periferia al centro. In pratica non si vuole restituire il frutto del furto perpetrato nella storia dei rapporti Centro-Periferia, è un modo per liberarsi delle proprie responsabilità storiche.

In effetti, il populismo di centro è una difesa, una dichiarata debolezza, una chiusura entro i confini della nazione stessa, è un fenomeno di antiglobalizzazione conservatrice nei casi migliori, di reazione alla lotta per l'emancipazione dei popoli della Periferia. Non a caso i populismi europei si dichiarano, in molti casi, sostenitori del populismo trumpista americano. Non si tratta, quindi, di fenomeni di emancipazione, come era l'originario populismo latinoamericano, anzi, sono quasi l'opposto simmetrico. E poi, siamo sicuri che i populismi europei siano genuinamente popolari? Ci sono certamente leader che monopolizzano questi movimenti, ma nel caso di qualsiasi fenomeno populista europeo ci sono sospetti di manipolazione esterna, che non esistevano nel populismo latinoamericano originario.

Dussel indica la differenza tra “popolare”, che sarebbe ciò che appartiene al popolo, e “populista”, che è un termine confuso, poiché indica qualcosa che appartiene al popolo e alla comunità politica a cui appartiene, cioè, alla nazione. La comunità politica, come nazione, è un significato che riduce, minimizza il popolo, infatti il ​​popolo, come attore collettivo, è un movimento sociale, mentre la nazione è un fatto ontologico, per nascita, cioè nasce Italiani, francesi, inglesi, argentini, messicani e così via. La nazione è un fatto sovrapposto: si può nascere catalani e spagnoli contemporaneamente, anche se alcuni catalani non si sentono spagnoli, distinguendo tra nazione e cittadinanza.

Qui comprendiamo il fattore di confusione del "populismo" europeo: se "populista" è qualcosa che viene dalla comunità politica nazionale, allora cos'è una nazione? In Europa si può appartenere a una comunità politica e non a una nazione o viceversa. Cito il caso della Catalogna, che è il più famoso in Europa, ma potrei aggiungere le province basche, la Scozia, la Corsica, la Transilvania ungherese e altri casi ancora minori. I catalani sono un popolo? Come sappiamo, circa la metà della società civile catalana è favorevole alla nascita di una Catalogna indipendente, quindi siamo di fronte al caso di un popolo a metà? Oppure un fenomeno “populista”? O meglio: quando un popolo, come movimento sociale, è davvero un popolo?

Dussel risponde che il popolo è una parte che rappresenta il tutto, cioè quando una minoranza avvia un processo di lotta nonviolenta per emancipare la totalità della comunità politica. In Catalogna, circa la metà della popolazione locale vuole emancipare tutti i catalani da una comunità politica, la Spagna, che garantisce ampi diritti alla popolazione catalana, compreso il diritto di usare la propria lingua, mentre i separatisti catalani hanno cercato di imporre il dovere usare il catalano – tentativo fallito nel 2010 a causa dell'intervento della Corte costituzionale spagnola che garantisce i diritti dei cittadini spagnoli. In Europa hai il diritto di parlare la tua lingua, anche se appartieni a una minoranza linguistica, non c'è il dovere di farlo.

Un'altra situazione in America Latina, dove ci sono popoli/nazioni a cui storicamente è stato negato il diritto di esistere e solo negli ultimi anni è stato riconosciuto il diritto di esistere. Mi riferisco alle nazioni indigene di Bolivia, Ecuador, Perù, Colombia, Messico, Brasile. In quest'ultimo caso, il presidente della repubblica, Bolsonaro, si batte per l'eliminazione fisica degli indigeni amazzonici grazie alla pandemia, non curandosi di prestare cure e assistenza agli indigeni che, comunque, sono brasiliani. In altri paesi latinoamericani si sta progressivamente riconoscendo il diritto all'esistenza come particolarità etnica, ma rimane l'esempio di mobilitazione popolare che sostiene questa rivendicazione/interpellanza.

Uno dei problemi tipici del populismo è la leadership. I casi latinoamericani sono emblematici, e sono, grosso modo, copiati anche in Europa, al punto che si può dire che non c'è populismo senza una forte leadership personale. In Francia, il lepenismo è un fatto noto, a proposito, il vecchio Le Pen ha cercato di impedire a sua figlia di ereditare la guida del lepenismo. In Italia il grillismo non sarebbe emerso senza Grillo, che appunto dà il nome al suo populismo. Lo stesso vale per il trumpismo. Solo in Germania il populismo dell'“Alleanza per la Germania” non ha una spiccata leadership personale. Ma, come sostiene Dussel, il rappresentante del popolo, come il leader populista, quando sale al potere feticizza la sua rappresentanza politica e prende le distanze dai rappresentanti, dal popolo. Non ascolta più le domande della gente.

Dussel conclude la sua analisi con una proposta politica, spiega cioè come un popolo in movimento dovrebbe organizzare la sua azione politica emancipatrice. Dussel indica soprattutto qual è il campo d'azione della vera politica, cioè la quotidianità. È un discorso già usato dal vecchio Lukács, che difendeva la necessità di una democratizzazione della vita quotidiana. Dussel, indipendentemente da Lukács, sviluppa il suo progetto, sostenendo che solo le piccole istituzioni, che si trovano in fondo alla scala politica e sociale, possono gestire i problemi della vita quotidiana dei cittadini. Le decisioni prese dal basso dovrebbero essere prese da rappresentanti che hanno una rappresentanza limitata, cioè dovrebbero essere semplici portavoce della volontà popolare. Si tratta, quindi, di un modello di democrazia partecipativa.

Questo modello è una ripresa del progetto originario della democrazia sovietica che, a sua volta, è una ripresa della democrazia originaria degli Stati Uniti alla sua nascita. Furono, poi, i rappresentanti del potere negli Stati Uniti a feticizzare la propria rappresentanza ea limitare a due o quattro anni l'espressione della volontà popolare, trasformandosi in portavoce della volontà politica. Il modello degli Stati Uniti è stato poi adottato da altri paesi con democrazia rappresentativa, perché non è il miglior sistema politico, ma il meno cattivo, secondo Winston Churchill. In realtà si è trattato di un'adozione selettiva, perché l'originaria democrazia dal basso è stata eliminata.

Per evitare la feticizzazione della rappresentazione, cioè il distanziamento tra società politica e società civile per usare il lessico gramsciano che Dussel utilizza nella sua analisi, è dunque necessario trovare un equilibrio tra gestione del potere e governabilità. Secondo Dussel, il potere conferito alla società politica è il “potere obbediente”, cioè il potere che il leader ottiene dall'obbedienza alla volontà popolare. Il leader non deve essere l'interprete della volontà, tanto meno la sua incarnazione, deve piuttosto obbedire alle decisioni prese dal popolo, che dal basso raggiunge le istanze più alte del potere politico, sociale ed economico. Solo obbedendo il leader ha il potere di imporre decisioni, che non sono le sue, ma quelle del popolo o della sua maggioranza.

Questa è una tradizione molto antica, che risale alle comunità di villaggio che esistevano in America Latina prima della conquista del continente; è una tradizione che è sopravvissuta, perché relegata in piccole comunità di base, lontane dall'immaginario del potere centrale, che poco si curava dell'organizzazione politica dei popoli indigeni dominati, in quanto obbedivano alle imposizioni del potere centrale coloniale o potere neocoloniale. È un'organizzazione che viene salvata oggi dal Movimento dos Sem Terra in Brasile. Quindi la conclusione di Dussel è che un popolo che eserciti pienamente la democrazia partecipativa ha bisogno di una leadership debole, non di una leadership forte, come è piuttosto la tradizione del populismo.

Ci sono, quindi, grandi differenze tra il populismo europeo e quello latinoamericano. Queste differenze si possono dedurre dall'analisi di Dussel, nonostante si sia molto giustamente dedicato all'analisi del nuovo populismo latinoamericano. Non è infatti suo interesse dettare linee politiche a realtà sociali ed economiche, alle quali lui stesso non appartiene. Insomma, non si comporta come gli intellettuali del Centro che spiegano agli attori politici della Periferia come devono comportarsi nel proprio spazio politico. Dobbiamo saper tradurre le sue analisi nella nostra realtà sociale, selezionando similitudini da mantenere e differenze da tralasciare.

*Antonino Infranca Ha conseguito un dottorato in filosofia presso l'Accademia delle scienze ungherese. Autore, tra gli altri libri, di Lavoro, individuo, storia: il concetto di lavoro in Lukács (Boitempo).

Traduzione: Giuliana Hass.

Riferimento


Enrico Dussel. “Cinque tesi sul populismo”. In: Filosofie del Sud. Decolonizzazione e transmodernità. Messico, Akal, 2015, pp. 219-248

 

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