Il “populismo” non è la soluzione

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da LUIS FELIPE MIGUEL*

La sinistra deve presentare un orizzonte che promuova il superamento dell’oppressione e della privazione. Il percorso verso questo è un progetto anticapitalista

“Populismo” è una di quelle parole così logore dall’uso che è difficile dargli rigore concettuale. Il suo utilizzo in diversi contesti storici si riferisce a fenomeni molto diversi – come mettere Andrew Jackson, il narodnik Russi e governanti latinoamericani della metà del secolo scorso?

In ambito giornalistico e tradizionale Nella scienza politica odierna, il populismo è un'etichetta generica che identifica qualsiasi leadership o discorso considerato demagogico e che si discosta dal consenso liberale. I due aspetti, infatti, sono complementari, poiché tutto ciò che si discosta da questo consenso è considerato demagogico a priori. L’idea del populismo è utile, quindi, per costruire l’immagine di un centro virtuoso e pareggiare i suoi avversari di destra e di sinistra. Trump e Maduro, Bolsonaro e Lula, il “politicamente scorretto” dell’estrema destra e le politiche a favore dei più poveri vengono presentati come incarnazioni opposte, ma simmetriche, dello stesso male.

Forse sorprendentemente, una parte del pensiero di sinistra ha adottato la nozione di un populismo camaleontico, con incarnazioni in tutto lo spettro politico, ma dotandolo di positività. La persona principalmente responsabile andatura è stato il defunto Ernesto Laclau, che lo vede come l’invocazione di un popolo indeterminato e vago, fatto soggetto collettivo della lotta contro un “altro” costruito discorsivamente. Per Laclau, questa caratteristica del populismo deve essere intesa come una risposta a una realtà sociale che è essa stessa segnata da vaghezza e indeterminatezza.

Tuttavia, questo verdetto avrebbe bisogno di essere dimostrato. La realtà sociale è davvero così vaga, così indeterminata? Oppure la nostra analisi è vaga e indeterminata, pigra o impotente di fronte a una realtà complessa? Inoltre, vale la pena ricordare che lo stesso Laclau non si stanca di affermare il carattere produttivo del discorso politico (la sua risposta all’altra costante accusa contro il populismo, cioè che si tratta di “mera retorica”). In questo caso, il populismo sarebbe un riflesso o – scommettendo su un soggetto collettivo volutamente fluido e incerto – un produttore dell’indeterminatezza della realtà sociale?

In un momento in cui la sinistra ha difficoltà ad attivare la propria base sociale, colpita dai cambiamenti accelerati nel mondo del lavoro e dall’offensiva ideologica neoliberista, la deriva populista appare seducente. Autori come Nancy Fraser ripongono le loro speranze in un impreciso “populismo progressista”. Ma la principale portavoce del progetto è Chantal Mouffe. Nel testo recentemente tradotto in portoghese – pubblicato sul sito web Altre parole, critica “la struttura teorica razionalista che spesso è alla base della politica di sinistra” a favore di una strategia populista orientata verso un’altrettanto sfuggente “trasformazione democratica verde”.

È un aggiornamento, destinato a un vasto pubblico, delle idee che Mouffe ha espresso nel suo libro Per un populismo di sinistra (Verso, 2018). La lettura del populismo data da Mouffe è ancor più schmittiana di quella di Laclau. Si tratta di tracciare la linea di demarcazione tra “amico” e “nemico” in modo che coincida con la definizione di “popolo” e “antipopolo”.

Trattandosi di una costruzione discorsiva, c’è una malleabilità infinita nella progettazione di tale confine. Il “popolo” può essere definito in opposizione agli stranieri. O alle “élite ben pensanti” interessate ai diritti delle minoranze. Oppure i corrotti. Mouffe non sviluppa il punto, sul quale sarebbe certamente d’accordo, ma è importante mettere in prospettiva la tendenza all’accettazione acritica della categoria “popolo” che questo approccio al fenomeno del populismo dà origine. Il fatto che il confine tra le persone e stabilimento è spesso falso e manipolato a favore del proprio stabilimento semplicemente non sembra una questione importante.

Mouffe critica, in un modo che mi sembra giusto, la posizione di gran parte del centrosinistra, che si condanna a difendere le istituzioni liberali, la democrazia limitata e status quo. Nel libro scrive che la forza del populismo di destra risiede nella sua capacità di creare un confine noi/loro che si opponga all’oligarchizzazione della politica neoliberista. E va oltre: classificare questi partiti, leader e movimenti come “di estrema destra” o “neofascisti” è un modo di rifiutare le loro richieste senza riconoscere “la dimensione democratica di molti di loro”.

Emerge a questo punto una certa visione platonica della categoria “popolo”, tipica della riflessione più recente di Mouffe. Secondo lei l’unico modo per affrontare il populismo di destra è dare “una risposta progressista alle richieste democratiche che esprimono in un linguaggio xenofobo”, che include ancora una volta una valida critica alla posizione di gran parte della sinistra come guardiani del movimento liberale. ordine, ma è ovvio che tutto ciò che si presenta in nome di una categoria costruita come “popolo” è, per definizione, democratico.

Tuttavia, come ha osservato (tra gli altri) Éric Fassin, l’identità collettiva costruita dal populismo di destra si fonda su un affetto politico, un risentimento, che è molto lontano dalla rivolta tipica della politica di sinistra. Accostare entrambe le posizioni per una superficiale vicinanza retorica oscura la realtà – ed è imperdonabile per chi, come Mouffe, sostiene che sia necessario “rimettere gli affetti al centro della politica” (la citazione è dall'articolo tradotto in portoghese , quindi responsabilità del redattore, ma riassume bene il suo pensiero).

Per Mouffe, però, la risposta alle sfide attuali consiste nel costruire “un altro popolo” – cito ancora dal libro del 2018 – diverso da quello della destra populista, attraverso “la mobilitazione delle passioni in difesa dell’uguaglianza e della giustizia sociale”, la che richiede di abbandonare un approccio così razionalista. Anche se non si può certo fare politica senza passione, è complicato gettare via la ragione, come sembra fare Mouffe, alla ricerca di una massa amorfa che proietti la sua unità nell’identificazione affettiva con un leader – che è l’orizzonte di riletture positive del fenomeno populista.

Il problema principale, mi sembra, è la mancanza di materialità delle categorie. Il rapporto tra dedemocratizzazione e impero del capitale finanziario è solo uno sfondo tenue e sbiadito. Il popolo di Mouffe, “significante vuoto”, non si riferisce ad alcun rapporto di dominio, quindi non è possibile stabilire il rapporto tra democrazia e lotta contro le forme di dominio presenti nella società.

Nonostante tutte le sue critiche al trionfo del liberalismo sulla democrazia, il quadro liberale che separa la politica come sfera separata non viene messo in discussione. Parte dei limiti della sua teoria derivano dalla sua tendenza a ridurre la lotta politica alla competizione elettorale (come chiaramente affermato nel suo libro precedente, Agonistica, 2013): il popolo indeterminato, la cui grande qualità è l’essere maggioritario, è l’immagine dell’elettorato indistinto delle democrazie liberali. È curioso che le istituzioni rappresentative siano al centro del percorso proposto per la nuova sinistra proprio nel momento in cui, grazie al potere sempre più incontrollato del capitale, appaiono sempre più svuotate di potere.

La scommessa sul populismo appare come una sorta di pista veloce per la mobilitazione dei subordinati, in sostituzione della politica di classe. Nel testo recentemente tradotto in Brasile, Mouffe fa derivare questa posizione da quella espressa in Egemonia e strategia socialista, il libro pubblicato da lei e Laclau negli anni 1980. Qui è necessario sottolineare che Mouffe sta dando una lettura parziale e miope della stessa Mouffe. L’opzione populista rappresenta un grande passo indietro rispetto alle proposte allora presentate da Laclau e Mouffe.

Diagnosi della crisi della concezione del socialismo basata sulla “centralità ontologica della classe operaia”, sull’idea di Rivoluzione e sulla fede nella possibilità di una volontà collettiva perfettamente omogenea, “che renderebbe inutile il momento della politica”, Egemonia e strategia socialista propone che il compito della sinistra sia quello di promuovere l’articolazione delle diverse richieste di emancipazione. È necessario superare ogni lettura unilaterale della dominazione sociale e comprendere che l’asse di classe non è l’unico, né ha un primato automatico, accettando, come dato di realtà su cui lavorare l’immaginazione politica, la presenza e la centralità delle richieste di emancipazione di altri gruppi oppressi, nonché del fatto che queste molteplici richieste non si armonizzano da sole. La politica della sinistra, quindi, implica articolarli in un progetto di trasformazione sociale.

Si tratta, tuttavia, di una visione che parte dalle determinazioni concrete del dominio e si propone di articolare i gruppi dominati non come un “significante vuoto”, da produrre arbitrariamente da qualsiasi discorso politico, ma piuttosto nell’ambito di un progetto di emancipazione. Mouffe ha torto nel ritenere che l’alternativa al “populismo progressista” sia un ritorno alle forme di lotta politica del XX secolo. Non si tratta di recuperare fiducia nella missione teleologica della classe operaia, tanto meno di giudicare che il compito consiste nel far trasformare la “classe in sé” in una “classe per sé”. Si tratta piuttosto di comprendere i meccanismi delle diverse forme di dominio sociale e, in particolare, di comprendere che l’ordine capitalista è il filo che le unifica.

La critica che Maurizio Lazzarato fa al populismo di sinistra in stile “Possiamo” – portando il capitalismo in secondo piano e puntando su una trasformazione sociale centrata sulla rappresentanza politica – vale, e non a caso, anche per Mouffe. La sinistra deve presentare un orizzonte di cambiamento radicale, per la classe operaia, per le donne, per la popolazione nera, per le popolazioni indigene, per la comunità LGBT, un orizzonte che promuova il superamento dell’oppressione e della privazione. Il percorso verso questo non è un discorso populista, ma un progetto anticapitalista.

* Luis Filippo Miguel È professore presso l'Istituto di Scienze Politiche dell'UnB, dove coordina il Gruppo di Ricerca su Democrazia e Disuguaglianze (Demodê). Autore, tra gli altri libri, di Dominio e resistenza: sfide per una politica di emancipazione (Boitempo).

 

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