Cos’è il totalitarismo?

Immagine: George Becker
WhatsApp
Facebook
Twitter
Instagram
Telegram

da WESLEY SOUZA*

Il “totalitarismo”, nel senso in cui è emerso, significa molto meno di quanto si supponga, poiché cerca di comprendere fenomeni generali che il concetto particolare non è in grado di affrontare da solo.

Il problema

A fine 2021 ho letto l'articolo della professoressa Yara Frateschi, sulla rivista Quaderni di filosofia tedesca (v. 26, n. 2). Il titolo è abbastanza eloquente: “Hannah Arendt e Ruy Fausto sulla genesi del totalitarismo di sinistra”. Subito, come ogni attento lettore di filosofia politica, nel titolo si legge qualcosa che attira l'attenzione e, non ultimo, che è problematico. La “genesi del totalitarismo”, secondo l’autore, è un recupero dell’eredità teorica che proviene da entrambi gli autori, ciascuno nel proprio contesto di produzione, ma che mostra affinità nelle riflessioni su una certa “procedura di negazione della realtà che si avvicina a quello del negazionismo di destra” (FRATESCHI, 2021, p. 31).

In questo breve testo mi propongo – e spero di riuscirci – di sovvertire la questione di cosa sia questo soprannome (il concetto politico). In particolare sotto gli auspici della parsimonia concettuale, che raggiungerebbe i confini della razionalità progressiva e, nel senso lato, rivisitando alcune antinomie della sinistra stessa.

Yara Frateschi disprezza lo sviluppo e il conseguente lavoro servile, costruito sulla divisione sociale del lavoro, sulla divisione tra lavoro intellettuale e manuale, e sulla divisione della società in classi di fronte al processo produttivo. Solo in questa divisione storicamente ed effettivamente costruita – che culmina nell’emergere della politica come la intendiamo noi – essa sostituisce come necessità il controllo del lavoro, le modalità di realizzazione della distribuzione e del consumo e i loro processi effettivi, nonché la decisione dei produttori si alienano dalla classe che domina e personifica il processo di sfruttamento e di violenza diretta.

Questa determinazione della società classista non è un'anomalia, ma qualcosa che trasmuta, nelle sue forme particolari, momenti storici determinati dallo sviluppo delle forze produttive e dalle possibilità che derivano dalle forme di estrazione del plusvalore. Ricordiamo che la storia non è riducibile alla “lotta di classe”, ma piuttosto a una delle tante altre componenti di essa, e non a una “legge suprema della Storia come legge di movimento”, come scrive Yara Frateschi, seguendo Hannah Arendt. Non si tratta quindi di una lettura interpretativa tagliente, ma si ripete un uomo di paglia marxista.

Il problema, ovviamente, sta nei limiti e nelle impasse del contesto storico di un tempo, che trovano coerenza con limiti e impasse nelle proprie risoluzioni, parziali o meno. Non c'è nulla di nuovo in questo. La novità, tuttavia, porta alla chiusura ermetica dei concetti, nonostante la loro essenza, che necessitano di prendere forma nelle circostanze in cui tali terminologie vengono promulgate. In tempi in cui il dibattito filosofico aperto viene ridotto in vista dei “reati”, la filosofia può avanzare solo in dialoghi aperti, puntando sempre a un comune orizzonte di cambiamento. Questa è la mia spesa qui.

Lotta di classe, democrazia e politica

In primo luogo, diamo un’occhiata a un rapido esempio di come il filosofo del diritto Alysson Mascaro intende il modo in cui “la struttura politica del capitalismo è stata costruita, negli ultimi due secoli, solo in un processo variabile di affermazione, negazione, garanzia, selettività e limitazione di standard dei diritti umani” (MASCARO, 2017, p. 110). Pertanto, nel liberalismo classico lo Stato parte da un costrutto teorico, da un patto collettivo, la sua funzione sarebbe, secondo i contrattualisti, quella di un contratto sociale. La sua funzione era quella di soddisfare bisogni vitali, come la libertà, la sicurezza e la proprietà.

Possiamo dedurre che la Legge (il sussidio ai diritti umani) è il risultato logico con cui la classe dominante presenta il proprio ordinamento come il migliore, il più appropriato. Tuttavia, pari passu, “i cosiddetti diritti umani sono un certo insieme di specifiche garanzie politiche e giuridiche sostenute dalle stesse individualità” (MASCARO, 2017, p. 117).

Sotto questo aspetto, questa nozione antipredicativa, cioè la nozione omogeneizzante di “soggetto di diritto”, costituisce una mediazione attraverso la quale l’uguaglianza giuridica può consolidarsi nel diritto ad un eguale sfruttamento reale di fronte all’astrazione consenziente del “ diritti umani” in lotta. Per questo motivo, “l’instaurazione della società capitalistica comporta che gli individui siano trattati obbligatoriamente e riconosciuti come dotati di libera volontà, presumibilmente paritaria, per il contratto di sfruttamento del lavoro salariato” (MASCARO, 2017, p. 118).

Notiamo che, secondo questa argomentazione di Mascaro, essa può essere messa in luce, ad esempio, nel suo articolo Diritti umani: una critica marxista (2017), quando afferma la storicità politica dello Stato e del diritto, come specificità della forma sociale esistente. Rifletterebbero, secondo lui, le forme stesse della socialità capitalista. Nelle sue parole, quindi, “i diritti umani vengono negati proprio da coloro che operano entro i loro termini e le loro lodi. La sua istituzionalizzazione e riproduzione sono sostenute da vari livelli di forme sociali e di relazioni necessarie” (MASCARO, 2017, p. 110).

In questo senso, non si tratta di negare per comodità o di “relativizzare” quelli che vengono chiamati “diritti umani” di una presunta sinistra rivoluzionaria, ma di comprendere oggettivamente quali essi siano: si tratta, infatti, di comprendere la loro oggettivazione immanente nella società. .di classi. Non ci è lecito, per ironia della sorte, la comodità di creare archetipi scherzosi e peggiorativi, come quelli letti nei testi di Yara Frateschi (se il suo discorso è con l'accesa ideologia stalinista di alcuni “influencer” digitali, allora va bene. ), laddove i rivoluzionari «considerano ipocrita e omicida l'antitrascendentalismo di circostanza della borghesia imperialista europea, non tutte le sinistre considerano ipocrita e omicida l'antitrascendentalismo di circostanza giacobino e bolscevico» (Idem, p. 35).

In questo modo, la lotta di classe sarebbe uno dei punti nodulari per comprendere questo fenomeno: la politica è, senza battere ciglio, un effetto della lotta di classe. Questo fenomeno, consolidato solo negli scritti di Marx – pur esistendo in modo più timido in diverse filosofie precedenti, tra cui Adam Smith, Rousseau e Hegel, per esempio, ha potuto essere svelato alla luce del “materialismo storico” (termine non ha mai utilizzato e gli viene attribuito), soprattutto come la lotta di classe si combatte non solo nel contesto comunemente inteso, soprattutto in quello politico stesso, nel gioco “istituzionale”, nella formazione dei partiti, nei diritti civili (che condensare le idee di gruppi specifici in disputa), ecc.

«Marx non prescinde del tutto dall’emancipazione politica, cioè dal rinnovamento storico-concreto della morfologia dello Stato. Lo vede come un processo incompleto, come una conquista parziale dell'umanità. L'uomo cerca di emanciparsi con lo Stato Moderno nel suo pieno compimento, cerca cioè di raggiungere attraverso questo complesso la purezza universalista, ma ancora non si emancipa realmente, nella vita concreta, nella sua realtà effettiva, lasciando l'individuo privato, la società privata, come regno delle particolarità, delle alienazioni e delle disuguaglianze, intatta e presupposta come società naturale. In conclusione, i diritti dell'uomo, distinti dagli orientamenti dei diritti del cittadino, sono i diritti della vita privata, dell'individualità borghese e della socialità intesa nei loro termini, dell'individuo classificato come “monodo egoista”, cioè “l'uomo” è l’uomo borghese, forgiato dentro se stesso e l’atomizzazione della società borghese” (COELHO; SOUSA, 2020, p. 36).

Nel tono di Hannah Arendt, in altro modo, vediamo considerazioni sulla violenza, per “salvare” il concetto di politica. Afferma che la violenza, sebbene possa essere utilizzata come elemento politico, non appartiene di per sé a questo campo. Infatti, secondo le parole di Marx ed Engels, “il potere politico è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra”. Esattamente, è il potere politico (lo Stato) che “organizza” la società, quindi la violenza non è sempre la risorsa diretta per “ordinare” la società – o, in gergo popolare: mantenere i poveri e gli oppressi al loro posto. Proprio come la democrazia e la dittatura sono due forme distinte di dominio di classe, la violenza diretta o indiretta ne fa parte modus operandi della divisione sociale del lavoro.

Pertanto, la “violenza rivoluzionaria” non è altro che un atto storico contingente, compiuto da forze oggettive e soggettive che convergono, nel senso di una ideazione preventiva del suo atto attuativo, non dei suoi “fini”. Questo non è un normativismo teorico “totalitario” o aggettivi simili. Con ciò si può respingere una presunta teleologia storica da qualsiasi prospettiva critica, cioè se si vuole criticare il “marxismo”.

C’è un passaggio del filosofo brasiliano José Chasin, molto chiaro sul problema: “In Marx lo Stato e la politica in generale, come dominio separato, devono essere superati attraverso una trasformazione radicale del complesso sociale. L’azione sociale prevista non può essere una rivoluzione politica, ma sociale, pena il pagamento del peso di rimanere intrappolati nei confini di forme politiche antiquate. La rivoluzione sociale mira a rimuovere la contraddizione tra parzialità e universalità che le rivoluzioni politiche del passato hanno sempre riprodotto, sottoponendo la società nel suo complesso al dominio della parzialità politica, a vantaggio del settore o dei settori dominanti della società civile. L’agente sociale dell’emancipazione è il proletariato. Le lotte politiche e socioeconomiche costituiscono un'unità dialettica; di conseguenza, trascurare la dimensione socioeconomica priva la politica della sua realtà” (CHASIN, 2013, p. 25).

La politica nasce con la società classista e la accompagna (questo punto non è pacifico nemmeno nel marxismo, tanto meno al di fuori di esso). Il senso della politica può essere compreso solo in questi termini: esiste una centralità della politica nel mondo contemporaneo per la sua critica o affermazione, o, al contrario, è il mondo contemporaneo a porre in realtà questa presunta “centralità” politica? ? La libertà è, infatti, un predicato idealizzato della politica? La sfera pubblica presuppone la politica? Ciò che distingue un “totalitarismo” da un altro è la forza dell’accusatore? (Chi è un terrorista, Israele o “Hamas”?)

La democrazia, a sua volta, non è altro che un assetto agevolativo messo in discussione ad ogni passo della lotta di classe, si vede presto che non è un “valore universale”, così come la politica non ha una propria legalità. Questa prerogativa della centralità del politico è evidente nei complessi sociali, configurando in Hannah Arendt un certo conservatorismo filosofico e politico che si approfondisce nelle sue formulazioni critiche, anche non direttamente, in relazione alle filosofie emancipatorie, come in Marx e Lenin. Per quanto ci riguarda, la “democrazia” è intesa come un elemento, non solo come un punto chiave stagnante, ma come un processo continuo. La soppressione dell’attuale democrazia formale per erigerne un’altra, come processo non di “riforme”, o di difesa ampia e astratta delle istituzioni borghesi, ma di scontro immediato contro di esse, per mettere in atto la democrazia sostanziale e socialista (cfr. LUSSEMBURGO, 2018) .

Errori derivanti da un dibattito mal posizionato

Per Hannah Arendt il fenomeno della rivoluzione, essendo essenzialmente un evento politico, non avrebbe lo scopo di risolvere problemi economici e sociali. Esiste unicamente per fondare un nuovo corpo politico in cui lo spirito è libertà. Tuttavia, le rivoluzioni storiche hanno dimostrato il contrario, come nel caso delle rivoluzioni russa e cinese (SOUSA, 2020, p. 12). L'insistenza rivisitata da Frateschi non è casuale. Sulla base delle tesi arendtiane, è poi Ruy Fausto a sostituire arbitrariamente la questione del “progresso”, in una presunta filosofia della storia. L’idea di “regressione storica” sostenuta dall’autore e che Frateschi riconosce è quantomeno curiosa: Hannah Arendt era consapevole del collegamento ombelicale tra il dominio imperialista come forma politica del capitalismo: “il razzismo e la pratica dello sterminio come politica di Stato» (idem, p. 41).

Il significato della “tesi secondo cui le rivoluzioni russa e cinese implicavano una regressione storica, Ruy Fausto deve impegnarsi nell’idea che entrambe interrompono una linea di progresso storico” (p. 39). È chiaro – ed è bene ricordarlo – che non è plausibile, come fanno Hannah Arendt e Ruy Fausto, ciascuno nel proprio modello, attribuire una certa responsabilità per le conseguenze storiche che le contingenze rivoluzionarie possono avere (che non ha senso); d’altro canto è inconcepibile collocare il disegno “comunista” come simile al nazismo – forse parità di genere e camere a gas sono la “stessa cosa” nel fantastico mondo dell’“antitotalitarismo”. Dopotutto, che “negazionismo” e notizie false abbiamo adesso?

La caratterizzazione della libertà da parte dell'autore nell'articolo è strana, poiché la prospettiva rivoluzionaria è, quindi, un'avversione per le libertà (cosa significa?). L'associazione tra liberalismo e democrazia – nella quale Yara Frateschi distoglie lo sguardo secondo la traballante concezione di Ruy Fausto – aveva una funzione ideologica quasi esclusiva. Possiamo citare alcune personalità liberali, in tempi diversi, capaci di esprimere questa stessa sfiducia nei confronti della democrazia, come Friedrich Hayek: già nella seconda metà del XX secolo, esprimendo sfiducia nei confronti del suffragio universale e della democrazia, che dovrebbero essere intesi esclusivamente come uguaglianza, cioè uguaglianza davanti alla legge.

Ancora oggi nelle relazioni internazionali il mondo liberale è nemico della “democrazia” (basata sul principio universalista dell’uguaglianza sostanziale). Winston Churchill, noto genocidio, ma trattato da “democratico”, amava dire che, a livello internazionale, i paesi più ricchi dovrebbero “guidare” quelli più poveri (basti ricapitolare quello che aveva fatto in India, per esempio). La discriminazione censuaria, eliminata nella democrazia nazionale, ritorna nella democrazia a livello internazionale. Questo, ad esempio, era anche, a suo modo, il pensiero di Benjamin Constant, che considerava le classi popolari come minori incapaci di partecipare alle questioni politiche (cfr LOSURDO, 2014, p. 185). Questo è solo per concentrarci su esempi canonici.

Tuttavia, tornando a ciò che è importante per noi comprendere qui nel testo, la concezione rivoluzionaria di Hannah Arendt, nelle parole di Eric Hobsbawm, costituisce una “certa assenza di interessi nei fatti semplici” (HOBSMBWM, 1985, p. 205), mentre vede il problema della “politica”. In questo senso, sia la lettura rivisitata di Ruy Fausto che i commenti di Yara Frateschi partono direttamente da principi circostanziali e parziali per corroborare la questione del “totalitarismo”, come termine generico in filosofia.

Sarebbe interessante, in questo caso, capire che questi concetti – ovvero il revisionismo storico, che, di fatto, costituiscono un atteggiamento reazionario e disonesto nella storiografia (cfr. HOBSBAWM), come dimostreremo di seguito. Tuttavia, per illustrare il pregiudizio conservatore e piuttosto discutibile della visione della storia di Arendt, vale la pena portare alla luce passaggi degli scritti dello storico britannico Eric Hobsbawm: “per quanto riguarda gli studi sulla Rivoluzione francese e sulla maggior parte delle altre rivoluzioni moderne, /…/ Il libro [della Arendt], quindi, sopravvive o soccombe non a causa delle scoperte dell'autrice o della sua percezione riguardo a determinati fenomeni storici specifici, ma a causa dell'interesse delle sue idee e interpretazioni generali /…/ Ci saranno senza dubbio autori che lo faranno trovano interessante e utile il lavoro di Hannah Arendt, ma è improbabile che gli studiosi di rivoluzioni, siano essi storici o sociologi, siano inclusi tra questi” (HOBSBAWM, 1985, p. 202-8).

In tal modo, qualsiasi comprensione del marxismo, coerente con i suoi principi, sa che non è una ricetta rivoluzionaria per una violenza illimitata, come se fosse un godimento sociale di ciò che la violenza inerente al capitalismo già impone quotidianamente alle persone. La critica marxista della democrazia persiste in questo: intendendo, nei suoi termini, anche i limiti imposti dalla società classista, e non dei “modelli” eretti mentalmente per farne un concetto filosofico, come nel caso di Hannah Arendt e Ruy Fausto, che indicano la “reticenza” di Marx riguardo alla libertà. Infatti Friedrich Engels nel suo Anti Dühring, confutando nozioni arbitrarie di “libertà”, ne rivela un elemento altrettanto fondamentale. Per lui “la libertà consiste, quindi, nel dominio su noi stessi e sulla natura esterna fondato sulla conoscenza dei bisogni naturali; in questo modo è necessariamente un prodotto dello sviluppo storico” (ENGELS, 2015, p. 113), cioè di un dominio che si stabilisce solo su forme specifiche di organizzazioni sociali, non su costruzioni mentali o “leggi ferree” nella storia…

Inoltre, in relazione alla democrazia, facciamo alcune osservazioni su ciò che deriva da questa critica allo Stato – e sfugge agli auspici idealistici della filosofia politica tradizionale. Perché, come vedremo, per citare Rosa Luxemburg, la sua difesa della democrazia non è semplicemente una difesa astratta, né volontaristica (come appare nell'articolo di Frateschi che dà origine a Faust e Arendt), ma piuttosto un'abolizione del diritto liberale democrazia, cioè superare la dittatura del capitale (“democrazia borghese”) ed erigere una democrazia sociale, cioè una trasformazione rivoluzionaria, e non riforme nell’ambito del capitale. Ciò è direttamente connesso alla critica dello Stato, della democrazia borghese, ecc.

Rosa Luxemburg, quando scrive Riforma o rivoluzione?, si occupavano della politica doganale e del militarismo, dello sviluppo della borghesia, nel senso che hanno svolto, in una certa misura, ruoli rivoluzionari, indispensabili nella storia del capitalismo – accumulazione ed espansione del capitale; Subito dopo, tuttavia, postula che “anche il militarismo si è trasformato da motore dello sviluppo capitalistico in una malattia capitalista”. Con ciò lo Stato, come locomotiva della reazione, acquisisce sempre più funzioni di controllo e di gestione e, infine, fa deragliare l’imminente apparato repressivo e violento. Da ciò la Luxemburg afferma direttamente: "Lo sviluppo della democrazia, che anche Bernstein vede come mezzo per l'instaurazione graduale del socialismo, non contraddice, ma, al contrario, corrisponde interamente al cambiamento dello Stato sopra descritto" ( LUSSEMBURGO, 2018, pag. 34).

È anche possibile osservare come si pone questa critica: secondo l’autore polacco, la democrazia, cioè il “controllo sociale”, sarebbe correlata con l’espansione del militarismo e del colonialismo. Pertanto «le forme democratiche della vita politica sono un fenomeno che esprime in modo più forte l'evoluzione dello Stato verso la società». Sulla base di questa qualificazione, conclude come segue: “Si può dire che, secondo la sua forma, la democrazia serve a esprimere gli interessi dell'intera società nell'organizzazione statale. D'altra parte, però, essa esprime soltanto la società capitalista, cioè una società conforme agli interessi capitalistici. Le istituzioni che, per la loro forma, sono democratiche, diventano così, per il loro contenuto, strumenti degli interessi delle classi dominanti. […] E la democrazia nel suo insieme non appare come un elemento immediatamente socialista, che riempie a poco a poco la società capitalista […], appare come un mezzo specificamente capitalista di maturazione e di espressione delle contraddizioni capitaliste” (LUSSEMBURGO, 2018, p. 35 -6).

Sempre sulla questione del “totalitarismo”, come se fosse una “perversione” della democrazia, José Chasin afferma ancora una volta che la diffusione del concetto, che comprende nozioni che, nel contesto del capitalismo, è una perpetuità del potere statale (come detto, lo Stato è insito nella divisione in classi e nel capitalismo). Il comunismo, come possibilità storica futura, è una possibilità oggettiva, reale. Per intenderci, affermare che l’URSS fosse o non fosse “totalitaria” non rende il comunismo meno possibile né più “dispotico” (proprio perché il comunismo è il superamento dello Stato, della proprietà privata e della famiglia patriarcale).

Con ciò, il “totalitarismo di sinistra”, postulato come “conseguenza” del marxismo, nei termini qui usati, “è una generalizzazione delle apparenze relative a concreti distinti, dai quali, con forza non empirica, sono state astratte, senza giustificazione, alcune caratteristiche, tra cui proprio quelle che renderebbero irrilevante la somiglianza fenomenica e impossibile la confusione delle cose concrete, riducendo quindi radicalmente la portata della generalizzazione” (CHASIN, 2012, p. 20).

“È proprio l’universale astratto che permette alla critica liberale, dando la massima estensione al concetto di totalitarismo, di riunire una molteplicità di fenomeni, distintamente situati, sotto la stessa etichetta che li confonde con il pretesto di spiegarli. È in questa linea di procedura che vediamo il “monopolio” del potere trasformarsi in un “monopolio” del potere in generale (essendo divenuto un “monopolio”, cioè totalitario, proprio perché non appare diffuso, come è destinato a verificarsi nello Stato liberale), ovviando, senza giustificazione, al fatto che il potere implica sempre la questione dell’egemonia. Ogni ragionamento è chiaramente basato su una posizione ideologica, affermando, contro ogni evidenza, che nello stato liberale tutti hanno, o almeno tendono ad avere, un certo potere. In altre parole, quel potere è diffuso, diffuso in generale. La diffusione, infatti, viene assunta come unico antidoto al male che il potere è intrinsecamente, qualunque esso sia. Il potere, quindi, è un male in generale, che può essere contrastato solo dalla sua stessa frammentazione (diffusione). Nonostante questo male, quindi, la critica liberale non considera la prospettiva di un superamento dello Stato e del suo potere, raccomandandone, per così dire, la distribuzione contrattualmente. Ciò rivela, poiché il contratto non è effettivamente celebrato tra uguali, che l’ideologia liberale si basa sull’universale astratto per difendere un particolare privilegio concreto” (CHASIN, 2012, p. 17).

D’altra parte, il marxismo è un campo di pensiero aperto, alquanto eterogeneo, e comprende parte di quella che viene chiamata “sinistra”. Conosciamo – e qui confermiamo Yara Frateschi – quella critica alle cosiddette esperienze socialiste del XX secolo. I XX sono importanti per andare verso il futuro, ma alle tue condizioni. Certamente questa non è una “difesa appassionata” del marxismo; si riferisce alle stesse antinomie attraverso le quali, nei commenti di Yara Frateschi, risuonano sia l'arbitrarietà filosofica che un'irragionevole astrazione della critica. Forse, in una certa misura, invece di trattare in modo esaustivo concetti facilmente manipolabili dall’esame accurato del pensiero analitico, analizzeremo le relazioni sociali concrete.

Per questo vale la pena chiamare qualsiasi cosa “totalitarismo egualitario” per equipararlo a una presunta critica razionale. Se la sinistra vuole davvero superare i dilemmi che il capitalismo ci impone oggi, non c’è altro orizzonte oltre al socialismo. Si può dire qualunque cosa sul significato di “totalitarismo”, ma spiegare come si verifica questo totalitarismo non conferma che sia plausibile. Non è la tipologia concettuale che stabilisce un muro di ciò che è democratico o antidemocratico, ma le strutture sociali permeate dalla stratificazione di classe che danno origine a una politica democraticamente restrittiva di dominio di classe, diretta o indiretta.

Pensieri finali

Secondo il filosofo marxista György Lukács, lo stalinismo (termine comune nella concezione dell’ideologia “totalitaria” nell’immaginario delle tesi di Arendt) rappresentò la scomparsa dei “tentativi ideologici degli ultimi anni di Lenin, che miravano a costruire una vera democrazia socialista” . In questo contesto, l’autore ungherese sostiene che questa opportunità di democrazia al di fuori dello Stato-partito, del resto, ha finito per essere svilita dal modello stalinista (è diventata una tendenza nei partiti comunisti di tutto il mondo), ma che, in nessun modo, è è l'essenza marxista. Ciò ha reso visibile che “l’aspetto più evidente è che l’attività autonoma delle masse è praticamente scomparsa, non solo nella cosiddetta grande politica, ma anche nella regolamentazione della vita quotidiana di queste masse” (LUKÁCS, 2008, p. 170) sotto la voce “socialismo reale”.

Anche in questo implica una seria e pacata autocritica del nostro passato per riprendere il cammino di un nuovo futuro. Ricordando Marx, sul carattere della rivoluzione socialista, quindi, di carattere globale: nei suoi termini, “una rivoluzione politica con un'anima sociale”. Non solo per una descrizione unica di specifici fatti storici e politici, ma per la denuncia delle controversie che da allora hanno avuto luogo nella politica borghese. Nel frattempo, per poter andare oltre le formalizzazioni dello Stato o “democrazia rappresentativa” – che è lungi dal legittimare l’irrigidimento dello Stato, sia nella patina socialdemocratica che in quella stalinista, che si scontrano con la stessi elementi e imperativi sfide inesorabili che Marx aveva criticamente sottolineato.

Riguardo al “totalitarismo di sinistra”, c’è un elemento che non si adatta alla prospettiva delle lotte trasformative, che servono come guida per guardare al futuro, non ripetendo quindi i cosiddetti errori precedenti. Ciò non significa porre unilateralmente una sorta di “accademismo” teorico, ma il suo contrario: il ruolo dell’intellettuale rivoluzionario, nel diagnosticare accuratamente gli errori delle nostre azioni di trincea, non semplici “applicazioni” di modelli nella realtà sociale. Avere quindi una prassi coerente che dia origine alla possibilità del socialismo. Solo allora queste ottuse nozioni di “totalitarismo” rimarranno nei musei delle idee e nella tomba storica del capitalismo, proprio come la macchina a vapore e il filatoio.

Infine, a mio avviso, la filosofia serve a chiarire i concetti, non a crearli deliberatamente o a comprendere fenomeni così disparati e antagonisti tra loro – come il “comunismo” e il “nazismo”. Il primo ha visto il superamento del capitalismo (superamento del patriarcato, della proprietà privata, del colonialismo, dell’oppressione di genere, ecc.), mentre il secondo mira solo ad approfondire ciò che c’è di più marcio nel capitalismo: il razzismo, la xenofobia e la pulizia etnica. Il primato della comprensione di questa realtà nella ricerca filosofica spetta a chi guiderà le forme di condotta oggettuale, e non il contrario. In questo senso, non direi che il “totalitarismo” non possa significare nulla, difendo semplicemente che esso, nel senso in cui è emerso, significa molto meno di quanto si supponga, poiché cerca di comprendere fenomeni generali che il particolare il concetto non copre, devi affrontarlo da solo. Il dibattito qui espresso, tuttavia, avrà raggiunto il suo scopo semplicemente facendo luce sulle questioni sollevate in tutto il testo. Dopotutto, in tutto il mondo ora ci sono genocidi, guerre civili, ecc. e oggi si parla poco di “totalitarismo”…

*Wesley Sousa sta studiando per un master in filosofia presso l'Università Federale di Santa Catarina (UFSC).

Riferimenti


COELHO, Henrique; SOUSA, Wesley. “Marx la triplice critica ontologica”. Aurora, Marília-SP, c. 13, n. 2, pag. 27-52, 2020.

CHASIN, José, “Democrazia ed emancipazione umana”. Verinozio. Belo Horizonte. N. 15, anno 8, pag. 22-27, 2013.

CHASIN, José, “Sul concetto di totalitarismo”. Verinozio. Belo Horizonte, no. 14, anno 8, pag. 15-21, 2012.

ENGELS, Federico.Anti durante. Traduzione di Nelio Schneider. San Paolo: Boitempo, 2015.

HOBSBWM, Eric. Rivoluzionari. Rio de Janeiro: Pace e Terra; 1985.

LOSURDO, Domenico. “Un'analisi critica del rapporto tra liberalismo e democrazia – Intervista a Domenico Losurdo”. San Paolo, Critica marxista, NO. 39, pag. 173-183, 2014.

LUKÁCS, György. Socialismo e democratizzazione: scritti politici 1956-1971. Tradotto da Carlos Nelson Coutinho e José Paulo Netto. Rio de Janeiro: UFRJ, 2008.

LUSSEMBURGO, Rosa. Rosa Luxemburg: testi selezionati. Vol. I (1899-1914). Org.Isabel Loureiro. Tradotto da Stefan Klein, Grazyna Costa. San Paolo: Unesp, 2018.

MARX, Carlo. Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Traduzione e note Nelio Schneider; prologo Herbert Marcuse. San Paolo: Boitempo, 2011.

MASCARO, Alysson. “Diritti umani: una critica marxista”. Lua Nova, San Paolo, 101: 109-137, 2017.

SOUSA, Wesley. “La critica marxista al concetto di lavoro di Hannah Arendt”. Belo Horizonte, Contestura, v. 11, n. 14, pag. 7-20, 2020.


la terra è rotonda esiste grazie ai nostri lettori e sostenitori.
Aiutaci a portare avanti questa idea.
CONTRIBUIRE

Vedi tutti gli articoli di

I 10 PIÙ LETTI NEGLI ULTIMI 7 GIORNI

Vedi tutti gli articoli di

CERCARE

Ricerca

TEMI

NUOVE PUBBLICAZIONI

Iscriviti alla nostra newsletter!
Ricevi un riepilogo degli articoli

direttamente sulla tua email!