da CICERO ARAUJO*
L’attuale governo Lula sembra intrappolato in una sorta di versione modificata della “sindrome di Stoccolma”
1.
Con la seconda vittoria di Donald Trump, la crisi della democrazia nordamericana – e, per estensione, dell’intero mondo democratico – prende un altro giro di vite.
Bisognerà aspettare gli sviluppi per capire la reale dimensione del disastro. Ma i discorsi del candidato durante tutta la campagna elettorale, insieme al programma preparato da una fondazione al suo servizio, opportunamente messo a tacere fino al giorno delle elezioni, ne sono una prova abbastanza eloquente. Così sono le prime nomine di segretari e consiglieri, subito dopo la conferma della sua vittoria, dove è chiara l'intenzione di “correggere” gli errori della prima amministrazione, almeno in termini di stretta lealtà al capo. Difficile resistere alla metafora biomedica: rispetto al 2016, il 2024 di Donald Trump è diventato un superbatterio, contro il quale i tradizionali antibiotici della democrazia non serviranno più.
Tra questi ultimi due risultano già mutilati. Innanzitutto la Corte Suprema, la principale tra le cosiddette “istituzioni contromaggioritarie”: le sue inclinazioni iperconservatrici, rafforzate durante la prima amministrazione di Donald Trump, non sono state invertite nel periodo successivo. Al contrario, a giudicare da due dei suoi provvedimenti più controversi, adottati durante il governo di Joe Biden (e, ovviamente, in sua assenza): il rovesciamento della giurisprudenza di Uova contro Wade (1973), sulla legalità dell'aborto; e l’incredibile dichiarazione di immunità per gli atti del presidente della repubblica, purché giustificati come pertinenti all’esercizio della sua funzione, che in pratica significa carta bianca legale di fronte a futuri attacchi autoritari, che nessuno dubita che arriveranno sotto Trump 2.
In secondo luogo, il Congresso: quindi possiamo aspettarci una certa resistenza da parte dell’opposizione del Partito Democratico – che però, a differenza di Trump 1, non ha più il controllo di maggioranza di nessuna delle due camere.
L’enorme fragilità del partito ora all’opposizione, rivelata dalle elezioni, è in un certo senso uno specchio di una debolezza più ampia, di quella che potremmo chiamare “opposizione sociale”. Occorrerà ancora fare molta analisi per comprendere le ragioni del fallimento alle urne del governo di Joe Biden. Ciò ha rappresentato, a suo modo, un tentativo di invertire le politiche neoliberiste dei decenni precedenti, comprese quelle emanate dai presidenti democratici. Ma qualunque sia il giudizio che la storia potrà dare su questo tentativo, il fatto è che il verdetto delle urne non gli è stato favorevole.
Va notato che, all’inizio della sua amministrazione, quando presentò un ambizioso pacchetto di misure economiche e sociali, presto chiamato “Bidenomics”, il presidente dovette affrontare la resistenza non solo del Partito repubblicano – già dominato dalle fila trumpiste –, ma dal suo stesso partito, costringendolo a disidratare parte delle misure più importanti in ambito sociale. Ciononostante, Joe Biden ha cercato di riconnettersi con le vecchie basi democratiche radicate nelle classi lavoratrici, come dimostrano il sostegno dato ai sindacati e gli scioperi industriali scoppiati durante il suo mandato.
L’economia si è attivata quasi fino al punto della piena occupazione, i salari sono cresciuti; tuttavia, l’inflazione, che ha raggiunto il picco con lo scoppio della guerra in Ucraina nel 2022, ha fagocitato parte di questi guadagni, pur tornando su livelli bassi nei due anni successivi. Molti analisti ritengono che questo sia un fattore importante nel malcontento popolare nei confronti del governo.
La politica interna progressista, tuttavia, è stata in completo contrasto con la politica estera: in questo, la performance di Joe Biden si è discostata poco dalla svolta nazionalista avviata da Donald Trump, e rivolta in particolare contro la Cina. Ancora più scoraggiante è stato il mantenimento della politica di sostegno incondizionato a Israele, in un periodo di enorme inasprimento del conflitto in Medio Oriente: l’attacco terroristico di Hamas nell’ottobre 2023, seguito dal massacro della popolazione palestinese nella Striscia di Gaza . Questo orientamento deve essere costato molti voti, o almeno la perdita di entusiasmo, delle alleanze sociali create, all'inizio della legislatura, dalla sinistra del partito; e certamente ha ostacolato la possibilità di attrarre elettori di origine araba, soprattutto quelli concentrati in uno dei cosiddetti stati di oscillazione.
Guardando i numeri totali, può sembrare che la vittoria dei repubblicani non sia stata “a valanga”: una differenza risicata, intorno all'1,5% dei voti popolari. Ma il suo effetto concreto è stato travolgente: nessuno si aspettava che la partita si decidesse così in fretta. Donald Trump ha vinto non solo il collegio elettorale, ma anche, come accennato, il voto popolare – cosa che gli dà legittimità al di là di ogni dubbio. Anche se mantiene il governatorato di diversi Stati e un seggio minoritario, ma ampio, al Congresso, il Partito Democratico si trova ora alla deriva. E così dovrà continuare finché le ferite della sconfitta non si rimargineranno, magari trovando un nuovo punto d’appoggio.
Che ricerca interiore, comporterà però probabilmente una dura lotta interna, poiché l’ala cosiddetta “neoliberista progressista” cercherà, approfittando delle perplessità generali, di recuperare il terreno perduto negli ultimi quattro anni – di fatto già in parte recuperato nel conduzione della campagna stessa. Segnali chiari in questo senso sono stati dati, ad esempio, in una serie di mezze concessioni che Kamala Harris ha fatto alle grandi aziende tecnologiche, piuttosto diffidenti nei confronti della politica antitrust che Biden ha cercato di imporre ai paesi riacquistati. Commissione federale del commercio. (Come sappiamo, questa Commissione, pochi mesi prima dell’inizio della corsa presidenziale, aveva messo sotto i riflettori l’ineffabile Google LCC.)
Ma le sfide e le difficoltà che il Partito Democratico sta attraversando, e ancora attraverserà, sono uno specchio in miniatura del dolore di una società immersa in una profonda crisi di fiducia in se stessa e che, alla ricerca di una via d’uscita apparentemente più comoda , esita a rompere una volta per tutte con un ordine sociale che ha lasciato così tante conseguenze sulla sua popolazione lavoratrice e, per estensione, sul funzionamento dello stesso regime democratico.
Donald Trump ne è la versione estremista e autoritaria e, come tale, tenterà, ancora una volta, di introdurre una terapia che, anche in caso di contenuti confusi, verrà applicata con massicce dosi di violenza, sia essa violenta tutte breve, sia sotto forma di asfissia economica che sociale – entrambe tendono a indebolire, se non a dissolvere, ogni tentativo di opposizione che esuli dal quadro istituzionale. Sarebbe già difficile riarticolarla, se questa opposizione sociale avesse una direzione chiara da prendere; ma sarà in realtà molto più difficile, visto il disorientamento che la sconfitta elettorale ha reso evidente.
2.
mutatis mutandis, non è quello che sta succedendo anche in Brasile? Ok, Lula ha un carisma che Joe Biden non ha mai avuto. Ma il gusto popolare per il presidente ha i suoi limiti e, ovviamente, è fortemente legato all’operato del suo governo e al livello di polarizzazione ideologica dell’elettorato. Nel suo secondo mandato, il governo Lula ha ottenuto più dell'80% di consensi popolari (83% ottimo e buono secondo DataFolha del dicembre 2010); Oggi le ricerche indicano un tetto di poco superiore al 30% (35% ottimo e buono secondo DataFolha nel dicembre 2024).
I due mandati precedenti hanno avuto un “presidenzialismo di coalizione” pienamente funzionante, che ha dato al capo dell’esecutivo un controllo quasi incontrastato su una maggioranza qualificata del Congresso nazionale. Lula 3, al contrario, riesce a malapena a muoversi in un regime politico le cui regole scritte e non scritte stanno cambiando rapidamente: il minimo che si possa dire al riguardo è che il presidente ha ora un Congresso più assertivo e insubordinato, che persegue apertamente un’agenda diversa. da quello che Lula ha presentato come candidato. In pratica, ciò significa che il Presidente della Repubblica si trova su un filo quasi continuo.
L'effetto più drastico e visibile di questa situazione è la relativa perdita di controllo che il capo dell'esecutivo ha esercitato sul bilancio pubblico. In teoria, questo controllo è garantito dalla stessa Costituzione federale, che all'articolo 165 stabilisce che l'iniziativa di proporre annualmente la legge finanziaria è prerogativa esclusiva del potere esecutivo.
Tuttavia, a partire dal mandato presidenziale di Jair Bolsonaro, i deputati del Congresso hanno trovato il modo di sovvertirlo parzialmente, attraverso lo strumento degli emendamenti parlamentari. Se escludiamo le parti del bilancio già vincolate dalla Costituzione (sanità, istruzione, pensioni), vedremo che la percentuale del restante valore ormai legato agli emendamenti non è trascurabile, il che dà la misura dello spostamento avvenuto collocarsi al di fuori del vecchio equilibrio costituzionale. In realtà, il problema della perdita del controllo sul bilancio non è emerso dall'inizio dell'attuale legislatura solo perché, alla fine del 2022, Lula è riuscito a negoziare il “PEC di transizione”, che ha innalzato il tetto di spesa del governo.
Ma questa è solo una delle braccia della “tenaglia” che preme e paralizza il terzo mandato del PT. L’altro, e di fatto il più insidioso e implacabile, proviene dall’esterno dei quadri strettamente istituzionali: i “capitani” del mercato finanziario. In virtù del suo modus operandi, ciò rappresenta un plebiscito quotidiano contro o a favore di un governo, debitamente riflesso nei principali media. È chiaro che in Lula 1 e 2 la sua influenza era già forte ed evidente; tuttavia, dopo un inizio un po’ turbolento, governo e mercato hanno finito per trovare un punto di reciproco accordo. Ma in Lula 3 i suoi agenti hanno deciso, fin dall'inizio, di mettere in moto una disposizione che, senza esagerare, potrebbe essere descritta come “uno stato di ribellione permanente”. In altre parole, uno Stato restio a cercare una sistemazione.
Se vogliamo avere un'idea di cosa significhi, non ci resta che seguire l'andamento dell'agenda imposta all'inizio del mandato, e che da allora non è mai uscita dalle pagine economiche (se non dai titoli dei giornali). dei principali organi di stampa: il famigerato “taglio della spesa” della Finanziaria. Ciò è avvenuto nonostante la posizione flessibile e negoziale del governo che, attraverso il ministro delle Finanze, ha deciso di accettarne la discussione e non di accoglierlo. in toto, poiché ciò porterebbe ad una completa abdicazione al loro potere di influenzare la direzione dell’economia, ma proprio come segno della volontà di trovare una via di mezzo.
Ebbene: malgrado, come abbiamo detto, tutti i tentativi del ministro Fernando Haddad in questa direzione – sottolineando che il suo “quadro fiscale” è stato pensato proprio per questo scopo – ed essendo già entrato nell'ultima metà del suo mandato, il fatto che nel Stessa chiave, senza la minima variazione, è una chiara conferma che i protagonisti del mercato finanziario hanno deciso di raddoppiare, accettando niente di meno che una resa incondizionata.
Perché questo accade adesso? Permetteteci una breve digressione.
L’espressione “mercato finanziario” dice poco su ciò che realmente rappresenta oggi questa agenzia, in termini di potere sociale. Non c’è dubbio che, nel corso della storia moderna, questo potere sia sempre esistito, fin dall’inizio della costruzione degli Stati nazionali cosiddetti “sovrani”, con i quali ha instaurato un rapporto di crescente interdipendenza. Ma mai con così tanta visibilità e, soprattutto, mai con così tanta capacità di esercitare una pressione effettiva sui governi, come è avvenuto ai nostri giorni.
Ma lungi dall’essere il risultato di una crescita spontanea, questo insolito livello di influenza era dovuto a un impulso proveniente dai paesi capitalisti più ricchi, sotto la guida degli Stati Uniti. Questi, nel tentativo di risolvere le proprie tensioni interne, accumulate nel corso degli anni '1970, decisero di favorire la liberazione del potere finanziario parzialmente contenuto al loro interno.
Per “liberazione” intendiamo la capacità degli asset finanziari di circolare liberamente in quella “terra di nessuno” che è lo spazio interstatale e che, grazie ad un tacito accordo tra i governi di quasi tutto il pianeta, ha ottenuto il permesso di entrare e uscire dai mercati nazionali. confini più o meno come ritenevano opportuno i loro titolari, con limitazioni minime o praticamente nessuna. Con il passare del tempo, e già notevolmente rafforzata dall’incorporazione dei progressi tecnologici che ne hanno favorito l’espansione, sotto forma di una grande rete globale che mette in contatto immediato i suoi punti più distanti, una “Nuvola” elettronica che trasporta immense quantità di capitale liquido ha cominciato a viaggiare spazio planetario quotidiano, alla ricerca dei migliori ritorni per le vostre applicazioni, e nei tempi più brevi possibili.
Armata di vari strumenti di allarme diffusi in tutti i paesi, attenta al minimo sintomo di una minaccia locale alla massimizzazione dei propri profitti, questa Nuvola ha trovato un modo estremamente efficace per esercitare una pressione continua su tutti i poteri sociali concorrenti. A cominciare dagli stessi attori che “là” ne avevano promosso l’istituzione, cioè i governi degli Stati nazionali. Questa è la natura del plebiscito quotidiano di cui abbiamo parlato sopra.
Comunque di cosa stiamo parlando? Stiamo semplicemente parlando del nucleo, del nucleo stesso dell’ordine neoliberista. Questo, in crisi dal schianto finanziario del 2008, da allora ha trascinato come meglio poteva la sua perpetuazione. La crisi, tra l'altro, è iniziata non a causa di un fattore esterno che ha interrotto il suo normale funzionamento, ma a causa della sua libertà illimitata e della sua natura intricata. Così, ciò che fa sì che la Nuvola agisca all'unisono a proprio vantaggio, questa volta l'ha portata a rimanere completamente invischiata nella stessa trama autodistruttiva, una sorta di "buco nero" finanziario che minacciava di risucchiarla da un capo all'altro in un frattura singola, potenzialmente inevitabile.
Una minaccia che non è stata confermata, come sappiamo, solo a causa dell’intervento chirurgico, al momento opportuno, degli Stati nazionali, che in misura maggiore o minore, a seconda della loro potenza di fuoco, hanno deciso di convertire l’immenso e multimiliardario difetto del circuito finanziario globale. Questa operazione ha lasciato un’enorme macchia negativa e indelebile sulla legittimità dell’ordine neoliberista, ma allo stesso tempo ha rivelato tutto il potere di ricatto del mostro che esso stesso ha generato in tutta la sua piena validità: “o noi, o il diluvio”.
Non c’è dubbio che il Grande Salvataggio abbia salvato il mondo da una catastrofe economica dalle conseguenze imprevedibili. Tuttavia, alleggerendo la Nuvola dai suoi fardelli trasferendoli altrove, e ristabilendo come per incanto quasi la stessa libertà di movimento di prima – salvo qualche ostacolo, creato inaspettatamente e poi abbandonato –, l’iniziativa ha reso possibile allo stesso tempo per la sopravvivenza dell’ordine che ancora ci domina.
Peggio ancora: da allora, molte altre operazioni di salvataggio sono state effettuate e persino routinariamente, attraverso meccanismi di iniezione di denaro digitale emessi dalle banche centrali più potenti. Ciò che diremo adesso può sembrare incredibile, ma probabilmente è proprio costituendo parte di questa moneta di origine statale, sotto forma di fondi finanziari privati, che chi preme i pulsanti del Cloud compra e vende quotidianamente, tra gli altri , titoli del debito pubblico emessi... dagli Stati!
Sopravvivenza morbosa, come possiamo vedere, poiché è ciò che dà origine all’attuale ascesa dell’estrema destra in quasi tutti i paesi democratici. Non che gli interessi di entrambe le parti – Cloud e questa estrema destra – siano necessariamente convergenti. Forse si trovano infatti solo in paesi situati ai livelli più bassi della gerarchia internazionale, che, a causa del loro passato, non potrebbero mai aspirare a quello che è il motto centrale dell’estrema destra nel Nord del mondo – per essere di nuovo grande – semplicemente perché non lo sono mai stati. Ma per coloro per i quali questa aspirazione ha senso, potrebbe essere dubbio che la convergenza persisterà al di là delle circostanze attuali. In altre parole, si profila un’incertezza cruciale: sarebbe possibile qualcosa come il “neoliberismo in un solo paese”, invece del neoliberismo globalizzato come lo abbiamo conosciuto finora?
Che ne sarebbe del potere di libera circolazione della Nuvola nel momento in cui il pianeta venisse di fatto invaso dalle dinamiche di disputa geopolitica tra gli Stati più potenti – che cominciano ora a soffiare dall’interno, scossi anche dal già noto sciovinismo dei l'estremo a destra, il fumo di una possibile eruzione – il cui marchio è sempre stato la delimitazione dei territori? Quel potere verrebbe certamente ostacolato, ma non possiamo sapere in anticipo fino a che punto e quali nuove modalità dovranno essere inventate per colmare il vuoto che la nuova situazione lascerà.
Anche se ciò non accade, qui siamo immersi in un periodo storico un po' intermedio e, quindi, pieno di paradossi. Perché proprio quando si vedono scivolare tra le dita la forza e la legittimità originarie, i protagonisti dell’ordine neoliberista ancora in vigore si prendono la briga di estorcere quanto più possibile ai poteri sociali concorrenti – compresi, soprattutto, quelli che i governi sono in grado di rappresentare e riunire. E lo fanno con una disinibizione molto maggiore nei confronti degli stati nazionali di secondo livello, proprio perché è meno probabile che da essi emerga una corrispondente controreazione.
La stessa estrema destra di questi paesi tende a ignorare questa impotenza, preferendo il più sfacciato servilismo al contrario, rendendo plausibile una tacita alleanza con i capitani del mercato finanziario. Questo è probabilmente il motivo dell'enorme aumento della pressione che questi ultimi esercitano oggi sul mandato di Lula 3: vogliono estorcere entrate statali fino al collasso, sapendo che avranno l'appoggio di un'estrema destra in ascesa e capaci di far riecheggiare la loro voce non solo tra le classi monetarie, ma anche tra le classi popolari.
Per quanto riguarda i governi degli Stati di primo livello, la situazione è molto più diversa. Soprattutto nello Stato più ricco e potente del pianeta, sotto il governo Trump 2, possiamo essere certi di una stretta autoritaria senza precedenti, ma, rispetto a quanto qui discusso, i dati sono stati gettati in aria in più direzioni, e continuerà a farlo fino a nuovo avviso.
3.
Dopo la digressione, torniamo al punto in cui eravamo: il governo Lula 3. Avevamo parlato di uno dei bracci della tenaglia che lo stringe e lo paralizza – un Congresso nazionale assertivo e sfrenato – e forse ora la natura e la specificità. contesto d’azione dell’altro braccio (la Nuvola) in questo periodo storico. Ciascuno a modo suo, entrambi spremono il governo su quella che è la massima espressione del suo potere di manovra: il bilancio pubblico.
Il modo peculiare del Congresso è pubblico e noto. Quella della Nuvola è indubbiamente molto più rumorosa, ma i suoi punti di pressione sono molto meno visibili, poiché i riflettori sono quasi invariabilmente puntati su quella che veniva chiamata la “spesa primaria” del governo: il modo astuto trovato per separare la spesa destinata a pagare il pubblico servizio del debito di tutto il resto. Il destino di questo resto, cioè la “spesa primaria”, e solo quella, è ciò di cui si discute quando si tratta di affrontare il tanto decantato “taglio della spesa” del bilancio federale.
Risulta che questo resto è indirettamente messo sotto pressione dalle spese destinate al servizio del debito. Secondo i calcoli della stessa Banca Centrale, il recente aumento dell’2024% del tasso Selic (dicembre 1) dovrebbe far crescere il debito pubblico di circa 50 miliardi di reais nel corso di un anno. Pochi giorni prima di questa decisione, e dopo difficili trattative all’interno del governo, il Ministero delle Finanze aveva annunciato uno “sforzo fiscale” (tagli) di 70 miliardi di reais, insieme ad una misura di esenzione dall’imposta sul reddito per i brasiliani che guadagnano fino a 5mila reais – poco più di tre salari minimi in valori attuali.
Ora, non è difficile concludere che gran parte di questo sforzo è semplicemente svanito non appena è stato deciso l’aumento dei tassi di interesse. Perché l’aumento della spesa finanziaria finisce, in un modo o nell’altro, per contribuire allo squilibrio globale dei conti pubblici, anche se questo non viene registrato nel concetto di spesa primaria. Poiché la Nuvola interpreta questo squilibrio come un aumento del rischio di continuare a prestare denaro al governo, la pressione di blocco è una sorta di preavviso di essere messi alle strette: o la spesa verrà tagliata oppure i tassi di interesse dovranno essere nuovamente aumentati.
La natura ricorrente di questo gioco non è esattamente nuova. Adesso, però, e in base all’ipotesi che abbiamo già avanzato, la pressione viene esercitata a intervalli molto più brevi, con un dettaglio molto maggiore e con un margine di tolleranza molto più piccolo – in breve, con un’intensità senza precedenti.
Dopo l’intronizzazione di Lula 3, la gente ha cominciato a sostenere a gran voce che questo sarebbe dovuto essere il caso perché i governi di sinistra tendono ad essere più permissivi in termini di controllo della spesa. Si tratterebbe, quindi, di una semplice risposta degli “spiriti animali”, come direbbe Keynes, alle loro aspettative future, unita al desiderio di ottenere il massimo profitto possibile nel breve periodo, attraverso un aumento anticipato dei tassi di interesse indicizzati al debito pubblico.
Ma dopo che gli stessi organi di stampa che pubblicizzano i loro interessi hanno lanciato un sondaggio tra gli operatori dell'equivalente giallo-verde di Wall Street (la sedicente “Faria Lima”), sottolineando che la loro stragrande maggioranza, in un ipotetico scenario elettorale, preferirebbe Jair Bolsonaro a Lula e perfino a Fernando Haddad; e dopo aver appreso, sempre dagli stessi organi, che la notizia del nuovo ricovero ospedaliero di Lula è stata accompagnata, lo stesso giorno, da un improvviso entusiasmo da parte della Borsa di San Paolo, con diritto ad una momentanea inversione del tasso di cambio e l'attività azionaria; Dopo tutto questo, dicevamo, è difficile sottrarsi al pensiero che non si tratti più di “spiriti animali” in una prevedibile, seppur selvaggia, ricerca di profitti, ma di una ben più sinistra e consapevole volontà di porre fine ad un governo. In altre parole, la Nuvola ha deciso, da queste parti, di assumere la forma più grottesca e plateale di pregiudizio ideologico.
4.
Quali implicazioni si possono infine trarre da questa analisi? Il primo è in qualche modo ovvio, ma non fa male chiarirlo. Lula 3 corre il serio rischio di deragliare, se non adesso, sicuramente in un futuro molto prossimo, perché non riesce a uscire dalla trappola in cui si è trovato. Come nelle precedenti edizioni, il presidente del PT ha cercato di trovare – ma questa volta senza successo – un atteggiamento accomodante tra le due agenzie qui esaminate. Il rispetto di questa disposizione avrebbe consentito al governo, una volta superati gli effetti della “Transizione PEC”, un certo controllo sul bilancio pubblico. “Un certo controllo”, cioè il minimo necessario per mantenere la promessa centrale del mandato, ovvero “mettere i poveri nel bilancio”.
Sembra poco, ma in realtà è quasi tutto. Togliete quindi questo semplice blocco della sua legittimità e avremo il grave rischio del deragliamento sopra menzionato. Inutile dire cosa resterà dal punto di vista di un Lula 4 o di qualsiasi altra persona che sostituirà il blocco di governo, in caso di forte calo di popolarità dell'attuale presidente: il fatto è che egli non ha è apparso finora, e molto probabilmente non apparirà fino al 2026, in sostituzione di Lula. O il mandato attuale funziona, con Lula e tutto il resto, oppure i giochi finiscono.
Davvero fine dei giochi? La domanda si riferisce alla seconda implicazione dell'analisi, che è difficile anche solo delineare. Giunti alla seconda metà dei tempi regolamentari, non è più possibile sostenere che Lula 3 effettivamente funzioni, nonostante tutto quello che è stato detto finora? Perché no, se l’economia è finalmente decollata, stimolando anche il settore industriale, con la disoccupazione che scende a livelli mai visti in un decennio? E, tuttavia, in sorprendente analogia con quanto accaduto durante l'amministrazione di Joe Biden, il popolo, non si sa se a causa dell'inflazione persistente, che gli indici ufficiali registrano solo tiepidamente, o per qualsiasi altro motivo sempre circondato da polemiche, resta refrattario e di cattivo umore.
Qualunque sia la situazione, non servirà a molto al governo continuare a spendere una parte enorme del suo tempo e delle sue energie, sempre più scarsi, negoziando con coloro che hanno già mostrato ogni segno di non voler negoziare. Se il gran numero di ore trascorse nei colloqui a porte chiuse è un indicatore, si deve presumere che i ministri e i leader parlamentari responsabili del governo abbiano già utilizzato l’intero arsenale conosciuto per attirare la maggioranza del Congresso, con risultati incerti – a volte bene, ma spesso molto male. Ma almeno in questo campo il governo può giocare quel noto gioco delle ambiguità che, anche se non è a suo favore, non sarà nemmeno apertamente contro.
Il problema, ben più grande, è sull'altro terreno, dove egli si ritrova di fatto prigioniero di un complotto infinito, che ha prodotto solo logori successivi e crescenti. Per restare solo sull’aspetto simbolico, concentriamoci sull’immagine di un Ministero delle Finanze che sembra non aver fatto altro negli ultimi due anni se non fare calcoli che possano piacere a una fascia sociale molto ristretta – diciamo, quei “1% ” che nel 2012 il movimento Occupare Wall Street riuscì a esporlo almeno a qualche disprezzo – che, monopolizzando le pagine economiche di una stampa servile, riuscì a diventare un interlocutore riconosciuto del governo.
E così ha imposto la discussione della sua agenda, ma, come abbiamo visto, senza mai accontentarsi di questo evidente vantaggio politico. Ci sono state e sono interminabili ore di trattative dentro e fuori il governo per tagliare qualche miliardo di qua e altri miliardi di là, mentre l'interlocutore si limita a “guardare dalla scatola”, come si suol dire, per dichiarare infine: urbi et orbi, che tutto è meno del previsto. Quindi segue un nuovo ciclo di tentativi e così via.
Nel frattempo, cosa può dire lo stesso Ministero delle Finanze al “resto”, cioè, diciamo, al “99%” della popolazione brasiliana? Molto poco. Ma sì, la recente esenzione dall’imposta sul reddito per coloro che guadagnano fino a R$ 5 è stata una mossa davvero importante. Ma anche questo si è diluito nell’agenda che ha continuato ad avere come interlocutore centrale le banche del mercato finanziario. Avendo introdotto, con un certo imbarazzo, un punto della sua agenda – quello che presumibilmente parla al il suo pubblico – nell'ordine del giorno di qualcun altro, la questione è stata debitamente rifratta dall'interlocutore attraverso il quale il provvedimento è stato annunciato; e con ciò il risultato pubblicato è stato, ancora una volta, “che il governo non sembra in grado di controllare la propria spesa”…
Tirando le somme, quello che vogliamo dire è che Lula 3 sembra essere intrappolato in una sorta di versione modificata della “sindrome di Stoccolma”: non è che si identifichi con il boia, ma in ogni caso corre dietro a un partner impossibile (il banca), il quale ha già confessato, senza la minima ombra di dubbio, di non amarti molto; che farà tutto il possibile per ostacolare la sua rielezione nel 2026; e che, infine, accetta solo un accordo in cui lui stesso “entra con il piede” e l'altro “con il culo”.
Nel frattempo, quella massa immensa di diseredati che lo hanno votato attende, con sempre maggiore impazienza, che il governo dica, senza alcuna inibizione e senza intermediari, in che misura e come sta, in definitiva, portando avanti il progetto Stati Uniti d'America ordine del giorno. Ma se davvero si tratta, come ama ripetere Lula, di “mettere nel bilancio i poveri”, si batta, con tutte le forze di cui dispone, per assicurarsi la parte di bilancio necessaria per mantenere quella promessa.
Sappiamo che il solo essere preparati in questo senso non garantisce il risultato. Gli ostacoli e le forze contrastanti sono immensi: come questa stessa analisi ha cercato di dimostrare, Lula 3 si svolge in un contesto molto meno navigabile rispetto ai mandati precedenti. Pertanto, più che mai è necessario risparmiare il proprio “carburante” politico e spenderlo bene là dove si hanno maggiori possibilità di ottenere vittorie nel possibile ventaglio di battaglie da combattere, evitando il dramma paolino del “pugno a punta di coltello” ”. Ok, non puoi scegliere ogni battaglia; ma alcuni lo fanno.
E in questi, la volontà di farlo mostrare chiaramente a cui è venuto, cioè brandendo il suo propria agenda, senza l'uso spurio di orientamenti altrui –, anche se non garantisce in anticipo la vittoria, ne è una condizione necessaria. Anche se le vittorie più importanti finissero per non arrivare e il progetto di rielezione non si concretizzasse, il pubblico a cui si rivolge questa agenda almeno saprà perché e per cosa combattuto. Il che sarebbe estremamente importante anche nel caso di un’improbabile vittoria silenziosa. Ma ancora di più in caso di sconfitta: se si vuole cioè evitare che l’opposizione sociale necessaria per affrontare il futuro entri in quella stagnazione e deriva che oggi sconcerta la sua controparte nordamericana.
*Cicerone Araujo è professore di teoria politica presso FFLCH-USP. Autore, tra gli altri libri, di La forma della Repubblica: dalla costituzione mista allo Stato (Martins Fontes).
Pubblicato nel numero 2 del volume 10 del Rivista rosa.
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