Obatala

Vasilij Kandinskij, Quadro XVI, 1928.
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da HENRY BURNET*

Commenta l'album di Grupo Ofá

Pubblicato nel 2019, l'album Obatalá – un omaggio a mamma Carmen (Gege Produções su licenza esclusiva di Deck), del Gruppo Ofá, con varie partecipazioni, ha recentemente mostrato su GloboNews il documentario della sua produzione dal titolo Obatalá - il padre della creazione. Legato alla famiglia della casa di candomblé più famosa del Brasile, Terreiro do Gantois a Salvador, il progetto ha una caratteristica speciale, la maggior parte delle registrazioni dei canti sacri sono state registrate nella lingua originale Yoruba. Solo brani in portoghese si bilanciano, pur essendo belli, come “Carmen” (Beto Pellegrino & Ariston), in mezzo alla forza storica che la lingua originale impone oggi agli ascoltatori; soprattutto oggi.

In un momento in cui, secondo Agamben in un testo di intervento intitolato “Quando la casa brucia”, “Dio, incarnandosi, ha cessato di essere unico ed è diventato un uomo tra tanti” e che, “per questo, il cristianesimo ha dovuto connettersi con storia per seguirne fino in fondo il destino – e quando la storia, come sembra accadere oggi, si estingue e decade, anche il Cristianesimo si avvicina al suo tramonto” (https://www.n-1edicoes.org/textos/196), l'album arriva come un richiamo a quella che sento essere una vera e propria dimensione religiosa, legata fin dall'inizio al canto, alla poesia e allo spirito di chi vive la propria fede come condivisione e non come carneficina e intolleranza. Obatala è, in tutti i sensi, una lezione.

farcito di stelle pop, il disco ha la capacità di neutralizzare le voci più note, inglobandole nel rito dell'esecuzione di ogni brano. Così, da questa uniformità, emergono le forze che risaltano sul disco proprio perché sembrano più integrate nella casa d'origine. o lo sarebbe nella religione? Non importa. Unendo Jorge Benjor e Matheus Aleluia nello stesso progetto, si manifesta qualcosa di veramente importante. Tutti i famosi e gli emarginati sono al servizio di questi antichi canti.

Un rispetto reciproco aleggia nell'atmosfera del documentario. Senza l'ingenuità di presumere che Ivete Sangalo e Daniela Mercury non svolgano le loro funzioni integrate nel progetto, è impossibile ascoltare Márcia Short, Luciana Baraúna, Alcione, Vó Cici, tra gli altri, senza essere toccati da una profonda emozione; anche chi, come me, pensa di potersi avvicinare a questa religione di matrice senza lasciarsi influenzare, come un ascoltatore in più, da un interesse prettamente musicale; un errore.

Anche quando, per caso, come narrato da Flora Gil nel documentario, Benjor è finito in studio a cantare “Odu Re Odure Ayelala – Orixá Oxalá” insieme a Gil accompagnato solo dalla batteria, c'è nell'aria qualcosa come una confluenza, poiché se la realizzazione non è stata casuale, ma dettata da qualcosa di più grande. Non è facile parlare di sublimazioni in tempi di tanta violenza reale e simbolica. Ma è di questo che si tratta, Obatala è un incontro raro, più che un disco fonografico nello studio di Carlinhos Brown, presente anche lui, che canta “O Fururu Loorere – Orixá Oxalá” dopo l'obbligatoria apertura con “Oriki – Orixá Exú”, cantata da Felix Omidiré.

Nonostante la coesione del set, alcuni brani parlano più forte. Come potente grido di libertà e integrazione, abbiamo ascoltato “Ajaguna Gbawa O – Orixá Oxagiayan”, con Grupo Ofá e Lazzo Matumbi. “Obatalá – homage to Mãe Carmen” è il brano che più enfaticamente unisce modernità e ascendenza, sebbene la voce di Matheus Aleluia invochi tutto ciò che può essere storicamente più importante nell'eredità africana lasciata ai suoi discendenti.

“O Yeku – Xá Omiludé – Orixá Oxum” cantata dal Grupo Ofá è il culmine di questa festa senza fine; un Alcione quasi irriconoscibile esplode in “Odekomorode – Orixá Oxóssi”, uno dei brani più noti e più belli delle celebrazioni di origine africana che sono rimaste qui nonostante tanto dolore, o proprio per questo. Nella traccia più esplicativa dell'album, Gal e Gil si uniscono in "Carmen".

Un album che gira ininterrottamente come un rito per settimane, aiutando a superare l'angoscia e il capodanno più malinconico che il XXI secolo abbia mai affrontato. Forse è questo il messaggio che Zeca Pagodinho e Nelson Rufino lasciano nell'addio dell'album, un brano solare e pieno di speranza: bisogna guardare avanti, anche se sotto la fitta nebbia non si vede molto.

*Henry Burnett è professore di filosofia all'Unifesp. Autore, tra gli altri libri, di Nietzsche, Adorno e un po' di Brasile (Unifesp Editore).

Originariamente pubblicato su Rivista Guarù.

 

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