Gli auspici del Washington Consensus

Immagine: Kendall Hoopes
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da DAVID FL GOMES*

La disputa asimmetrica tra diverse concezioni sul problema fiscale

Lula non è uno sprovveduto: conosce bene gli effetti che possono provocare le sue dichiarazioni contro il tetto di spesa. Non sono discorsi casuali, ingenui sui loro sviluppi. A questo punto della storia, nemmeno i più feroci oppositori del presidente eletto negherebbero sinceramente la sua intelligenza politica unica. Ma, se gli effetti di questi discorsi sono noti e se intendono rendere ancora più teso questo periodo di transizione, perché insistere quasi quotidianamente con critiche e ironie nei confronti del mercato finanziario?

Innanzitutto è necessario sottolineare: l'emendamento costituzionale 95, conseguenza diretta del golpe del 2016 e responsabile della fissazione del tetto di spesa, è incostituzionale, e dovrebbe essere dichiarato tale dalla magistratura, più precisamente dal Tribunale federale ( STF). Due argomenti, più di altri, sono solitamente utilizzati per dimostrare questa incostituzionalità: l'offesa alla separazione dei poteri e la contrapposizione tra il tetto di spesa e il modello di protezione sociale sancito dalla Costituzione del 1988 nel suo complesso.

Per quanto riguarda la prima, si dice che il potere legislativo, approvando questo emendamento, avrebbe oltrepassato i propri limiti e interferito indebitamente nell'ambito delle decisioni dell'esecutivo – fondamentalmente deputato all'esecuzione della spesa pubblica –, della magistratura e persino del ministero pubblico – ostacolato nella loro autonomia di bilancio. Quanto alla seconda, si dice che la prioritizzazione dell'aggiustamento fiscale e del pagamento ai creditori del debito pubblico, nei termini rigorosi dell'emendamento 95, ferisce mortalmente il progetto costituzionale del 1988, sfavorendo radicalmente, ad esempio, le spese scolastiche e/o sanitarie.

Entrambi gli argomenti sono fragili. Per quanto riguarda la separazione dei poteri, il potere legislativo, nel momento in cui predispone e approva una modifica costituzionale, non agisce come potere costituito accanto agli altri, ma come potere costituente derivato. Non si tratta, quindi, dell'imposizione di un potere costituito – il legislativo – su altri – l'esecutivo o il giudiziario –, ma l'esercizio, da parte del potere legislativo, della funzione di potere costituente attribuitagli dalla Costituzione stessa. Questo esercizio del potere costituente derivato ha le sue peculiarità: non è un potere senza limiti, ha bisogno di essere esercitato entro i limiti autorizzati dalla Costituzione. Proprio per questo i suoi errori ed eccessi possono essere controllati dall'STF. Ma ciò non lo equipara all'esercizio della funzione tipica del legislatore in quanto esso funziona regolarmente come potere costituito.

Per quanto riguarda il secondo argomento, il punto è: non mancano persone che cercano di dimostrare che l'aggiustamento fiscale stabilito dal 95° emendamento costituzionale è una precondizione proprio per l'attuazione della protezione sociale delineata nella Costituzione del 1988. nei media mainstream, ripetuti fino allo sfinimento dagli economisti ortodossi e dalla numerosa squadra di giornalisti impegnati a farne eco. Questa non è affatto l'unica posizione possibile in questo dibattito. Brillanti economisti, in Brasile e nel mondo, non sono d'accordo con lei, con dati robusti e ragionamenti convincenti – sebbene non compaiano, ovviamente, nel Notizie Globo no Folha de Sao Paulo.

Ma il punto è che c'è una divergenza fondata nell'ambito stesso delle scienze economiche, con persone serie – va riconosciuto – che esprimono i tanti punti di vista possibili in questa feroce disputa. Pertanto, non possiamo dire che questo emendamento si opponga al paradigma di protezione sociale della Costituzione del 1988 con lo stesso grado di certezza che avevamo quando affermavamo che rifiutare i vaccini e indurre la popolazione a non usare le mascherine ucciderebbe milioni di persone a causa del COVID-19.

D'altronde, è proprio qui che si svela l'incostituzionalità dell'emendamento 95, nel punto esatto in cui scivola in una delle questioni più complesse del nostro tempo: il rapporto tra scienza e democrazia. La fondata divergenza all'interno dell'ambito stesso delle scienze economiche impone che la disputa tra diverse concezioni sul problema fiscale debba essere lasciata fluire liberamente nell'arena politico-democratica, senza una limitazione che, incarnata in una modifica costituzionale, imponga all'esterno su questa disputa democratica libera un dato risultato – vale a dire, la presunta natura essenziale del modello di aggiustamento fiscale corrispondente al tetto di spesa.

Pertanto, non consentendo tale libera disputa politica, ciò che fa l'emendamento 95 è, fondamentalmente, opporsi al principio di democrazia, garantito dagli articoli 1 e 14 della Costituzione del 1988. In termini tecnicamente più rigorosi, questa offesa generale al principio di democrazia può essere specificata come offesa al giusto valore delle libertà politiche, prevista dallo stesso articolo 14, caput, e, in modo ancor più ristretto e diretto, come violazione del diritto al suffragio diretto, segreto, universale e periodico, ferrea clausola contenuta nell'articolo 60, comma 4, capo II, della stessa Costituzione della Repubblica.

Mi spiego: secondo la logica di una democrazia indiretta, rappresentativa e maggioritaria, con i presupposti formali che l'accompagnano, i voti che hanno eletto Lula hanno scelto, tra l'altro, la sua proposta politico-economica, che comprende un certo concetto fiscale. Una volta eletto, però, Lula si trova costretto ad adeguarsi a un concetto fiscale diverso da quello scelto con lui alle urne e molto più vicino al concetto fiscale che faceva parte della proposta di politica economica del candidato sconfitto. Quindi, da un lato, è come se i voti che hanno eletto Lula valessero praticamente meno dei voti che erano destinati al candidato sconfitto, perché, sebbene i voti di Lula abbiano scelto il presidente, non hanno potuto scegliere con lui la sua proposta di politica economica ., mentre i voti del candidato sconfitto, pur non avendo scelto il presidente, sono riusciti comunque a conservare intatta la concezione fiscale che integrava il progetto politico nel suo insieme che ha perso alle urne.

D'altra parte, questa concreta disparità nel peso dei voti implica una chiara limitazione al pieno esercizio del diritto di voto: poter scegliere un Presidente della Repubblica, purché tale scelta escluda uno degli elementi più importanti della moderna democrazie, che è la politica, il concetto economico e fiscale che l'accompagna, non è più esercitare il diritto al voto libero, né periodico - visto che il 95° emendamento prevede questo tipo di limitazione per un periodo di 20 anni -, nemmeno del tutto segreto - perché, in fin dei conti, imposto normativamente come unica alternativa possibile, il modello fiscale prescelto è già chiaramente noto a priori.

Non c'è altra conclusione possibile: l'emendamento 95 viola l'articolo 60, paragrafo IV, punto II, della Costituzione della Repubblica Federativa del Brasile – cioè viola il diritto di voto, quando correttamente inteso in tutto il suo contenuto sostanziale e non ridotto ad una mera dichiarazione formale a favore di un candidato piuttosto che di un altro. Pertanto, dovrebbe essere dichiarato incostituzionale dall'STF. Ma non illudiamoci: è improbabile che ciò accada, come dimostra la decisione del ministro Luís Roberto Barroso in una richiesta di misura cautelare nell'atto di mandamus 34.448/DF.

Quale opzione si apre, allora, a Lula per poter portare avanti il ​​programma politico – quindi anche la politica economica e la corrispondente politica fiscale – con cui è stato democraticamente eletto? Come uscire dalla gabbia di ferro rappresentata dal tetto di spesa, pur restando nell'orizzonte della responsabilità fiscale come ha fatto nei suoi due precedenti mandati? L'unica alternativa è la via del convincimento politico, il difficile percorso di convincere un'ampia maggioranza parlamentare sull'inadeguatezza del modello fiscale imposto dal 95° emendamento o, almeno, sul modo in cui è stato imposto in modo antidemocratico.

Data la difficoltà di questo compito, data la dimensione della sfida, più la discussione è aperta, più i fatti politici si generano, alimentando il dibattito e invitando alla riflessione, meglio è: anche se questi fatti politici – i discorsi di Lula contro il soffitto e le sue ironie contro il mercato finanziario – fanno scalpore, aumentano la tensione del momento e rafforzano, ancor prima di insediarsi, l'opposizione, ci tirano fuori dalla stasi di un modello di politica economica dato per unico e ficcato in gola al brasiliano società negli ultimi anni. Ci chiamano alla discussione, ci inducono a prendere posizione, ci chiedono di capire cosa c'è in gioco dietro la discussione tecnica su debito, deficit, spese, tassi di interesse – e quello che è in gioco non è altro che il significato di democrazia e cosa direzione che vogliamo democraticamente dare a ciò che, come società, produciamo economicamente.

Ma la sfida è forse troppo grande per essere superata dalla pressione di una sfera pubblica locale e nazionale. Lula sembra saperlo. Almeno questa è una delle possibili interpretazioni del fatto che ha fatto spesso riferimento allo scenario esterno e che ha ripetuto il tono dei suoi discorsi sul tetto di spesa per spazi e interventi fuori dal Brasile: nel contesto di un'economia fortemente interconnessa a livello globale , se questo dibattito può svolgersi anche a livello internazionale, aumentano le possibilità che i suoi effetti di pressione abbiano una portata pratica a livello nazionale.

Qui, una risorsa potrebbe trovarsi nelle mani del futuro presidente. La stagnazione che circonda il discorso egemonico politico-economico e fiscale non ha colpito solo il Brasile: è una realtà estesa in tutto il mondo, con i suoi effetti deleteri subiti e denunciati in diversi Paesi. Quando ognuno di loro cerca di insorgere contro l'unilateralità di questa restrittiva egemonia fiscale, la reazione dei mercati è immediata e spietata. Allo stesso tempo, però, manca una leadership politica internazionale che attiri un movimento più articolato, sovranazionale o quantomeno multinazionale, che incarni un nuovo discorso e un insieme di nuove pratiche che, senza rinunciare alla responsabilità fiscale, affrontino il consenso politica economico-fiscale immobilizzata e impoverente emersa a partire dagli anni '1970 per diventare, oggi, quasi indiscussa.

Quasi. Queste raccomandazioni fiscali restrittive sono uno dei capisaldi di quella prospettiva economica più generale che spesso viene identificata sotto la rubrica del Washington Consensus. Sul suo volto non sono mai mancati i dissapori, messi a tacere da lui stesso. Tuttavia, negli anni più recenti, anche prima della pandemia, voci meno suscettibili di essere messe a tacere hanno cominciato a levarsi, anche tra economisti di formazione ortodossa, contro l'insostenibilità del capitalismo globale basato sui fondamenti neoliberisti stabiliti da tale Consensus, con le sue tendenze predatorie e diseguale – il successo di un libro come Capitale nel XNUMX° secolo, di Thomas Piketty, è dovuto almeno in parte a questo fenomeno. Post-pandemia, la necessità di cercare una via al di fuori degli auspici del Washington Consensus si è accentuata, oltre a diventare ancora più urgente. Ma manca qualcuno che abbia la forza politica per rompere il guscio, per permettere che finalmente nasca quello nuovo che stava gestando.

Lula ha tutto per essere quel qualcuno. La forza sbalorditiva del suo prestigio internazionale è diventata chiara subito dopo i risultati elettorali finali. Il suo ruolo di primo piano è stato quasi spontaneo, istantaneo e naturale annunciato da diverse figure politiche globali in due campi fondamentali: la tutela dell'ambiente e la lotta alle disuguaglianze e alla fame. Sarebbe possibile proteggere l'ambiente, affrontare i cambiamenti climatici, lottare contro le disuguaglianze e la fame, senza destabilizzare e in definitiva superare l'attuale consenso economico-fiscale neoliberista ultra restrittivo? La risposta è semplice: no.

Davanti a sé Lula ha l'immagine di una terra devastata: miseria, fame, degrado ambientale e distruzione dell'apparato statale che, in Brasile, ha affrontato questi problemi negli ultimi decenni. Questo quadro, però, può essere anche la sua “fortuna”, nel senso di Machiavelli: perché ha la possibilità, dentro e fuori i confini nazionali, di integrare la lotta al cambiamento climatico, la lotta alle disuguaglianze e alla fame e la difesa di un riallineamento delle l'economia globale in un unico discorso e in un'unica pratica.

avrà anche il virtù per farlo? Solo il tempo ce lo farà sapere. Quello che mi è chiaro è: se non puoi allineare questi temi a livello internazionale, sarà difficile farlo a livello nazionale. In altre parole, ci troviamo di nuovo di fronte al tema della democrazia – più precisamente, al tema del suo futuro, tenuto conto della tensione tra essa e gli imperativi dell'economia capitalistica – ma ora a un livello che va oltre i limiti dello stato-nazione. Nella misura in cui il capitalismo ha raggiunto il grado di interconnessione globale che lo caratterizza oggi, questo sembra essere il livello fondamentale al quale la questione va affrontata.

Ciò non significa, in alcun modo, sminuire l'importanza degli Stati nazionali, delle decisioni che ad essi corrispondono e dei canoni di legittimità politica che continuano ad essere segnati dai loro confini: si tratta di riconoscere che la stessa difesa delle decisioni democratiche in un'economia globale offuscata dai propri interessi, non può più – se mai potrà – fare a meno di un'articolazione che vada oltre l'ambito degli Stati-nazione.

Il futuro del Brasile è anche il futuro dell'America Latina; più di questo, è il futuro della periferia globale. E, proprio per questo, riguarda il futuro del mondo nel suo insieme. Una trasformazione del genere, di tale impatto, potrebbe avere come protagonista un paese del Sud del mondo? Questo universalismo, così concepito perché proiettato come alternativa improrogabile per il mondo intero, potrebbe essere un universalismo del Sud? Anche a questo proposito, solo il tempo potrà fornire risposte. Ma questa mi sembra l'unica scommessa teorica e pratica rimasta a noi – a noi, a tutta l'umanità.[I]

*David F.L. Gomes Professore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'UFMG.

note:


[I] Ringrazio Almir Megali Neto, Henrique Pereira de Queiroz, Pedro Pelliciari e Tales Resende de Assis per l'attenta lettura del manoscritto e per i preziosi suggerimenti correttivi.

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