Commento al film Les Miserables – di Ladj Ly – che ha condiviso con Bacurau il Premio della Giuria al festival di Cannes e concorre per la Francia all'Oscar per il miglior film straniero.
a differenza del musical Il miserabile, portato sullo schermo da Tom Hooper nel 2012, non si tratta di un adattamento del celebre romanzo omonimo di Victor Hugo, ma forse di una traduzione della sua essenza per l'oggi. Ciò che resta della menzione diretta del libro è, sostanzialmente, la collocazione della vicenda nel sobborgo parigino di Montfermeil, oltre alla frase di Hugo trascritta prima dei titoli di coda, che riassume lo spirito dell'opera: "Non ci sono erbacce o uomini cattivi , ma cattivi coltivatori”.
Il film di Ladj Ly è una lettura cinematografica contemporanea ed elettrizzante di questa idea. La sua costruzione è diabolicamente precisa e coinvolgente, il suo sviluppo vibrante, privo di sentimentalismi o discorsi edificanti.
Nella prima sequenza vediamo ragazzi del quartiere periferico che si spostano nel centro di Parigi per assistere su un grande schermo alla finale dei Mondiali di Russia 2018, vinta dalla Francia. L'euforia della folla multietnica, che vibra di vittoria e canta con orgoglio la marsigliese, crea l'immagine di una nazione unica e molteplice, di coesione nella diversità.
È questo costrutto illusorio che la narrazione inizierà a smantellare in ogni scena. Dai tifosi, il punto di vista si sposta su un trio di poliziotti che pattugliano il quartiere. Attraverso gli occhi dei tre (uno dei quali appena arrivato nel quartiere) esploriamo un territorio diviso da gruppi di potere in equilibrio precario: i trafficanti, i musulmani, il “sindaco” (una specie di capo della milizia locale), gli zingari e la città stessa polizia.
La tensione cresce intorno a un evento insolito: il furto di un cucciolo di leone da un circo zingaro da parte di un ragazzo del quartiere, Issa (Issa Perica), che ruba anche dei polli per nutrire l'animale, nascosto in una baracca. Uno scherzo da bambini che mette il posto sull'orlo della guerra.
Uno dei trucchi della narrazione è quello di tenere lo spettatore coinvolto nelle tese trattative tra i gruppi, senza sapere bene cosa sta succedendo dalla parte dei ragazzi, come se il loro fosse un mondo sotterraneo con una sua, segreta evoluzione. In modo fazioso, Il miserabile è comunque un film sull'infanzia emarginata, sulla falsariga di Los olvidados (Luis Bunuel) o pixel (Ettore Babenco).
A un certo punto, con la polizia alle strette, esplode la violenza, filmata accidentalmente da un drone privato – e la disputa sull'immagine diventa il movente dell'azione, rimescolando le carte in gioco. Issa, il ragazzo irrequieto che è il primo personaggio individuato dalla telecamera nella sequenza collettiva iniziale, torna trasformato (anzi, deformato) a protagonista del finale, che è inquietante non solo perché sospende l'azione al suo culmine, lasciando aperto l'esito, ma perché, qualunque esso sia, sappiamo che non sarà un lieto fine.
Un'altra mossa sagace della narrazione è portare lo spettatore a identificarsi, almeno in parte, con il poliziotto Ruiz (Damien Bonnard), il nuovo arrivato, che sta scoprendo anche lui quell'universo che cambia e che porta nei suoi occhi una sorta di stupore morale.
Se Bacurau espone un Brasile diviso a metà, Il miserabile rivela una Francia frantumata in termini sociali, etnici, culturali e religiosi. Con due differenze fondamentali: il film francese non ricorre all'allegoria e non offre catarsi. Invece di applausi aperti ed euforia alla fine, lascia il pubblico in un silenzio imbarazzante.
Regista nero nato in Mali e cresciuto a Montfermeil, che ha scontato una pena detentiva per il reato di sequestro di persona e “oltraggio all'autorità”, Ladj Ly sa benissimo di cosa sta parlando. Il miserabile è il suo primo lungometraggio, ed è a dir poco un prodigio.
*José Geraldo Couto è un critico cinematografico.
Originariamente pubblicato su BLOG CINEMATOGRAFICO