I presunti limiti del capitalismo

Immagine: Vanessa Winship
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da RAÚL ZIBECHI*

Il nuovo mondo dopo il capitalismo non è un luogo di arrivo, non è un paradiso dove si pratica il “buon vivere”, ma uno spazio di lotta

Per molto tempo una parte dei marxisti ha affermato che il capitalismo ha limiti strutturali ed economici, basati su “leggi” che renderebbero inevitabile la sua (auto)distruzione. Queste leggi sono immanenti al sistema e sono legate ad aspetti centrali del funzionamento dell'economia, come la legge della tendenza decrescente del saggio di profitto, analizzata da Marx in La capitale.

Questa tesi ha portato alcuni intellettuali a parlare di “crollo” del sistema, sempre come conseguenza delle sue stesse contraddizioni. Più di recente, non pochi pensatori sostengono che il capitalismo ha dei “limiti ambientali” che lo porterebbero ad autodistruggersi o almeno a modificare i suoi aspetti più predatori, quando in realtà ad avere dei limiti è la vita stessa sul pianeta e, molto in particolare, quella della metà povera e umiliata della sua popolazione.

Oggi sappiamo che il capitalismo non ha limiti. Nemmeno le rivoluzioni sono state in grado di sradicare questo sistema, perché, ancora e ancora, le relazioni sociali capitaliste si sono espanse all'interno delle società post-rivoluzionarie e, dall'interno dello Stato, è riapparsa la classe borghese responsabile di farle prosperare.

L'espropriazione dei mezzi di produzione e di scambio è stata, e continuerà ad essere, un passo centrale verso la distruzione del sistema, tuttavia, a più di un secolo dalla Rivoluzione Russa, sappiamo che è insufficiente se manca il controllo comunitario di questi mezzi e potere politico, incaricato della sua gestione.

Sappiamo anche che l'azione collettiva organizzata (lotta di classe, di genere e di colore della pelle contro l'oppressione e gli oppressori) è decisiva per distruggere il sistema, ma anche questa formulazione è parziale e insufficiente, sebbene vera.

L'aggiornamento del pensiero sulla fine del capitalismo deve andare di pari passo con le resistenze e le costruzioni dei popoli, in particolare degli zapatisti e dei curdi del Rojava, i popoli originari di vari territori della nostra America, ma anche i neri e i contadini e, in alcuni casi, cosa facciamo nelle periferie urbane.

Alcuni punti sembrano centrali per superare questa sfida.

Il primo è che il capitalismo è un sistema globale, che abbraccia l'intero pianeta e deve espandersi permanentemente per non crollare. Come ci insegna Fernand Braudel, la scala è stata importante nell'impianto del capitalismo, da qui l'importanza della conquista dell'America, poiché ha permesso a un sistema embrionale di spiegare le ali.

Le lotte e le resistenze locali sono importanti, possono persino indebolire il capitalismo su questa scala, ma per porre fine al sistema è essenziale l'alleanza/coordinamento con i movimenti di tutti i continenti. Di qui l'enorme importanza del Giro per la Vita che l'EZLN [Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale] sta attualmente realizzando in Europa.

La seconda è che il sistema non può essere distrutto una volta per tutte, come abbiamo discusso durante il seminario “Il pensiero critico di fronte all'Idra capitalista”, nel maggio 2015. Ma qui c'è un aspetto che ci interpella profondamente: solo una costante lotta e permanente possono asfissiare il capitalismo. Non può essere tagliato in un colpo solo, come le teste dell'Idra, ma in un altro modo.

A rigor di termini, dobbiamo dire che non sappiamo esattamente come porre fine al capitalismo, perché questo non è mai stato raggiunto. Ma intuiamo che le condizioni per la sua continuità e/o rinascita devono essere limitate, sottoposte a stretto controllo, non da un partito o da uno Stato, ma da comunità e popoli organizzati.

Il terzo punto è che il capitalismo non può essere sconfitto se allo stesso tempo non si costruisce un altro mondo, altre relazioni sociali. Questo altro o nuovo mondo non è un luogo di arrivo, ma uno stile di vita che impedisce la continuità del capitalismo nella sua quotidianità. I modi di vivere, le relazioni sociali, gli spazi che siamo capaci di creare devono esistere in modo tale da essere in lotta permanente contro il capitalismo.

Il quarto è che finché esisterà lo stato ci sarà un'opportunità per il capitalismo di espandersi di nuovo. Contrariamente a quanto proclama qualche pensiero, diciamo progressista o di sinistra, lo Stato non è uno strumento neutrale. I poteri dal basso, che sono poteri non statali e autonomi, nascono ed esistono per impedire l'espansione dei rapporti capitalistici. Sono, quindi, poteri di e per la lotta anticapitalista.

Infine, il nuovo mondo dopo il capitalismo non è un luogo di arrivo, non è un paradiso dove si pratica il “buon vivere”, ma uno spazio di lotta in cui, probabilmente, popoli, donne, dissidenti e gente dal basso in genere, noi saranno in condizioni migliori per continuare a costruire mondi diversi ed eterogenei.

Credo che se smettiamo di lottare e di costruire il nuovo, il capitalismo rinascerà, anche nell'altro mondo. Il rapporto di Vecchio Antonio che la lotta sia come un cerchio, che inizia un giorno ma non finisce mai, è di enorme rilevanza.

* Raúl Zibechi, giornalista, è editorialista del settimanale Brecha (Uruguay).

Traduzione: Fernando Lima das Neves.

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