da TESSUTO MARIAROSARIA*
Considerazioni sul film dei fratelli Taviani, dedicato alla memoria di Vittorio (morto nel 2018) e Paolo, che ci hanno lasciato l'ultimo giorno di febbraio di quest'anno
Nel cinema, quando parliamo di suono, spesso tendiamo a privilegiare il dialogo, dimenticando che la colonna sonora è fatta anche di rumore e musica e che è questo amalgama omogeneo che si unirà all'elemento visivo per formare l'universo filmico.
Questa semplificazione dell'analisi mi ha portato, qualche tempo fa, a vedere nel film Padre capo, di Paolo e Vittorio Taviani, una lotta tra la lingua del potere (quella del padre) e la lingua della rivolta (quella del figlio), ma solo in termini strettamente linguistici, cioè tra logudorese (uno dei dialetti sardi) e italiano standard , rispettivamente. Un'equazione molto mal risolta dal punto di vista ideologico, poiché, nella realtà linguistica quotidiana dell'Italia, i dati erano invertiti: la lingua standard corrispondeva alla lingua del potere e le manifestazioni dialettali alla lingua, se non di rivolta. , di resistenza, resistenza di un intero patrimonio culturale, le cui forme linguistiche, però, sono state, il più delle volte, indice di “quanto di provinciale, di antiquato, di oppressivo, di ridicolo è rimasto nella società italiana, di forme , quindi, da superare come attuali modelli espressivi, da considerare come resti archeologici del passato”, nelle parole di Tullio De Mauro, riportate in un libro da me scritto.
È nata dentro di me una certa inquietudine, non di fronte all'opera di Taviani, dialetticamente in bilico tra tradizione e trasgressione, ma di fronte alla mia irresoluta partecipazione di spettatrice. Rivedere il film mi ha portato a rileggerlo. Proprio come Gavino (il personaggio), sono stato risvegliato dal mio torpore dalle note del valzer di Strauss. E della musica ho scoperto i rumori, e di entrambe ho rivalutato i dialoghi, o meglio, l'assenza di dialogo e la conquista del diritto ad avere voce, la conquista della parola.
È in questo senso che si orienterà la presente analisi, che, in linea di principio, dovrebbe occuparsi della musica come elemento privilegiato della colonna sonora di Padre capo, senza escludere però il rumore e la parola, poiché la registrazione sonora che si articola sulla registrazione delle immagini non può fare a meno della congiunzione di questi tre elementi affinché il film produca la sua parola.
Il valzer di Strauss, che si espande improvvisamente nell'aria e rompe il silenzio che circondava Gavino e la natura, apre il secondo blocco del film su quello che costituisce uno dei suoi punti nodali, poiché corrisponde esattamente al momento in cui il protagonista inizia a scoprire la propria mezzi di comunicazione.
Se guardiamo bene, il primo blocco – che va dal giorno in cui il padre andò a prendere il figlio a scuola fino al coito corale, passando per il duro apprendimento del piccolo Gavino – è caratterizzato dall'assenza di dialogo, poiché la voce prevalente è quella di Efísio, una voce, il più delle volte, minacciosa, che non ammette repliche, una voce supportata, quando non sostituita, dal suono secco delle battute del suo bastone (quando porta il figlio fuori da scuola; nella scena in cui il la madre sta preparando Gavino all'isolamento della riserva; nelle varie punizioni corporali applicate al ragazzo). In questo senso è interessante notare che l'inquadratura finale del prologo ci mostra Gavino Ledda (lo scrittore) che consegna un bastone a Omero Antonutti/Efísio e dice: “Anche mio padre usava questo”.
Se da un lato questo gesto segna il passaggio dallo spazio della realtà allo spazio della rappresentazione, dall'altro è un dispositivo per attirare l'attenzione sull'oggetto stesso, un oggetto che, come ho già evidenziato, è usato frequentemente in tutto il mondo blocco, simbolo della violenza che caratterizza il discorso paterno.
Il prologo, infatti, è molto interessante anche dal punto di vista musicale, in quanto le due registrazioni sonore che si alternano sui titoli della presentazione sono un coro di bambini che cantano “bê-á-bá”, una melodia dagli accordi forti, che loro assomigliano a martelli, colpi e ancora il “bê-á-bá”. Questo preludio musicale finisce per prefigurare e sintetizzare il primo blocco, in cui l'educazione scolastica di Gavino viene sostituita dall'apprendimento violento impartitogli dal padre.
Blocco di assenza di dialoghi, come dicevo, perché gli interventi timidi dell'insegnante, i pensieri dentro MENO dei compagni di Gavino, ridotti al silenzio dall'anatema del padre e dal dialogo della madre con il figlio, che sembra più un soliloquio, vengono a rafforzare il potere della parola paterna come strumento che distrugge la possibilità di comunicazione.
Se un dialogo si delinea in questo blocco, è la disputa tra Gavino e la pecora ribelle (in MENO, perché appartiene anche alla sfera dei pensieri), che ci ricorda che l'unico codice di cui il ragazzo è autorizzato ad appropriarsi è quello della natura, presenza suggestiva nel film attraverso i suoni che popolano il suo silenzio: i passi di Efisio dell'asino, i rami della quercia, il mormorio del ruscello, i passi del cavallo di Sebastião, gli applausi e i belati delle pecore, il chiocciare delle galline, l'abbaiare del cane, il vento, la canzone sarda cantata da suo padre , una sorta di belato, che come un coro si espande per il campo, e il respiro affannoso dei bambini che si accoppiano con gli animali, degli adulti che si accoppiano tra loro, dell'intero villaggio in calore, che chiude questo primo parte del film.
Accanto a questo silenzio popolato dalle voci della natura, convive il silenzio interiore, che suona come il suono delle campane a morto, il silenzio del mutismo a cui Gavino sembra condannato. È su questo silenzio, non solo quello registrato dalla colonna sonora dopo l'accoppiamento collettivo, che si innalza il valzer di Johann Strauss. Gavino, ormai ventenne, scopre la musica e, affascinato da essa, compie il suo primo atto di disobbedienza al padre: scambia una vecchia fisarmonica con due agnelli.
Magistrale l'uso del valzer, non solo in questa sequenza ma in quasi tutto il secondo blocco. La musica sembra scendere dal cielo fino al fosso in cui si ritrova Gavino. Anche quando il ragazzo guarda fuori, sembra provenire dal nulla, poiché il paesaggio rimane deserto. Una padella rivela due musicisti, uno dei quali suona alla fisarmonica il famoso leitmotiv dell'operetta. Il pipistrello (Die Fledermaus, 1874).
La melodia che ascoltiamo, però, è suonata da un'orchestra, il che dà alla scena un significato molto più ampio, poiché richiama una cultura diffusa dalla quale Gavino era escluso, e impregna ancora una volta il film di un forte antinaturalismo, come già aveva fatto è accaduto nel blocco precedente, quando, davanti al figlio ferito, il padre ha espresso il suo dolore, cresciuto in un drammatico coro collettivo. Anche in quella sequenza, con una leggera panoramica, la macchina da presa si era spostata dal primo piano di Efísio a un paesaggio deserto, ma non spopolato, poiché riecheggiava il dolore di tutte quelle generazioni condannate alla solitudine della pastorizia.
Il valzer di Strauss esplode nuovamente sul volto stupito del patriarca, il quale, resosi conto che sta perdendo il controllo sul figlio, cerca di carpirgli i pensieri più segreti durante il sonno, e prosegue nella sequenza successiva, questa volta suonata da mani inesperte di Gavino, che sta imparando a comunicare con gli altri. Il flauto di un pastore risponde ai suoi accordi dolorosi e, in contrasto con i due strumenti, ai singhiozzi spezzati di un ragazzo che trasporta il latte su un'asina. La musica ormai ha il valore delle parole, poiché ogni suono è tradotto da un sottotitolo:
“Sono Gavino, figlio del pastore Efísio, che è figlio del pastore Lucas. Il freddo di ieri ha riempito la tana di pulci, quelle più golose le sento sotto le ascelle” (fisarmonica);
“Sono Elígio, figlio del pastore João, figlio del carabiniere Henrique. Ho mangiato formaggio troppo fresco, se ci soffi sopra forte mi brucia la lingua” (flauto);
“Angeli del Paradiso che toccate, sono Matteo e vi prego: fate apparire ai miei piedi una bacinella d'acqua bollente. Altrimenti morirò. È una supplica” (pianto).
I sottotitoli ricompariranno in questo blocco, quando un gruppo di ragazzi, tra cui Gavino, tenta di emigrare in Germania: sull’immagine di un’enorme quercia si leva una musica austera, quasi religiosa, poeticamente interpretata dalle parole: “Sacre querce sarde, arrivederci…". La “controcanzone” dei ragazzi nel camion, però, è dissacrante: uno fa un rumore irrispettoso con la bocca, un altro dà una banana, Gavino piscia. Da rivalutare i valori tradizionali della madre terra, sacri ma anche restrittivi: gli usi e i costumi atavici (come le antiche vendette che gravano sulla testa di Sebastião); l'acqua che delimita (come il ruscello nella riserva di Baddevustrana), che fa anche della Sardegna un'isola dell'ignoranza; i punti di riferimento circoscrizionali della conoscenza umana (le querce), che sembrano invalicabili come un tempo lo erano le colonne d'Ercole.
Se Sebastião verrà ucciso, se l'acqua verrà attraversata, la quercia resterà un baluardo finché il figlio non oserà sfidare una volta per tutte l'autorità paterna e affermare la propria indipendenza e individualità. Per superare i confini della propria condizione è necessario sfidare l’“ordine naturale” entro cui sono racchiusi lui, suo padre e generazioni di pastori: “Considera il tuo seme: / non sei andato a vivere da bruto, / ma sei rimasto virtuoso e canonico"., Con queste parole, Ulisse, nell'angolo 26 del Inferno Dantesco, aveva esortato i suoi compagni ad ampliare il campo delle loro conoscenze: parole che si adattavano a Gavino, pronto a continuare la sua odissea.
Torniamo, però, al secondo blocco. Con la musica Gavino rompe l'isolamento del silenzio: comincia a comunicare con le persone, comincia a conoscere le storie di altri pastori – così simili alla sua! –, anche se non ne abbiamo ancora la padronanza (da qui l’uso didascalico dei sottotitoli, affinché noi spettatori, detentori di un codice diverso, possiamo capirlo).
Infatti, in seguito all'acquisto dell'oliveto, avvenuto in seguito alla morte di Sebastião, il padre è l'unico a parlare con la vedova per concludere l'affare; del resto della famiglia sentiamo solo la voce dentro MENO di pensieri, su cui esplode ancora la musica, canzone cantata da Mina, di cui cogliamo distintamente solo due parole, “il sogno…”. Musica che continua nella sequenza successiva, in cui tutta la famiglia lavora freneticamente, ognuno inseguendo il proprio sogno irrealizzabile; musica che Gavino suonerà a casa del commerciante di olive, istigato dal padre.
Quest'ultima sequenza è molto significativa, poiché è la prima volta che Efísio permette a suo figlio di esprimersi. Costretto a tacere di fronte alla cultura del figlio del commerciante di olive, riacquista la sua autorità grazie all'abilità di Gavino, e, se gli era stato negato l'ingresso nel mondo dei dominatori, punendolo per aver risposto al suo posto, riconosce lui, invece, la capacità di esprimersi.
L'importanza di questa sequenza è accresciuta da quella successiva, in cui la narrazione iniziale è data dalla voce di Gavino Ledda MENO. Il brano narrato è praticamente tratto dal libro da lui scritto Padre Padrone: L'educazione di un pastore (Padre capo, 1975) e questo mi sembra molto significativo, perché i Taviani danno la parola a Gavino Ledda proprio nel momento del film in cui Gavino si fa “voce” autorizzata dal padre. La narrazione passa dalla terza alla prima persona, c'è una pausa realistica all'interno del film, si crea un nuovo effetto di distanziamento, poiché viene evidenziato il fatto che il discorso cinematografico sta creando un'altra realtà.
L'antinaturalismo ricercato dai registi si riafferma con tutta la sua forza in quella che è forse, dal punto di vista musicale, la sequenza più suggestiva del film: il corteo. Al Miserere Canzone sarda cantata dai genitori (la stessa del primo blocco), sotto il patibolo si alterna la conversazione soffocata dei ragazzi, finché nell'aria non si diffonde una canzone tedesca da birreria: Trink, trink, Brüderlein trink, lass doch die Sorgen zu Haus. ..,. I due angoli competono tra loro, senza raggiungere l'osmosi. Ci sono due mondi che si scontrano e non sembra esserci possibilità di riconciliazione. È il momento in cui i giovani pastori, servitori dei padroni o dei genitori, pensano di partire per la Germania, dove li attende una vita di servitù, ma nella quale intravedono la possibilità di veder riconosciuta la propria individualità:
“– Continuerai agli ordini di un boss.
– Ma almeno abbiamo un nome lì.
- Che nome?
– Lui stesso, qui ho dimenticato il tuo. Per parlare di te diciamo: il servo del tuo Zé, il servo del tuo Zé”
Ingannato dal padre, che lo lasciò andare, ma non firmò l'autorizzazione ad emigrare, ingannato perché, pur avendo imparato a comunicare, non ha ancora la capacità di parlare, Gavino va a prestare servizio nell'esercito, seguendo il volere di Efísio, che lo chiude nuovamente in un mondo isolato dal presente (terzo blocco). La musica è scomparsa dal film e tornerà solo quando ritroverà la sua forma di espressione. Durante il servizio militare cadde nuovamente nel silenzio, perché, provenendo da un'altra civiltà, da un'altra lingua, non riusciva ad integrarsi facilmente. Cultura sarda (più legata alla terra) e cultura italiana (espressione di una classe borghese) si scontrano.
Il suono delle campane funebri riecheggia nuovamente nella testa di Gavino, cancellando gli altri suoni. Questi però irrompono nel film nel momento in cui l'amicizia di Cesare riesce a superare la barriera del silenzio (in Piazza dei Miracoli a Pisa). Il magico mondo delle parole comincia ad aprirsi al pastore semianalfabeta e questa scoperta culmina in un altro grande momento del film, quando Gavino, basandosi sulla spiegazione del significato della bandiera, allinea tutta una serie di parole che sono legati tra loro nel significato. , per il suo potere evocativo, per il suo effetto fonetico:
"Bandiera banderuola bando bandito bandita baritono bantù barocco basílio barone…
Staa stagnino staffile stadera stalagmite starnuto status…
Stazzo ragazzo pargolo infante putto bebé livido rattrappito screpolato rapace… rapace wild wild. ..
Bucolic alpestre idillico arcadico pastorale pastorizia pastorizzazione deportazione separazione esclusione masturbazione libido turgore languid lay…
Padre patriarca padrino padrone padreterno patron…",.
Un altro grande momento di distacco, di riflessione sulla propria condizione, di consapevolezza dolorosa, di padronanza dell'espressione. La musica di Strauss esplode ancora, lui esce precipitando dall'apparecchio costruito per conseguire il diploma di radiotecnico. Acquisita la parola, Gavino disobbedisce nuovamente al padre: si iscrive all'università per diventare glottologo e torna in Sardegna. Il suo incontro con Efísio è commentato da un coro MENO e indistinto da ciò che dice, sopraffatto dai suoi pensieri, che, ancora una volta, nega il cibo al figlio (come durante la prima disobbedienza).
Il lavoro intellettuale gli appare come un inganno: chi non si guadagna il pane con il sudore della propria fronte non mangia. Cerca di confinare Gavino nella tana come prima, ma il figlio si ribella, si dedica agli studi e torna a casa. Adesso suonano le campane a morte per Efísio privato della voce dal figlio, che lo ha fatto tacere. Smette di lavorare nella fattoria e torna a casa per ristabilire la sua autorità. La musica di Wolfgang Amadeus Mozart che Gavino ascolta in cucina sta già salendo sopra i suoi passi.
Inizia il confronto decisivo tra due culture: da una parte il figlio, che affina le sue conoscenze (ed è significativo che dal valzer di Strauss, rievocazione di danze popolari, si passi al concerto di Mozart, il grande compositore di il secolo dei Lumi). ); dall'altro il padre, che continua ad esprimersi con autorevolezza: sbatte il palmo della mano sul tavolo per ordinare la cena, ordina al ragazzo di spegnere la radio, tenta di colpirlo con un bastone e, di fronte alla sua resistenza , immergere l'apparecchio nell'acqua del lavandino.
La musica di Mozart, però, continua, fischiata da Gavino. Vedendo che non può togliergli le armi che ha acquisito per esprimersi, Efísio gli chiede di rinunciare al suo linguaggio (musicale, articolato), che non padroneggia, e di adottare il suo (quello della violenza). La sfida viene accettata e inizia lo scontro fisico, in cui il figlio sconfigge il padre. Con indifferenza la madre canta una canzone sarda, chinandosi nel silenzio della notte. Confinata in un mondo naturale, tradizionalmente muto, non “contaminato” dalla ragione (il suo riso e le manifestazioni un po' isteriche, il suo istinto di conservazione), la lotta per il dominio, che si svolge nell'universo maschile, al quale è sempre stato sottoposto e di cui è sempre stato escluso, la cosa non vi riguarda.
Gavino sconfigge il padre parlando esattamente la stessa lingua, quella dei colpi, degli schiaffi, delle percosse, la lingua del dominatore, la lingua del potere, di cui non vuole appropriarsi. E, nell'epilogo, Gavino Ledda conferma l'interpretazione che i fratelli Taviani hanno dato della sua storia, quando dice che sarebbe tornato al suo villaggio perché sul continente avrebbe esercitato il potere che la cultura gli aveva dato, in quanto avrebbe imitato il suo padre, perché la sua terra, la sua gente gli hanno permesso di scrivere il libro, da cui il film è stato liberamente ispirato.
Riappare poi la scena dell'inizio, quando il padre, dopo averlo portato fuori da scuola, torna per fermare le urla beffarde degli altri bambini. Ma ora, davanti alle immagini dei volti spaventati, non si alza alcuna voce MENO dei suoi pensieri, ma il valzer di Strauss, lo stesso valzer che strappò Gavino all'analfabetismo, che presto si confonde con il vento. E il vento soffia sul paese deserto e su Gavino Ledda, che, seduto nella valle dove ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza, comincia a vacillare come un tempo. Questa volta, però, le campane non suonano. Sopra i cartelli che chiudono il film si sente il concerto di Mozart e il vento. La barriera del silenzio è stata superata, ma il dolore è rimasto profondo.
Senza dubbio l'elemento sonoro e l'elemento visivo si coniugano mirabilmente in quest'opera di Paolo e Vittorio Taviani. La musica non fa semplicemente da contrappunto all'immagine, ma interviene in maniera decisiva nella trama del film, dalla quale non si dissocia mai, poiché la lotta tra “ordine naturale” e storia si articola soprattutto sul piano sonoro.
Infatti se volessi caratterizzare i blocchi in cui li avrei suddivisi Padre capo, sarebbe più semplice farlo dal suono. Il primo blocco è quello dei rumori, perché predominano i suoni della natura e il linguaggio paterno, tellurico, atavico, statico. Nel secondo blocco, la musica viene a rompere il silenzio sospeso sull’“ordine naturale”, ritmato dal susseguirsi delle stagioni e delle generazioni, e comincia a popolare il silenzio interiore di Gavino, con le sue evocazioni di un altro mondo, di una cultura diversa da quella necessariamente quello circoscritto e tradizionale della propria isola (o di qualunque realtà regionale isolata). Il terzo blocco, quello delle parole, è segnato dalla sfida all'“ordine naturale”, dalla ricerca individuale dell'espressione come garanzia di integrazione in un ordine sociale più dinamico e dialettico (la storia).
La materia sonora, quindi, permea la trama narrativa con rumori, con parole e con la musica di Egisto Macchi,, che, nei brani da lui scritti, si alterna a “bê-a-bá”, rielaborazione di una canzone popolare italiana, al brano cantato da Mina, interprete della musica popolare italiana, al Miserere Sardo, la canzone della birreria tedesca, il Concerto per clarinetto e orchestra in la, K. 622 – 2° movimento: andante, di Mozart, la canzone popolare sarda, cantata dalla madre, e, soprattutto, il valzer, tratto dall'operetta di Strauss. Il valzer, rappresentativo di una cultura metropolitana in opposizione ai ritmi ancestrali della Sardegna, il valzer, che, con il suo tempo ternario fortemente marcato, finisce per determinare la struttura del film.
Questa non segue un ordine linearmente cronologico, ma è suddivisa, come abbiamo già visto, in tre blocchi sintetici e si sviluppa drammaticamente attraverso ripetizioni ternarie: la storia stessa è scritta da Gavino Ledda, è narrata dai Taviani, è raccontata a Cesare di Gavino, che usa le parole di Eneide, di Virgilio; la voce dell'autore del libro è presente nel prologo, nella parte centrale del film e nell'epilogo; Attratto dal valzer, Gavino, per tre volte, si mette sulla strada dei musicisti; nel secondo blocco, i sottotitoli sono utilizzati in tre momenti distinti – quando Gavino compie vent'anni, quando la fisarmonica, il flauto e le grida del ragazzo risuonano nella solitudine della valle (e sono tre gli strumenti di comunicazione), nell'addio a le querce; il taglio del labbro con il coltello, effettuato da Gavino quando scambia gli agnelli con la fisarmonica e, durante il servizio militare, quando evita di essere messo alla prova dall'istruttore, è ripreso da Efísio, dopo lo scontro finale, per giustificare la sua sconfitta davanti agli altri figli; Il movimento cullante di Gavino inizia nel primo blocco (l'infanzia), si ripete a lungo nel secondo (inizio del servizio militare), e ricompare nel prologo (eseguito dallo stesso Gavino Ledda); Il suono delle campane funebri accompagna il primo e il secondo movimento di Gavino e ricompare quando Efísio si rende conto che la sua voce non ha più autorità.
Gli esempi citati ci ripropongono anche la questione della lingua, che, se in prima lettura sembra riflettere lo scontro tra una cultura egemone (italiana) e una cultura subalterna (sarda), ad un'analisi più approfondita rivela stesso come confronto tra coloro che detengono il potere e coloro che gli sono subordinati. E questo costituisce il grande fascino dell' Padre capo. L’appropriazione della cultura egemonica non significa necessariamente la negazione della cultura subalterna.
Nel film, infatti, la scena in cui Efísio insegna al figlio a riconoscere i suoni della natura riceve un trattamento affettuosamente idilliaco; quando Gavino impara a suonare la fisarmonica, e gli rispondono il flauto e i singhiozzi spezzati del ragazzo, i Taviani traducono per noi spettatori colti, i segni di quell'altro codice che non possediamo; Gavino studia scientificamente le espressioni dialettali della sua terra; il profumo delle mimose permette di raggiungere il piccolo palazzo in Piazza dei Miracoli a Pisa, in un bellissimo momento di integrazione delle due culture.
La nuova lingua acquisita serve a Gavino-Gavino Ledda per riflettere sulla lingua materna e sul suo patrimonio culturale, diventa strumento di liberazione (e non di trasferimento dello schema di potere in un'altra sfera), strumento di conquista della parola, di quella articolata suono che supera la barriera dell'incomunicabilità, squarcia il silenzio e riscatta gli emarginati nella storia.
*Mariarosaria Fabris è professore in pensione presso il Dipartimento di Lettere Moderne della FFLCH-USP. Autore, tra gli altri testi, di “Cinema Italiano Contemporaneo”, che integra il volume Cinema del mondo contemporaneo (Papirus).
Versione rivista di “Svegliarsi nel silenzio – il suono dentro Padre capo", pubblicato in Rivista di comunicazione e arte, San Paolo, anno 13, n. 18 aprile 1988.
Riferimenti
ALIGHIERI, Dante. La Divina Commedia. Milano: Rizzoli, 1949.
“Il cinema, la musica, la prosa, la tv”. Bolognaincontri, Bologna, anno 16, n. 4 aprile 1985.
COMUZIO, Ermanno. “Musica e suoni protagonisti nel cinema dei fratelli Taviani”. bianco e nero, Roma, anno 38, n. 5-6, settembre-dicembre 1977.
FABRIS, Mariarosaria. Neorealismo cinematografico italiano: una lettura. San Paolo: Edusp-Fapesp, 1982.
HERZOG, Werner. “Von Ende des Analphabetismus”. Die Zeit, Amburgo, 24 nov. 1978.
LEDDA, Gavino.Padre Padrone: L'educazione di un pastore. Milano: Feltrinelli, 1977.
TAVIANI, Paolo e Vittorio. padre padrone. Bologna: Cappelli, 1977 [trascrizione, dal film, di Emma Ferrini].
TRESOLDI, Tiago. “L'introduzione dell'Ulisse centrifugo: traduzione e commento al canto XXVI dell'Inferno di Dante Alighieri. Traduzione, Porto Alegre, n. 12 dic. 2016.
note:
[1] Traduzione di Tiago Tresoldi: “Considerate la vostra origine: / non siete stati fatti per vivere come bruti, / ma per seguire la virtù e la saggezza”.
[2] Questa sequenza ha suscitato l'interesse di diversi critici. Tra i più entusiasti c'è il cineasta tedesco Werner Herzog, che lo segnala (insieme a quello del canto corale sardo) come uno dei momenti in cui la consonanza tra musica e immagine nel film si realizza pienamente.
[3] Traduzione (e interpretazione): Banderuola convocazione/esilio esiliato coutada (terra riservata al pascolo) baritono (= musica, voce) bantu (= africano, incivile, meridionale) barocco (perla irregolare, difettosa) basilico (= aroma) barone (= feudatario)… // Stagnaio di stato (che si occupa dello stagno, come un radiotecnico) frusta bilancia (su cui pesare presente e passato) stalagmite (la cui forma ricorda la capanna delle pecore) starnuto (= espulsione) stato… / / Ovil ragazzo bambino infante bambino livido rannicchiato screpolato uccello da preda… uccello da preda selvaggio selvaggio… // Alpestre bucolico idilliaco arcadico pastorale pastorizzazione pastorizzazione deportazione separazione esclusione masturbazione libido turgore languido goffo… // Padre patriarca padrino capo (proprietario) Dio Patrono- padre…
[4] Egisto Macchi, compositore d'avanguardia e discepolo di Hermann Scherchen, ha realizzato musiche per film a partire dagli anni 1960. Tra le colonne sonore da lui composte per diversi documentari e lungometraggi, spiccano le seguenti: La canta delle marane (1961, sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini), di Cecilia Mangini; All'armi, siam fascisti! (1962), di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Micchiché; Viaggio in Lucania (1965), di Luigi Di Gianni; La via del petrolio (1967), di Bernardo Bertolucci; L'assassinio di Trotzki (L'assassinio di Trotskij, 1972) e Cittadino Klein (Signor Klein, 1976), di Joseph Losey; Il delitto Matteotti (Il delitto Matteotti, 1973), di Florestano Vancini.
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