da LEDA TENÓRIO DA MOTTA*
Considerazioni basate sul libro di Olgária Matos
Se c'è una caratteristica interessante del lavoro di Olgária Matos nel campo della filosofia politica, è l'eterno ritorno che fa dal disincantato mondo contemporaneo che la occupa così tanto in Grecia. E non una Grecia qualsiasi ma, contro-metodologicamente, quella che parte da lì loghi al mito, offensivo all'assunzione di significato che porta ad associare filosoficamente il dire, il pensare e l'essere. Una Grecia piena di poteri demiurgici con i loro mondi favolosi da cui pensare il nostro, senza magia.
Spazio risonante di effetti linguistici non ancora metafisici, ma performativi di natura che non si esaurisce ancora nella verità. Per dirla così, un'altra donna studiosa stimolante ed ellenistico, sua esatta contemporanea, che è Barbara Cassin, in L'effetto sofisticato, opera nella quale si diverte anche a sfidare il socratismo, che è astratto, universale, essenziale.
Ecco cosa risalta di più Palindromi filosofici. Tra mito e storia (2018), che è “palindromo”. Figura realizzata per elogiare – Mallarmé diceva “remunerare”: riconoscere ed esplorare –, la mancanza di linguaggio –, mostrando risultati infernali di leggibilità della sequenza verbale, anche quando lunga, al di fuori del suo ordine distributivo, dal dietro in avanti.
Il palindromo coglie di sorpresa il linguaggio per dimostrare che una parola, un gruppo di parole, un'intera frase non ha bisogno di essere letta in senso proprio per essere valida, i fonemi funzionano in entrambe le direzioni della catena significativa, come in “la torre della sconfitta”, per esempio. Mostra così in modo spettacolare l’arbitrarietà dell’insieme di cui è composto il linguaggio. E anche perché i grandi studiosi di tali avvenimenti linguistici, gli Oulipiani, che sperimentarono addirittura intere narrazioni in questo modo, erano matematici, si potrebbe dire che ciò si dimostra assurdo. La prova che il linguaggio è un lancio di dadi: la parola ripercorre il suo ciclo in senso inverso, cambia circuito o “dromo”, senza perdere produttività.
I nostri Palindromos, questo si presta ad un'interessante lettura di Jacques Derrida, nel capitolo “Derrida e il monolinguismo. Dalla ragione pura alla ragione marrana.” Bellissimo pezzo di prosa saggistica, tipicamente olgariana, in cui, per comprendere meglio il filosofo dalla prospettiva di a loghi né intelligibile né ascendente, l'autore ruota attorno al mito della punizione per la perdita dell'isoglossia. Si va al problema della fondamentale inadeguatezza del linguaggio, anche sullo schermo Cratyl di Platone, in una prospettiva molto diversa. Ciò gli permette di mettere Derrida sulla via di una filosofia non persuasiva ma inebriante, come sarebbe il dialogo del circolo socratico-platonico, maschile e assertivo, se il ricorso alla mitologia, così presente nelle sue pratiche, fosse non si camuffò da pedagogia e si assunse il rischio della sua finzione. E così dare”differenza”, con tutto ciò che implica una infinita rifigurazione del segno, comprese possibilità di reversibilità concettualmente perfetta del significato – come in medicina uguale al veleno –, rinviando ogni significato finito e garantendo la contraddizione.
È interessante notare che, nel saggio citato, questo comporta anche l’attenzione alla questione delle tante nazioni, e quindi delle tante lingue e identità, di un Derrida senza luogo d’origine. Come Eduardo Said, riferimento importante per Olgária Matos trasferitosi, negli anni 2000, all'Unifesp, dove fondò una cattedra sotto l'egida di questo apolide nato a Gerusalemme, prima della nuova geopolitica della Seconda Guerra Mondiale, e cresciuto al Cairo , quando sotto il dominio britannico, in una famiglia araba cristiana anglicanizzata, che si muove tra i musulmani. Finire ad Harvard e morire americano.
Membro francese di una comunità algerina essa stessa francese, che, sotto il nazismo, priverà della nazionalità gli ebrei d'Algeria, trattandoli come, in passato, il cattolicesimo iberico, che convertì e deconvertì i marreno al cristianesimo, Derrida non ha alcuna appartenenza certo alcuni. Né afferma di averlo. E in questo è greco, in linea con i rapporti sociali del mondo omerico, con il suo codice eroico, che associa filiina (ospite) e ksénos (straniero), per diffondere l’uguaglianza tra ospitante e ospite. E in questo è più greco che ebreo, a differenza di un Walter Benjamin più ebreo che greco, o più teologo che filosofo, di fronte alla questione della lingua originaria.
Walter Benjamin – discrimina Olgária –, riflette sui perduti. Una lingua ancestrale, adamitica, una ed unica, veicolo preesistente alla dispersione babelica. Lingua per imporre la traduzione, inoltre, in Il compito del traduttore, come missione, al limite ingloriosa, di affrontare linguaggi spezzati, frizionandone le forze performative, facendoli collaborare minimamente, ma mai in maniera decisiva, tra loro, mai per riscattare il debito. In Derrida la traduzione abbraccia molteplicità, non origine, equivoco, e la traducibilità remunera la differenza.
È in questo senso, a partire dall'inventario aperto, che scrive, in Torri di Babele, che “la traduzione promette un regno alla riconciliazione delle lingue”. La collaborazione avviene per allontanamento. Da questo punto di vista, non c’è alcuna equità o non equità da considerare. Nessun originale da cui la ripresa sarebbe una copia imperfetta. Nessuna riduzione logologica della differenza. Ci sono solo ripetizioni.
Tutta la bellezza della decostruzione – se vogliamo riconoscerla – è associata a un intreccio kafkiano di ordini. Così lo riassume Olgária, alla luce degli intimi esuli di Derrida: “Siamo greci? Siamo ebrei? Siamo prima noi ebrei o prima i greci? Chi siamo noi?" Facendo come Cassin, quando sottolinea che, in Grecia, il barbaro è colui che non parla greco, lascia risuonare la domanda.
Evidenziare questi punti è tanto più interessante, per chi voglia seguire il filosofo dalla Letteratura, in quanto il plurilinguismo derridiano così onorato non manca di intrattenere rapporti con le ragioni poetiche di un nuova criticae brasiliano, che è anche una scuola di traduzione. Non a caso Current è frequentatore e interlocutore di Derrida. E infatti accusato di esserlo.
Si tratta di quella critica eterodossa, accademicamente eccentrica, attiva al di fuori della roccaforte dell'università pubblica, che si trova a essere contestata da un'altra formazione istituzionalmente dominante, per la quale Derrida è il cenno a una superfluità francese, a una falsa estraneità. , con una novità. entusiasmo tipico di certe proprietà della nostra intellettualità politicamente disimpegnata. Così la definisce ironicamente uno dei suoi rappresentanti più prestigiosi, accusandola di sciocchezze provinciali: “gli amici dell'intertestualità e di Derrida”. Secondo la formulazione contenuta nel volume dei test Sequenze brasiliane (1999), di Roberto Schwarz, nel capitolo “Adeguatezza nazionale e originalità critica”. Testo in cui – come promette il titolo – verrà dato il “nazionale” a garanzia di “originalità”.
In effetti, quello di Derrida Palindromos,di chi "differenza" non si riferisce più a loghi tuttavia, secondo l'espressione di Olgária, le “forze che non si stabilizzano più in un'identità” sono amiche dei non-amici del teorico delle idee fuori luogo. Così, tacitamente, metterà contro il filosofo doxa studente universitario che trova strana l'intertestualità. Questa forma di stile contrappuntistico e polifonico, che, nella composizione musicale barocca, è un intreccio di voci, che si replicano a vicenda. I baroquismi disturbano la “politica degli autori”, ovvero il senso estetico di questa stabilimento, si veda la cancellazione di Gregório de Matos, da Bahia e dal Portogallo, e la reticenza nei confronti di Oswald de Andrade e dei suoi eredi concretisti nella collezione della sua biblioteca ideale.
Oltre a ciò, coinvolgerà anche Olgária, come naturalmente, nella disputa dei critici partecipanti contro le persone “accomodanti” che, con le loro “felici scoperte linguistiche”, ignorano felicemente “le nostre atroci condizioni sociali”, secondo la battuta. schwarziana, in questo volume con un titolo allusivo al tempo trascorso ai margini della civiltà che è Che ore sono? Lo si posizionerà contro un pensiero formativo che ha finito per trovare nella sociologia della letteratura, attraverso Antonio Candido, la sua migliore declinazione, come assicurano i suoi seguaci, riferendo la letteratura al genio originario del linguaggio e del luogo. La lettura di Derride di letterati come Antonin Artaud, James Joyce, Francis Ponge, Jean Genet rimane al di fuori di questo centro regolatore.
Alcuni si fissarono sulla nozione di nazione e quindi di lingua nazionale, imponendo una visione storico-sociale delle opere, la loro “adeguatezza”, appunto. Vale anche la pena di dire: il nesso dei testi con le condizioni materiali esterne con cui formano un corpo. Come ha sottolineato esemplarmente Candido. che, nei saggi degli anni Settanta, sempre considerati seminali, attorno al romanzo naturalista realizzato sul posto, ti renderai conto che questo non rende più omaggio alla narrativa europea, che ora arriva a plasmare la vita brasiliana, in tutta la portata dei suoi inganni. È qui che si colloca il “narratore volubile” del Machado di Schwarz, una cifra della sfrontatezza della nostra civiltà che è allo stesso tempo moderna e basata sugli schiavi. Altri sono più interessati ai media, o ai media linguistici che al medium, nel senso di extratesto. O più nella finestra che nel paesaggio. O più nel ventriloquo che nel manichino. Quelli, scienziati sociali marxisti. Questi, uomini di lettere.
Olgária cospira – respira insieme – con Derrida. Per questo è tra i collaboratori di Un tombeau per Haroldo de Campos (2005), una raccolta internazionale e internazionalista da me organizzata al momento della morte del poeta-traduttore – senza monotona separazione di generi, come direbbe João Alexandre Barbosa –, due anni prima dell'uscita della raccolta. Che già si occupa, di questi tempi philia, eterofilia, ospitalità, nel nome del filosofo. “Per Campos, transcreare significa appropriarsi del testo di partenza, un atto usurpatorio governato dalle esigenze del presente della creazione”, si legge. Così, in pratica, allontanandosi dal contesto fissato nelle forze coesive del vernacolo o della lingua di casa. Dalla parte dei testualisti, dalla loro parte puntare sulle divulgazioni. Allinearsi con visioni sincroniste che ignorano il tempo e il luogo delle idee. Trascurando – infine – l’anatema che grava sulla disciplina del testo.
Seguire più da vicino il capitolo sopra menzionato Sequenze brasiliane: “la dimostrazione che anche un testo naturalistico è figlio di altri testi e non nasce dalla semplice considerazione del mondo non significa che il momento della considerazione non esista. Contro l'idea premoderna (ma in sintonia con i media) della generazione di opere per opere, in una sorta di vuoto sociale, senza riferimento a realtà extratestuali, l'argomentazione di Antonio Candido ci mostra il riutilizzo di un'altra esperienza storica, che si concentra sulla modello, potendo rovinarlo o rivitalizzarlo, trasformandolo con o senza proprietà, e comunque guidandone la riorganizzazione e imprimendovi qualcosa di sé. Esiste anche la possibilità che la copia (nel senso di una seconda opera rispetto alla prima) risulti superiore, il che relativizza la nozione di originale, togliendole la dignità mitica e scuotendo il pregiudizio – fondamentale del complesso di inferiorità coloniale – insito nella queste nozioni. Queste però non diventano superflue, come vorrebbero gli amici dell’intertestualità e di Derrida, che nel bene e nel male suppongono uno spazio letterario che non esiste, senza confini, omogeneo e libero, dove tutto, compreso l’originale – e quindi niente – , è copia. Solo per sciovinismo o sconsideratezza qualcuno dirà che l'eventuale superiorità di un artista latinoamericano rispetto al suo esempio europeo indica parità culturale nei rispettivi ambiti, nascondendo così disuguaglianze e sudditanze che dovrebbero essere il nostro soggetto per eccellenza. È un buon risultato di decostruzione, oltre ad essere una gioia, sapere che come latinoamericani non siamo metafisicamente condannati all’inferiorità dell’imitazione […]. Ma sarebbe più cieco non vedere che l’innovazione non è distribuita equamente sul pianeta e che se le cause di questa disuguaglianza non sono metafisiche, forse sono altre (Schwarz, 1999, p. 26.).
Sottolinea: “la disuguaglianza e la sudditanza dovrebbero essere il nostro tema per eccellenza”. In opposizione all'arbitrarietà del segno, l'ingiustizia planetaria impone così la realtà stessa al trattamento letterario. Il reale prima del segno. Quello culturale prima del suo appuntamento simbolico. Ciò permette non solo di garantire i rapporti tra parole e cose, poiché le prime sono per le seconde, e non il contrario, ma di accusare la poesia fatta di parole di ignorarle felicemente, scambiando una cosa per un'altra. Il significato attraverso il significante.
Il conflitto tra la visione dell’eterna insufficienza delle parole e l’iscrizione dell’oggettività in sé non è un privilegio della periferia. In effetti, seguendo ciò che accade nell'aldilà periferico, la disputa critica di San Paolo inizia e continua la famosa battaglia del Nuova critica, iniziato in Francia nel 1963, quando a Sur Racine di Roland Barthes, che mobiliterà anche la reazione degli storici della letteratura, consapevoli della secolare presenza degli autori, a sostegno della loro verità. È l'inizio di un movimento di idee al quale Derrida non è estraneo, poiché per lui come per Barthes il critico legge il linguaggio.
Anche qui la Sorbona insorge contro il per doxa del semiologo che osa andare alla lettera del testo, in una lettura orizzontale, logica più che cronologica, senza prestare attenzione alle determinazioni dell'epoca, in questo caso alla vita di corte sotto Luigi XIV e al giansenismo. Principalmente, anche qui, il nocciolo delle invettive è l'evidenziazione di un innocuo formalismo. Per i critici dei contenuti, questo è ciò che definisce, per repulsione, ogni avanguardia, come ribatterebbe Barthes, in Critica e verità (1956). A ciò si aggiunge che ciò che non può essere sostenuto è che la lingua possa parlare della lingua.
Non si tratta solo del ruolo, impegnato o meno, della letteratura. Derrida greco-ebreo-francese coinvolge anche Olgária nella disputa che, all'improvviso, comincia a mettere in tensione la comprensione del lavoro svolto nel Dipartimento di Filosofia in cui, tra gli anni 1970 e 2000, si è formata e ha lavorato. Ciò è stato ottenuto anche con l'accusa di muoversi secondo lo stesso schema di chiusura formale dei francofili guidati dal costume metropolitano. Secondo la motivazione di Paulo Arantes in Un dipartimento francese d'oltremare. Studi sulla formazione della cultura filosofica uspiana. Un'esperienza degli anni '1960 (1994).Volume in cui la logica del testo rientra all'ordine del giorno, per la stessa verifica della sua inconvenienza, nella realtà del terzo mondo.
Altro lettore di Antonio Candido, la svolta dell'autore è quella dell'eccellenza dell'opera filosofica che si consolidò all'USP, in epoca avanzata, dopo il primo afflusso della missione francese che creò l'università e sotto l'egida di esponenti della lettura interna di sistemi filosofici come Martial Gueroult e Victor Goldschmidt, sviluppa lo stesso tipo di paradigma che lancia gli amici dell’intertestualità e Derrida in pratiche esegetiche tanto eccellenti quanto vuote. La filosofia del concetto è la filosofia senza il filosofo. La storia della filosofia di tipo Goldschmidtiano è senza attori. L'eccellenza dei professori del dipartimento, spinti a raggiungere il livello intellettuale di visitatori modello, nasconde la contraddizione sotto il tappeto. Come ci viene detto dal tono disinvolto della scuola.
Paulo Arantes ipotizza una filosofia made in Brazil, lontana dall'agenda delle tendenze internazionaliste, con lo stesso sentimento di dipendenza e lo stesso senso di superamento della condizione coloniale che la tesi dell'influsso formativo attribuisce alla nostra cultura letteraria, sorprendendo nella genialità del lingua principale organizzatrice dell'indagine sull'esperienza brasiliana. Come Schwarz, lo fa riferendosi a Candido, che è più lukacsiano che nuova critica. Si associa così agli “amici di Marx”, che qui avranno saputo “metabolizzarlo” – per citare lo stesso Schwarz in una recentissima dichiarazione alla Revista Piauí (edizione 207/dicembre 2023) –, riuscendo a estrarre da La capitale, letto in un gruppo informato, delinea un quadro capace di costituire un “tratto locale dell'antagonismo di classe”. Verso uno strutturalismo storico dialettico, che non solo combatte lo strutturalismo linguistico ma fa delle sue ragioni segniche un oggetto avverso. Paulo Arantes amplia poi, in linea con Antonio Candido, come notato da Roberto Schwarz, la rilevanza di tali ingiunzioni.
Intertestualizzare involontariamente
Ripresa semiotica di quello che gli antichi chiamavano vagamente sottotesto, sulla base della svolta linguistica francese, l'intertestualità si riferisce ai movimenti interiori del linguaggio. Più specificamente, le connessioni esistenti tra i testi, che possono avvenire attraverso allusione, citazione, chiosa, interpretazione e perfino copiatura, secondo l'ardita ipotesi di Paul Valéry, in Varietà, che Baudelaire amava Edgar Poe fino al plagio. Se non per ricordare la fantastica assunzione di Borges, in Finzioni, che un certo simbolista di nome Pierre Ménard avrebbe interamente riscritto Don Chisciotte, per perversa coincidenza. In questo senso, questi metatesti sono inerenti alla traduzione stessa e alla critica stessa.
Introdotto da Julia Kristeva, che lo deduce dal formalismo russo, sin dal suo arrivo sulla scena, il concetto si distingue per servire nuovi critici come Gérard Genette, il già citato Barthes e osservatori brasiliani del settore, come Leyla Perrone-Moisés, come uno strumento concettuale per una ridefinizione dello stile come scrittura, e della scrittura come eterna presa di coscienza dei limiti del linguaggio e di se stessa. È a causa di questa autoreferenzialità che, per Barthes e i suoi simili, è una forma di critica, uno sbocco controideologico. Freudianizzato dai decostruzionisti di Yale, acquisì una sfumatura edipica, arrivando a significare la molestia da parte dello scrittore di un predecessore ossessionato dalla rilettura, dalla rilettura o dal non-lettura. Pensando agli strati e strati di scrittura sulle pergamene, la Genette stessa del volume Palinsesti. Letteratura di seconda elementare (1982) parleranno di “palinsestuosità”.
Approfittiamo delle parole stesse di chi tiene poco al concetto per alcune osservazioni finali, che vanno nella direzione di “farmaceutico”. In Derrida, fulcro di ambiguità, tra veleno e medicina, tipiche del verbo stesso, poiché capace di andare sulla falsariga del significato e del contrario, accusando, come il palindromo, l'artificio della rappresentazione.
A ben guardare, la scansione “gli amici dell’intertestualità e di Derrida”, più che essere testualmente innocente, sembra ritradurre un modo di dire infestato di Adorno e Horkheimer, in uno dei capitoli che compongono il corpo de La dialettica dell'Illuminismo.
È nella parte del libro che tratta della mimesi e di Ulisse, nell'excursus intitolato “Ulisse, mito e illuminazione”, alludente al canto 12 dell'epopea omerica, in cui il personaggio assume un volto paesaggistico, mimetizzandosi per superare il pericolo che viene dal mare, che influenza questa formula conviviale, fino a prova contraria, estranea al decoro filosofico. Infatti, è per meglio definire l'eroe come precursore dell'uomo tecnico, che già sfugge agli dei e aggira la natura ostile, che, tornando a Omero, nei paragrafi in cui compaiono i discorsi di Circe, il testo accenna al consiglio divino che spinge lui verso l'artificio di sfuggire all'incantesimo del canto delle sirene, facendosi tappare le orecchie ai suoi marinai e chiedendo loro di attaccarlo, tecnicamente vigile, all'albero maestro della sua nave. È lì che troviamo: “gli amici dell’Olimpo di Ulisse” (per “Odisseo olimpico amico").
Se non sbagliamo, questo colpo di stile, volto a svilire il soggetto già operoso, alle prese con disposizioni di controllo già con un impulso illuminista autoritario, se non con l’utilitarismo borghese, si ripercuote su Schwarz. Tanto più che è lui il primo a confidarsi con noi, in Martinha contro Lucrezia. Prove e interviste (2012), sottolineando che Adorno è sempre sulle tracce delle espressioni sociali dietro le espressioni discorsive, in termini di ciò che in esse c'è di più problematico e cruciale, che: “Leggere Adorno è un'esperienza umiliante, a causa di quanto vede dove il lettore non ho visto nulla, o quasi nulla”. E aggiungendo in modo accattivante che “questa è solo la metà della sua forza”. È opportuno chiedersi: potrebbe esserci una maggiore resa da parte di un lettore nei confronti di un predecessore privilegiato? Ciò che abbiamo lì non ci inviterebbe a pensare che, dopo di ciò, in qualche modo, tutti i riferimenti dell'autore all'altro sarebbero nell'ordine non solo della firma sotto ma della controfirma? E non è forse vero che, all’improvviso, e come inavvertitamente, il fervore adorniano finì per introdurre in questa sequenza di Sequenze brasiliane una sorta di omologazione di ciò che i lettori nordamericani di Derrida chiamavano “angoscia di influenza”?
Allo stesso modo, il grazioso detto “un dipartimento francese d’oltremare” è una citazione di Michel Foucault, in una delle sue numerose visite in Brasile, nel 1965. Pur non essendo esattamente un devoto di Foucault, Paulo Arantes è il primo a confidare, nelle numerose interviste che il lancio del suo libro ha suggerito, e che oggi sono raccolte nelle riviste scientifiche e negli archivi digitali dei nostri migliori quaderni di cultura. I foucaultiani si chiedono se una simile affermazione sarebbe stata un elogio o un disprezzo, o un mix di entrambi, da parte dell’inviato dell’intelligence francese ai tropici malformati.
Si può ipotizzare, per il suo modo di vederci anche culturalmente come imitatori, che, nel recuperarlo, Paulo Arantes penda dalla parte meno favorevole. Il fatto è che, come in Roberto Schwarz ambientato nei termini di Adorno, la denuncia degli evanescenti elementi individuali del sistema non impedisce, in questo caso, il richiamo intertestuale, né cancella la francofobia. Viene il sospetto: potrebbe essere che, per un attimo, e proprio sul frontespizio del suo libro merlato, l'autore di Un dipartimento francese d'oltremare non adotta l'accento del suo predecessore... e lo intertestualizza? Alla fine non si presenta come il personaggio molieriano che vuole entrare nei segreti della letteratura... che scrive prosa senza volerlo? E poi: il vostro linguaggio vago non cita forse quello di Schwarz, che cita il discorso orale di Candida del Minas Gerais?
La situazione dello scrittore, soprattutto moderno, che è giunto alla malaugurata consapevolezza di muoversi in un mondo di cui è già stato detto e che tutto è già stato detto, spiega la posizione invertita dell'intertesto, che non beve dalla pura fonte della letteratura ma, al contrario, la alimenta. È da questa posizione che Derrida fa, tra gli altri, Grammofono di Ulisse (1992), un attacco alla continuazione della grande scena omerica della sirena di Joyce. Il titolo parla dello stupore delle voci, ora elettroniche, che circondano Leopold Bloom, in una stanza di Dublino. Il carattere sempre citazionale e metonimico del testo joyciano viene così portato al massimo spostamento, con facoltà di modificare il software.
Tra i grandi assediatori della tradizione, è Kafka quello che più sembra babelizzare Omero. In un racconto tratto dalle narrazioni della tenuta, del periodo 1914-1924, organizzato e tradotto da Modesto Carone, intitolato 'Il canto delle sirene', fa di Omero semplicemente un narratore kafkiano. Nella maggior parte delle traduzioni e dei commenti a cui ha dato origine questo prototesto greco, comprese le pagine di Dialettica dell'Illuminismo, Ulisse va con le orecchie ben aperte, poiché ben preparato e legato, ad affrontare il pericolo. Nella traduzione di Odorico Mendes abbiamo: “Le tue orecchie con nastri di cera/ diventano completamente sorde,/ puoi sentirle/ Finché sei legato lungo l'albero, mano e piede; e se, ignaro del tuo piacere, ordini loro di lasciarti andare…,/ lascia che i tuoi compagni ti leghino più stretto”. È perché sente che, incantato, farà cenno di essere liberato, per potersi gettare in mare, all'inseguimento dei suoi inseguitori.
Ora, in Kafka, ha le orecchie coperte. E si scopre, questa volta, che le sirene non cantavano. Come scrive: “Il canto delle sirene penetrava ogni cosa, e la passione dei sedotti sarebbe scoppiata più delle catene e dell'albero maestro. Ulisse, però, non ci pensava, nonostante ne avesse sentito parlare. Si affidò completamente al pugno di cera e al fascio di catene e, con gioia innocente, andò incontro alle sirene, portando con sé le sue piccole risorse. Le sirene, però, hanno un'arma più terribile del canto: il loro silenzio […] E infatti, quando arrivò Ulisse, i potenti cantori non cantarono”. Si introduce così uno spostamento nella trama del testo che apre la possibilità all'assurdità di dire che, non udendo le arie non cantate, Ulisse non udì il silenzio. A meno che non l'abbia sentito _ come aggiunge lo scrittore di racconti _, e abbia fatto finta di non sentire. Che ha così imposto agli dei, a questi esperti del travestimento, il proprio gioco di apparenze.
Lo scopro dentro Nietzsche e le donne (2022), di Scarlet Marton, che lo stesso filosofo chiama anche Omero delle Sirene. Trattando del modo in cui Nietzsche si oppone, allo stesso tempo, alle illusioni della metafisica e all'arroganza della scienza, per sottolineare che è all'interno di questa impresa filosofica che si intendono le sue prospettive sul femminile, inseparabili dal suo generale antidogmatismo, restituisce un estratto in Oltre il bene e il male in cui si svolge la stessa scena. In questa parte si legge che: “Le orecchie chiuse di Ulisse [lo rendono sordo] agli inganni dei vecchi uccellatori metafisici, che troppo a lungo gli hanno fatto sventolare le orecchie”. Il non ascoltare assume qui la dimensione della superiorità nietzscheana.
Apprendiamo che Derrida rilegge Heidegger con Nietzsche. Il potere mitico non cessa mai di superare se stesso. Anche le parole non finiscono mai senza raccontare il loro significato. Questo è ciò che Palindromos.
*Leda Tenório da Motta È professoressa presso il Programma di studi post-laurea in Comunicazione e Semiotica presso la PUC-SP. Autore, tra gli altri libri, di Cento anni della Settimana dell'Arte Moderna: Il gabinetto di San Paolo e l'evocazione delle avanguardie (prospettiva).
Riferimento
Olgaria Matos. Palindromi filosofici. Tra mito e storia. San Paolo, Editora Unifesp, 2018, 360 pagine. [https://amzn.to/3SiJ7lt]

la terra è rotonda esiste grazie ai nostri lettori e sostenitori.
Aiutaci a portare avanti questa idea.
CONTRIBUIRE