Pasolini critico cinematografico

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da TESSUTO MARIAROSARIA*

Considerazioni su alcune recensioni cinematografiche del regista Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini non ha bisogno di presentazioni, perché è molto conosciuto in Brasile, nelle sue molteplici sfaccettature; tuttavia una sua attività, quella di critico cinematografico, esercitata sporadicamente tra il 1959 e il 1974, non è stata studiata da noi. Le recensioni cinematografiche sono state pubblicate da Pasolini nelle orecchie di alcuni copioni pubblicati e nei periodici. Reporter (dicembre 1959-marzo 1960), nuova vita (ottobre 1960-gennaio 1965), tempo illustrato (ottobre 1968 - gennaio 1969), paese sera (maggio 1970), Playboy (gennaio-febbraio 1974), cinema nuovo (maggio-ottobre 1974) e Il Messaggero (ottobre 1974).

Gli anni Sessanta furono di intenso lavoro per il giornalista Pasolini, poiché, oltre alle già citate riviste e giornali, collaborò con altri mezzi – L'Espresso, giorno, piccolo strass, Esempio, Nuovi argomenti, cinema e cinema, bianco e nero, Critica cinematografica –, in cui ha pubblicato diversi testi di lingua, letteratura, arte, cinema, politica, quasi tutti raccolti empirismo eretico (empirismo eretico1972), Le belle bandiere (le belle bandiere, 1977) e il caos (Il caos, 1979). Un'attività che continuò nel decennio successivo, poiché, dal 7 gennaio 1973, iniziò a rispondere per la sezione "Tribuna stringi" del giornale. Il corriere della sera, in cui si sofferma sui mutamenti antropologici e culturali della società italiana negli ultimi dieci anni, in articoli poi raggruppati in scrittura corsara (scritti corsari, 1975).

Nonostante altri scritti sul cinema pubblicati su periodici, questo testo si sofferma su quelli in cui Pasolini esercitò la critica cinematografica, a cura di Tullio Kezich nessun volume Filmo degli altri (1996). Si compone di trentacinque articoli in cui ha analizzato film di Roberto Rossellini, Luchino Visconti; Pietro Germi, Franco Rossi, Mauro Bolognini; Michelangelo Antonioni, Federico Fellini; Ermanno Olmi, Florestano Vancini, Marco Ferreri, Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani, Maurizio Ponzi, Sergio Citti, Enzo Siciliano, Nico Naldini; Sergei Eisenstein, Sergei J. Jutkevic; Ingmar Bergmann; Paul Vecchiali, François Truffaut; Stanley Kramer, Robert Wise e Michel Gordon, oltre a commentare altri registi e alcuni attori da lui ammirati (Anna Magnani, per esempio) o aborriti (Alberto Sordi, solo per citare i più criticati): “alla fine il mondo di Anna Magnani è simile, se non identico, a Sordi: entrambi romani, entrambi di popolo, entrambi dialettali, profondamente segnati da un modo di essere estremamente particolare (il modo di essere della Roma plebea, ecc.). Anna Magnani, invece, ebbe molto successo, anche fuori dall'Italia […]. La presa in giro della donna del popolo di Trastevere, la sua risata, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, la mano in grembo sopra le "tette", la sua testa "scarmigliata", il suo sguardo di disgusto, la sua pietà, il suo afflizione: tutto è diventato assoluto, spogliato del colore locale ed è diventato una merce di scambio internazionale. […].

Alberto Sordi, n. […]

Solo noi ridiamo del fumetto di Alberto Sordi […]. Abbiamo riso e siamo usciti dal cinema vergognandoci di aver riso, perché abbiamo riso della nostra vigliaccheria, del nostro indifferentismo, del nostro infantilismo.

Sappiamo che Sordi, infatti, non è prodotto del popolo (come l'autentico Magnani), ma della piccola borghesia, ovvero di quegli strati popolari non popolari, quelli che si trovano soprattutto nelle regioni sottosviluppate, che sono sotto il influenza ideologica del piccolo-borghese”.,

Le recensioni servirono a Pasolini anche per esaltare il proprio lavoro di sceneggiatore (soprattutto prima del suo esordio come regista) e di regista in relazione a film contemporanei alle sue produzioni, come accadde, nel 1969, con La cascata che ho dato (i dannati dèi), di Visconti, e Satyricon (Fellini – Satyricon), di Fellini, che giudicava “commerciale” e “inferiore” al suo porcili (Porcile); sebbene poi abbia ritrattato per la “brutalità” e la “leggerezza” della sua affermazione, Pasolini ha concluso: “Tuttavia, in quella frase cruda, ho detto ciò che credo sia la verità”. In questo senso i testi più significativi sono quelli che riguardano la sua controversa partecipazione alla rivista Reporter, poiché in essi, come altri cineasti che esercitavano la critica cinematografica prima di iniziare a girare, Pasolini difendeva il suo concetto di cinema.

Fa strano vederlo collaborare con questo settimanale di cronaca, varietà e costume finanziato dal MSI – Movimento Sociale Italiano, partito fondato nel 1946 da ex esponenti della Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Saló (1943-1945). Secondo Adalberto Baldoni, la creazione della rivista, nel 1959, rispondeva all'intenzione del MSI di tener testa ad altri periodici di destra, come Il Borghese e Lo specchio (per contendersi voti alla Democrazia Cristiana), e per frenare l'egemonia che la sinistra aveva conquistato in campo culturale dal secondo dopoguerra.

A quel tempo, Pasolini era già un collaboratore di giorno e paese sera (corpi di sinistra) e, negli articoli per cui ha scritto Reporter, non ha mai nascosto o camuffato la sua ideologia marxista. Per Tullio Kezich, come ricorda Baldoni, nello strano matrimonio con la destra – che si sarebbe ripetuto quando collaborò con Il corriere della sera –, usava la sua rubrica per regolare i conti con amici e nemici, senza dover esporre a nessuno le sue opinioni, visto che non c'erano ingerenze di redattori o direttori, come poteva succedere nei giornali di sinistra. E così distribuiva i suoi colpi, colpendo soprattutto i suoi nemici, poiché era molto più condiscendente con coloro che ammirava e con coloro che lo onoravano o facevano parte della sua cerchia di amici.

Pasolini dichiarava: “Fare una recensione, anche da un punto di vista non proprio critico, come la recensione di un film su un settimanale, è sempre un'operazione complessa, per quanto semplice possa essere, per quanto rapida possa essere. Implica, da parte di chi emette un giudizio, un intero sistema ideologico, non importa se conscio e razionale, o inconscio e intuitivo”.

Data l'impossibilità di commentare tutte le recensioni scritte da Pasolini, ho scelto di presentare alcuni casi che esemplificano come egli leggesse i film dei citati registi. Sebbene ci siano interessanti considerazioni sui cineasti stranieri, mi concentrerò soprattutto sul cinema italiano, tenendo conto di una dichiarazione dello stesso Pasolini: “un brutto film italiano ci dispiace, ci offende, ci coinvolge. Un brutto film americano semplicemente ci annoia.

In questa affermazione, per noi, non manca di fare eco a Paulo Emilio Salles Gomes quando proclamava che il peggior film brasiliano era migliore del miglior film straniero, nel senso che entrambi assumevano nei confronti della produzione un atteggiamento più ideologico che estetico. i loro paesi, poiché i film nazionali rivelano e riflettono la società locale.,

Nell'articolo “Amor de macho”, pubblicato in il lampone un mese dopo la morte del regista italiano, Glauber Rocha, ricordandolo, scrisse che la tribù di Pasolini era composta da Alberto Moravia (capo), Sergio e Franco Citti (banditi) e Bernardo Bertolucci (figlio ribelle), nomi presenti nel recensioni dello schermo. Ad essi si aggiungono quelli dello scrittore Enzo Siciliano e Nico Naldini, cugino del poeta bolognese, entrambi autori di un'unica opera cinematografica, lodata dal recensore: il film di finzione la copia (1968) e il documentario Fascista (1974), rispettivamente.

Pasolini considerava Moravia un'eccezione come critico cinematografico, perché non era né superficiale, come i più, né incline al provincialismo, tanto meno al dogmatismo, come quelli di sinistra. Inoltre, ha considerato il suo romanzo la noia (La noia, 1960) maggiore di di notte (un rumore, 1960), come espressione della “condizione antiumana dell'uomo nella società odierna”, irridendo i dialoghi del film di Antonioni. È curioso che lo stesso Moravia, durante la revisione di notte, considerava Antonioni uno dei pochi cineasti “i cui film, tradotti in prosa, non farebbero male rispetto ai prodotti più sofisticati della narrativa moderna”. Pasolini era ancora meno affezionato L'eclissi (l'eclisse, 1962), ma apprezzato deserto rosso (il deserto rosso, 1964), in cui il regista ferrarese “poteva finalmente vedere il mondo con loro occhi, perché identificava la sua visione delirante di estetismo con la visione di un nevrotico”, raggiungendo “l'ebbrezza poetica”. Oltre ad accettare finalmente il tema dell'alienazione secondo Antonioni, nella sua recensione ha evidenziato soprattutto gli aspetti "poetici" del film, utilizzando argomenti (tra cui quelli sopra citati) che, in uno stralcio del suo saggio "Il cinema di Poesia" ("Poesia cinema", 1965), sono state riprodotte quasi ipsis litteris.

Quanto a Bertolucci, in Collaborare (1968), Pasolini elogiava la distanza che il giovane regista sapeva creare tra ciò che veniva rappresentato sullo schermo e lo spettatore, al quale veniva continuamente chiesto di giudicare ciò che veniva mostrato, ma, allo stesso tempo, criticava la sua incapacità di distacco stesso da “serie ininterrotta di citazioni e imitazioni”, pur seguendo la linea godardiana., Il regista bolognese ha mantenuto un atteggiamento di ammirazione/antagonismo, nei confronti di Jean-Luc Godard e non ha nascosto la sua antipatia per New wave – “Non parlerò del New wave, perché tutti sono stufi”, scriveva nel 1960 –, nemmeno che praticamente detestasse Truffaut. Quando ci si riferisce a Persona (Persona, 1966), di Bergman, pur ritenendolo “un film splendido”, Pasolini non disdegnava le tracce godardiane, che rilevava nel montaggio e nella presenza di alcuni “manierismi 'profilmici' (la macchina da presa in scena, per esempio)".,

Come ricorda Gianni Borgna, però, non mancò di rendere omaggio al cineasta svizzero, a proposito di sperimentalismo, in Il Vangelo secondo Matteo (Il Vangelo secondo Matteo, 1964), e anche nella sua opera poetica: “Una disperata vitalità”, che fa parte del volume Poesia sotto forma di rosa (1961-1964), iniziava con la strofa “Come in un film di Godard […]”.

Sergio Citti è stato trasformato da Pasolini in una sorta di regista organico (prendendo a prestito il termine gramsciano), poiché è venuto “direttamente di un mondo popolare”, lo stesso mondo che ha portato sugli schermi. Non per questo, tuttavia, potrebbe essere considerato a ingenuo (cioè un dilettante, nella definizione del recensore), perché era pienamente consapevole dell'operazione formale che svolgeva nel suo lavoro, pur conservando allo stato grezzo alcune sensazioni residue. Con ciò, è riuscito a raggiungere un grado di realtà difficilmente raggiungibile nel miglior cinema d'autore.

A differenza di Pasolini, che ha firmato (insieme a Citti) la sceneggiatura del film, Moravia ci ha pensato Ostia (1970) uno dei rari esempi, se non l'unico, di “cinema ingenuo": "O ingenuo, per quanto riguarda il rapporto tra arte e società, è l'opposto dell'artista. Non crede nelle convenzioni sociali e, soprattutto, sa che se vuole fare arte non deve crederci: ma è capace di offrire una rappresentazione di sé, come farebbe con qualsiasi altro oggetto. O ingenuo, al contrario, crede nelle convenzioni sociali o, almeno, pensa che si debba crederci: per questo le rappresenta in modo conformista e rispettoso, come si conviene a un soggetto privilegiato, meritevole di un trattamento specifico. Il risultato è che la poetica dell'artista va ricercata in moduli espressivi, mentre quella del ingenuo è in ciò che è inconscio, che, suo malgrado, è visibile nella sua scrupolosa rappresentazione. […]

Ostia è un film notevole e, nel suo genere, come dicevamo, unico. In esso, Sergio Citti ha recuperato una Roma molto autentica, in cui l'atmosfera falsa e sardonica dell'antica città di Belli, si confonde con lo squallore dei quartieri periferici di Pasolin. Citti, però, non contempla questa realtà come Pasolini; lo propone direttamente, con il complice ingegno di chi ne fa parte. Un'altra caratteristica dell'artista ingenuo".

Secondo Pasolini, Sergio, come regista, e suo fratello Franco Citti, come attore, sarebbero discriminati per essere della periferia e solo i critici non razzisti potrebbero apprezzare il suo primo film, un film alla pari di Rossellini, in termini di “semplicità e naturalezza”. considerato Ostia “un bel film”, mentre giudicava brutti quelli di Eisenstein, ad eccezione di Lunga vita al Messico! (1933), proprio perché non curato dal suo direttore. Nei suoi commenti cinematografici, Pasolini non ha avuto paura di dissentire dall'opinione di altri critici nei confronti di opere o registi già affermati.

Un altro esempio in questo senso può essere trovato nelle sue opinioni su Visconti, uno dei suoi nemici. Ha espresso qualche perplessità al Rocco ehi i suoi fratelli (Rocco e i suoi fratelli, 1960), preferito Senso (seduzione della carne, 1954) A la terra trema (a terra fantastico, 1948), dimenticando che, forse, senza quell'“audacia” formalista di Visconti nell'inquadratura ispirata all'arte pittorica o nell'uso radicale di attori non professionisti che si esprimevano nel suo linguaggio popolare, lui stesso non sarebbe riuscito a fare un come film Accattone.

L'opera viscontiana che ricevette le critiche più impietose di Pasolini fu La cascata che ho dato: “Potrei parlarti a lungo del tuo film. Mi limito però a fare solo un'altra osservazione: l'uso di zum. Rappresenta un'innovazione stilistica all'interno del suo lavoro; l'adozione di un mezzo espressivo non rigorosamente tradizionale così facilmente utilizzato da registi mediocri. Tu, invece, l'hai completamente assorbito nel tuo vecchio stile, facendone così una mera patina di novità espressiva, una piccola concessione ai tempi. L'hai codificato.

Eccoci al dunque: il tuo film (che codificava il nuovo e confermava ancora una volta il vecchio) si presta oggettivamente a un'operazione di restauro. Non per niente, guardavo attonito uno di quei telegiornali atroci, generati nel basso tribunale del potere, che, quando veniva ripreso mentre andavi, mi pare, a un corteo, commentava: 'Guarda chi c'è, un vero regista' . Ciò implica una reazione contro tutto ciò che il cinema ha fatto e scoperto negli ultimi anni. Una reazione cinematografica che è, prima di tutto, politica”.

Non meno impietosi i suoi commenti su Germi, uno degli intellettuali di origine cattolica insorti contro la caccia alle streghe (il maccartismo) nel cinema italiano a metà degli anni Cinquanta. Un disordine malvagio (quel maledetto caso) ed elencandolo tra i migliori film del 1959, Pasolini nel recensirlo ne approfitta per attaccarne l'autore, condannandone l'ideologia indifferentista, il suo ruolo di scudiero della morale piccolo-borghese italiana, “apprezzando”, in questo senso, la film precedente, L'uomo di paglia (l'uomo di paglia, 1957), in cui, in relazione a la ferrovia (la ferrovia, 1956), il regista genovese avrebbe fatto un grande passo, rendendosi conto, ma non del tutto, che “il suo personaggio ideale, da lui stesso interpretato, sano, sentimentale, generoso e moralista, nonostante la sua bontà e onestà, è 'paglia'”.

Pasolini è stato più condiscendente verso registi che si sono affermati nel suo stesso periodo – Olmi, Ferreri, Cavani e persino Ponzi (critico cinematografico che, nel 1966, ha diretto il documentario Il cinema di Pasolini), e Vancini, che, con La lunga notte del '43 (La notte del massacro, 1960), ha portato sullo schermo una sceneggiatura di Pasolini (ed Ennio De Concini), tratta dal racconto “Una notte del '43”, di Giorgio Bassani, amico dello scrittore bolognese.,

Perché non è un caso isolato, l'entusiasmo di Pasolini per i film basati sulle sue stesse sceneggiature non è privo di attenzione. Forse l'esempio più rappresentativo è quello di Il bell'Antonio (il bellissimo Antonio, 1960), di Bolognini, tratto dall'omonimo libro che Vitaliano Brancati aveva pubblicato nel 1949. Pasolini, nel romanzo, non amava il sistema di idee dell'autore, che considerava confuso, né la sua ambigua morale, né il modo in cui l'impotenza del protagonista la sessualità era elusa, mentre lei apprezzava il film proprio perché valorizzava l'universo dello scrittore e riusciva ad andare oltre le suggestioni stesse della sceneggiatura, rivelando un'angoscia assolutamente moderna: "Il bello Antônio non è più il bel Antônio de Brancati e, in parte, né quello della sceneggiatura: il suo problema sessuale non è temperato da una bellezza languida e struggente. […] è un personaggio introverso, angoscioso, dolce, a volte troppo chiuso, a volte troppo espansivo: il suo dolore è contenuto, ma contagioso, passionale. Bolognini, insomma, pur con molta moderazione, ne fece un personaggio romantico, ma non di second'ordine, mal rifinito: un romanticismo primario, diciamo, cioè di tipo decadente, come si manifesta in certi strati progressivi della borghesia. Così, l'angoscia che, nel bel Antônio, provoca la sua anormalità, ha accenti straordinariamente nuovi e attuali”.

Pasolini ha fatto parte del team di sceneggiatori di altre quattro realizzazioni del regista toscano: Marisa la civetta (Gli appuntamenti di Marisa1957), Giovanni Maritti (giovani mariti1958), La nota arrabbiata (La lunga notte della follia, 1959) e La ragazza grande (Una giornata da impazzire, 1960). A questo collaborò anche Moravia, poiché la sceneggiatura era basata su opere sue, rocconti romani (racconti romani, 1954) e Nuovi racconti romani (nuove fiabe romane, 1959). quanto a La nota arrabbiata – in cui ingrandisce un episodio non usato in Felliniano Le notti di Cabiria (Le notti di Cabiria, 1958), anche se per molti sarebbe basato sul suo romanzo di ambientazione romana Ragazzi di vita (ragazzi della vita, 1955), lo stesso che servirà da ispirazione per Accattone –, Pasolini pensava che il mondo del sottoproletariato non fosse quello del cineasta, «se non indirettamente, a meno che non implichi un amore un po' compiacente e abnorme».

Secondo Roberto Poppi, i migliori film di Bolognini erano quelli in cui più colpiva la poetica di Pasolin, cioè le tre trasposizioni di opere letterarie sullo schermo. La nota arrabbiata, in alcune sequenze, porta tracce così evidenti dell'universo di Pasolini, che potrebbe essere classificata come una sorta di opera inaugurale della sua attività di regista, se Bolognini fosse riuscito a portare sullo schermo la sua visione in relazione al periferico mondo romano, come già ho avuto occasione di scrivere.

Senza mettere in discussione i meriti di Il bell'Antonio, non si può dimenticare che è stato grazie al suo regista che Pasolini ha potuto filmare Accattone, dopo il rifiuto di Fellini, con il quale aveva collaborato Le notti di Cabiria, nei dialoghi in romanesco e nella sequenza della processione del Divino Amor, e in La dolce vita (La dolce vita, 1959), in alcuni dialoghi (nelle sequenze della casa della prostituta e dell'orgia) e nella scelta di Alain Cluny per interpretare Steiner. Secondo Pasolini (come ricorda Kezich), l'attore francese non sarebbe fuori luogo in quell'ambiente di raffinata borghesia che si stava costruendo intorno al personaggio dell'intellettuale suicida.

Fellini, che aveva fondato Federiz (in società con Clemente Fracassi e Angelo Rizzoli) in seguito al successo di La dolce vita, ha cessato di finanziare non solo Accattonema anche Il Posto (Opposto), di Olmi, e Banditi ad Orgosolo (Banditi a Orgosolo), di Vittorio De Seta, anche se la sua casa di produzione mira a promuovere i nuovi talenti. Secondo Kezich (nel libro su La dolce vita), il regista riminese non comprese l'importanza di queste opere che, alla Mostra del Cinema di Venezia del 1961, furono salutate come il rinnovamento del cinema italiano.

In caso di Accattone, Pasolini si è sottoposto a una prova, filmando, montando e sonorando circa 150 m di pellicola, oltre a farsi scattare decine di fotografie. In una dichiarazione citata da Naldini, il regista ha detto: “Quasi tutti i personaggi erano presenti […]. I volti, i corpi, le strade, le piazze, le baracche addossate, i frammenti di lotti, i muri neri dei grattacieli screpolati, il fango, le siepi, i prati delle periferie punteggiati di mattoni e spazzatura: tutto si presentava in una luce fresca, nuova, inebriante, aveva un aspetto assoluto e paradisiaco... una materia frontale, ma per nulla stereotipata, schierata in attesa di muoversi, di vivere”.

A Fellini però non piacevano quei primi piani frontali ispirati alla pittura italiana del XIV-XV secolo, in particolare Giotto e Masaccio, o i film di Kenji Mizoguchi, Carl Theodor Dreyer e Charles Chaplin (le grandi passioni cinematografiche di Pasolini), girati in nero e bianco incurante, con carrelli indecisi, e si è ritirato dal finanziamento del film. Ma le fotografie caddero nelle mani di Bolognini, che, impressionato da quei personaggi, convinse un giovane produttore indipendente, Alfredo Bini, a finanziare il film. E il futuro cineasta, pur consapevole di “una totale mancanza di preparazione tecnica”, si è imbarcato in questa nuova avventura, confidando nella sua “grande preparazione intima”: “le sequenze del film erano così chiare nella mia testa che non ho avuto bisogno elementi tecnici per realizzarli” (come riportato da Naldini).

Pur non dimenticando mai la sfacciataggine del nuovo produttore, Pasolini non ha mancato di apprezzare La dolce vita, in un lungo articolo che ha suscitato polemiche. Contrariamente alla critica cattolica, lo considera un film profondamente cattolico, affermando ancora una volta la matrice spiritualista della poetica di questo autore che, a suo avviso, è più neodecadentista che neorealista: “Da parte mia, come uomo di cultura e marxista, io ad accettare come base ideologica il binomio provincialismo-cattolicesimo, sotto il cui cupo segno opera Fellini. Solo gente ridicola, senz'anima, come quelli che scrivono l'organo vaticano, –, solo i chierici-fascisti romani, solo i capitalisti moralisti milanesi possono essere così ciechi da non capire che, con La dolce vita, si trovano di fronte al prodotto più alto, più assoluto del cattolicesimo recente: per questo i dati del mondo e della società si presentano come dati eterni e immodificabili, con le loro bassezze e abiezioni, qualunque cosa, ma anche con la grazia sempre sospesa, pronta a scendere: infatti, quasi sempre è già scesa e circola di persona in persona, di atto in atto, di immagine in immagine.

[…] È un'opera di peso nella nostra cultura e una data notevole. Io, da critico-filologo, non posso che registrarlo, con tutta l'importanza che dimostra: è la riapertura di un periodo segnato dalla forza prevalente o eccessiva dello stile, il neodecadentismo”.,

Per Kezich, invece, ciò che ha finito per affermarsi in La dolce vita era il vitalismo panteistico, che esplose all'indomani del Fontana di Trevi, grazie alla luminosa presenza di Anita Ekberg, lettura corroborata da Fellini, per il quale, pur essendo un ritratto disincantato della società italiana dell'epoca, il suo lungometraggio non era né pessimista né moralista, ma lasciava un sentimento di gioia.

Il riferimento di Pasolini al neorealismo rimanda a Rossellini, da lui sempre considerato un grande regista, anche quando si trattava di Generale Della Rovere (Da mascalzone a eroe, 1959), che tanto divise la critica, e su cui nutriva delle riserve. Pasolini diceva: “Rossellini è il neorealismo. In lui la 'riscoperta' della realtà – che, nel caso dell'Italia quotidiana, era stata abolita dalla retorica dell'epoca – era un atto, allo stesso tempo, intuitivo e fortemente legato alle circostanze. Era lì, fisicamente presente, quando gli è stata tolta la maschera da cretino. E fu uno dei primi a percepire il volto povero della vera Italia”.

anche se ho apprezzato Nazione (paisà, 1946) e Francesco Giullare di Dio (Francesco, araldo di Dio, 1950), l'impresa rosselliana che più lo colpì, che più lo emozionò fu Roma città si stringe (Roma, città aperta, 1944-1945), che costrinse il giovane Pier Paolo a percorrere in bicicletta i quaranta chilometri che separavano il paese dove abitava all'epoca (Casarsa della Delizia) da Udine, la città più vicina dove veniva proiettato il film. Un entusiasmo che lo portò a guardarlo più volte, anche per l'interpretazione di Anna Magnani, e che andò oltre l'ambito cinematografico, dedicando alla prima pietra miliare del Neorealismo anche due spezzoni del poema “La ricchezza” (“Proiezione al 'Nuovo ' di 'Roma città stringi'” e “Lacrime”), pubblicato nel 1961 in La religione del mio tempo, e qui raccolte sotto il titolo di “Nella città di Rossellini”:

“Che colpo al cuore: su un manifesto
sbiadito… mi avvicino, guardo il colore
già da vecchio, chi ha la faccia calda
ovale, dell'eroina, lo squallore
eroico di questo povero, opaco annuncio.
Entro subito: preso da un interno clamore,
deciso a tremare al ricordo,
consumare la gloria del mio gesto...
Entro in clausura, nell'ultima seduta,
senza vita; persone cancellate,
parenti, amici, sparsi sui sedili,
perso nell'ombra in cerchi distinti,
biancastro, nel fresco recipiente...
Poi, nelle prime inquadrature,
mi afferra e mi trascina... l'intermittenza
del cuore. sono al buio
corsie di memoria, negli angoli
misterioso dove l'uomo è fisicamente diverso,
e il passato lo bagna con le sue lacrime...
Quindi con un uso prolungato mi ha reso intelligente,
Non perdo i fili: ecco... la Casilina,,
a cui si aprono tristemente
le porte della città di Rossellini…
ecco l'epico paesaggio neorealista,
i suoi fili telegrafici, le strade acciottolate, i pini,
muri crepati, la folla
mistica persa nelle faccende quotidiane,
le cupe forme del dominio nazista...
Quasi un emblema, ora, il grido del Magnani,
sotto le serrature assolutamente disordinate,
risuona nella panoramica disperata
e nei loro sguardi vivi e muti
il senso della tragedia si approfondisce.
È lì che si dissolve e si mutila
il presente, e il canto dell'aedos tace”.
“Ecco i tempi ricreati con la forza
brutale delle immagini a raffica:
quella luce di tragedia vitale.
I muri del processo, il prato
del plotone di esecuzione: e il fantasma
lontano, intorno, dalla periferia
di Roma splendente di nudo candore.
I colpi; la nostra morte, la nostra
sopravvivenza: i sopravvissuti se ne vanno
i ragazzi nel cerchio di edifici in lontananza
in quell'acre colore mattutino. E io,
nel pubblico di oggi, mi sento come se avessi un serpente
nelle viscere, che si contorce: e mille lacrime
appaiono in ogni punto del mio corpo,
dagli occhi alla punta delle dita,
dalle radici dei capelli al petto:
un grido smisurato, perché scaturisce
prima di essere capito, quasi
prima del dolore. Non so perché soffrire
per tante lacrime spio
il gruppo di ragazzi si allontana
alla luce acre di uno sconosciuto
Roma, che appena risuscitò dalla morte,
sopravvissuta nel così stupendo
gioia di risplendere nel candore:
preso dal tuo destino immediato
di un epico dopoguerra, degli anni
breve e degno di un'intera esistenza.
Li vedo allontanarsi: è ben chiaro che,
gli adolescenti seguono il percorso
di speranza, tra le macerie
assorbito da un bagliore che è vita
quasi sessuale, sacro nelle sue miserie.
E il tuo allontanarti in quella luce
mi fa piangere adesso:
Perché? Perché non c'era luce
nel tuo futuro. perché c'era questo
ricaduta stanca, questa oscurità.
Adesso sono adulti: hanno vissuto
questo tuo terribile dopoguerra
di corruzione assorbita dalla luce,
e sono intorno a me, poveri uomini
per il quale fu vano ogni martirio,
servitori del tempo, di questi tempi
in cui si risveglia lo stupore doloroso
sapere che tutta quella luce,
per cui viviamo, non era altro che un sogno
fonte ingiustificata, non oggettiva
ora di lacrime solitarie e vergognose.

Come nelle altre sue attività, anche quando scriveva le sue recensioni cinematografiche, Pasolini era intensamente coinvolto in ciò che scriveva, senza timore di esagerare o contraddirsi, purché, con ciò, potesse, ancora una volta, promuovere uno scontro., Sui generis come critico, perché nei suoi commenti non si nascondeva la mancanza di imparzialità, Pasolini, più che offrire un'opera di critica cinematografica alle opere sullo schermo, coglieva alcuni aspetti di un film o di un tema, che approfondiva. Questa procedura ha spesso finito per rivelare meno sull'oggetto a fuoco che sulle simpatie, le passioni, gli affetti e le antipatie di questo controverso scrittore e regista.

*Mariarosaria Fabris è professore in pensione presso il Dipartimento di Lettere Moderne della FFLCH-USP. Autore, tra gli altri libri, di Neorealismo cinematografico italiano: una lettura (Edusp).

Versione riveduta e ampliata di “Pier Paolo Pasolini: recensioni cinematografiche”, pubblicata in SOUZA, Gustavo et al. (ed.). Società di studi cinematografici e audiovisivi. San Paolo: Socine, 2012, v. io, pag. 95-109.

 

Riferimenti


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BENCIVENNI, Alessandro. “Accattone”. In: GIAMMATTEO, Fernaldo Di (org.). Dizionario del cinema italiano. Roma: Editori Riuniti, 1995, p. 3-4.

BORGNA, Gianni. “Un eccezionale 'compagno-non compagno'”. In: BALDONI; BORGNA, op. cit., pag. 13-143.

FABRIS, Mariarosaria. “All'ombra di Pierpà”. In: MIGLIORIN, Cezar et al. (ed.). Annali dei testi integrali del XX Convegno Socine. San Paolo: Socine, 2017, p. 737-743.

GHERARDINI, Francesco. “Commento alla poesia di Montale 'Lettera a Malvolio'” (8 gennaio 2015). Disponibile inhttps://ilsillabario2013.wordpress.com/2015/01/08/ commento/alla-poesia-di-montale-lettera-a-malvolio-del-dott-prof-francesco-gherardini-posta-aperto/comment-page-1/>.

KEZICH, Tullio. Noi che abbiamo fatto La dolce vita. Palermo: Sellerio, 2009.

________. "Nota"; “Repertorio dei cineasti e dei film citati”; “Sotto la maschera cretina”. In: PASOLINI, Pierpaolo. Filmo degli altri. Parma: Guanda, 1996, p. 173-174, 141-172, 7-14.

MORAVIA, Alberto. Cinema italiano: recensioni e interventi 1933-1990. Milano: Bompiani, 2010.

NALDINI, Nico. Pasolini, una vita. Torino: Einaudi, 1989, p. 227-239.

PASOLINI, Pierpaolo. “Il 'cinema della poesia'”; "Il cinema impopolare". In: empirismo eretico. Trans. Miguel Serras Pereira. Lisbona: Assírio e Alvim, 1982, p. 137-152, 223-229.

__________. Filmo degli altri, operazione. cit.

POPPI, Roberto. Dizionario del cinema italiano: l'ho registrato dal 1930 di allora. Roma: Gremese, 1993.

ROCHA, Glauber. "Amore maschile". il lampone, Rio de Janeiro, anno VII, n. 336, 5-11 dic. 1975, pag. 12-13.

note:


, “Nannarella” sarà la protagonista di Mamma Roma (Mamma Roma, 1962), ruolo che Pasolini scrisse appositamente per lei. Durante le riprese, tuttavia, ha litigato con l'attrice.

, La preoccupazione espressa da Alberto Moravia, nel recensire alcune produzioni del 1968 – non è priva di una certa parentela. Il leone in inverno (Il leone in inverno), di Anthony Harvey, Isadora (Isadora), di Karel Reisz e La ragazza con la pistola (La ragazza con la pistola), di Mario Monicelli: “la visione del mondo espressa nei due film stranieri […] è ancora, anche commercializzata e banalizzata, quella tipica della cultura occidentale. Mentre la visione del mondo che traspare nel cinema italiano degli attori appartiene alla sottocultura locale. Alludiamo qui alla vile e volgare degenerazione del nostro ormai defunto umanesimo che si chiama indifferentismo”.

[3] Vale la pena ricordare che Bertolucci fu aiuto regista di Pasolini in Accattone (disadattato sociale, 1960) e che ha scritto la sceneggiatura del suo primo lungometraggio La comma secca (La morte, 1962).

, Cfr. il saggio “Il cinema impopolare” (“Il cinema impopolare”, 1970), in cui Pasolini, dopo aver classificato la provocazione di Godard come meramente formale, lo accusa di cedere al messaggio della sinistra. O, come disse Glauber Rocha: “Per me Godard era un genio anarco-destra. Era politico e non rivoluzionario”.

, Pasolini, pur considerandolo un grande regista, criticava Bergman per la sua “cultura strettamente audiovisiva” e per la sua tendenza a “citare” una certa tradizione cinematografica e teatrale. La sequenza del sogno in Accattone, tuttavia, “è quasi una citazione da Smulltronstället, Fragoline di bosco, 1958, di Ingmar Bergman”, come sottolinea Alessandro Bencivenni.

, Giuseppe Gioacchino Belli: poeta dialettale, che, nel suo Sonetti (1884-1891), dipinse un quadro dell'anima popolare di Roma.

, Nel 1954 Bassani, Pasolini e Vancini si erano uniti al gruppo di sceneggiatori di La signora del fiume (la donna del fiume), di Mario Soldati.

, non solo L'osservatore romano condannò il film, in quanto la Chiesa cattolica promosse contro di esso una violentissima campagna: dai pulpiti i preti gli lanciarono anatemi e lo stesso regista lesse, sul portale di una chiesa di Padova, una sorta di annuncio funebre che invitava a pregare per l'anima del pubblico peccatore Federico Fellini. Solo pochi amici gesuiti lo difesero, come notò Kezich.

, Pur essendo grato a Pasolini (e Moravia) per le manifestazioni a favore del suo film, Fellini si fa beffe dell'etichetta di neodecadente che gli viene affibbiata, come ricorda Kezich nel libro su La dolce vita: “Chi sono i decadenti? D'Annunzio, Maeterlinck, Oscar Wilde? Quindi sarei una specie di novello D'Annunzio... Ma ho letto solo il riassunto dell'intervento di Pier Paolo, gli chiederò di spiegarmelo”.

, La via Casilina è una strada che, uscendo da Porta Maggiore e percorrendo la campagna a sud di Roma, conduce alla città di Capua (antica Casilinum), in Campania.

, Pur essendo avvenuto in campo letterario, perché abbastanza emblematico, è interessante riportare l'attacco che Pasolini sferrò dalle pagine di Nuovi argomenti (n. 21, gen-mar. 1971), rivista di cui è stato uno dei direttori, contro Eugenio Montale, recensindo il suo libro satura: oltre a non gradire l'opera, ha criticato il suo autore dal punto di vista ideologico. Come poeta, Montale si è manifestato in versi, rispondendo alla rima, cioè ribattere con fermezza e virulenza al collega. Nella sua lettera aperta, intitolata “Lettera a Malvolio”, attribuì a Pasolini lo stesso nome di un personaggio shakespeariano, tratto dal dramma Dodicesima notte (dodicesima notte, 1623). In poesia, pubblicato in L'Espresso (19 dic. 1971), come Malvolio, Pasolini sarebbe uno che nasconde la sua ipocrisia dietro un comportamento rigido e virtuoso, quando, in realtà, avrebbe saputo approfittare dell'ambiente intellettuale in cui operava. A questa e ad un'altra poesia di Montale, “Dove comincia la carità”, lo scrittore bolognese risponde con i versi de “L'impuro al puro”, con tono pacato, ma pieno di ironia, quando attacca la “purezza” etica di cui Montale si sentiva investito.

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