Pasolini: Scritti corsari

Immagine: Elyeser Szturm
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Di Alfonso Berardinelli*

Prefazione al libro del regista italiano recentemente pubblicato in Brasile

Il saggio politico d'emergenza di Pasolini

L'invisibile rivoluzione conformista, l'“omologazione culturale”, la “mutazione antropologica” degli italiani, di cui Pasolini parlò con tanta ferocia e sofferenza dal 1973 al 1975 (anno della sua morte) non furono affatto fenomeni invisibili. È stato l'unico a vederli? Perché, allora, i suoi discorsi suonavano così inopportuni, irritanti e scandalosi? Anche gli interlocutori meno sgarbati disapprovavano, insieme e come sempre, la sua appassionata ostinazione e il suo schematismo ideologico.

Quello che ha detto Pasolini era, insomma, risaputo. La sociologia e la teoria politica avevano già affrontato tali questioni. I critici dell'idea di progresso, di società di massa, di mercificazione totale, avevano da tempo detto tutto quello che c'era da dire. La nuova sinistra, del resto, non è nata forse da queste analisi? Che senso aveva ora, svolgere il ruolo di apocalittico? Fu, anche per l'Italia, una normale e prevedibile catastrofe dovuta al normale e prevedibile sviluppo capitalistico.

Perché Pasolini insisteva tanto sul suo caso personale? Piangere sul passato era assurdo (quando mai un ideologo, un politico, un sociologo oserebbe piangere per qualcosa?). Tornare indietro era impossibile. Soffermarsi così irrazionalmente sui “prezzi da pagare” per andare avanti è stato inopportuno e poco virile. L'unica cosa possibile era, forse, organizzare una lotta rivoluzionaria contro il Potere e il Capitale, divenuti ormai totalmente multinazionali: oppure cercare di controllare e “civilizzare” le loro dinamiche inarrestabili e, alla fine, positive. Così, gli articoli che Pasolini scrisse nelle prime pagine del Corriere della Sera (allora diretto dall'innovatore Piero Ottone), giornale borghese, padronale e antioperaio, non poteva non provocare reazioni irritate, gesti di sdegno, di ripudio e anche di disprezzo.

Soprattutto chi ricorda, anche vagamente, le polemiche presenti sui giornali di quegli anni, rileggendo il scritti corsari potresti rimanere stupito. Non solo per l'intelligenza e la fantasia sociologica di Pasolini, che sa estrarre questa visione globale da una base empirica limitata alla propria esperienza personale e occasionale (ma, peraltro, da cui tutto il sapere “sociologico” dei grandi romanzieri di il passato derivato, da Balzac e Dickens in poi, se non dalla loro capacità di vedere ciò che avevano davanti agli occhi?).

In nessun semiologo specializzato e professionale la semiologia, che Pasolini nomina con grande rispetto ma che usa con molta discrezione, porta così tanti frutti. Il lettore rimane stupito, soprattutto, dall'inesauribile inventiva del suo stile saggistico e polemico, dall'energia sfrenata e dall'astuzia socratica della sua arte retorica e dialettica, dalla sua "psicagogia": sa far emergere molto chiaramente i pregiudizi intellettuali ( di classe, di casta) e, frequentemente, l'ottusità un po' meschina e persecutoria dei suoi interlocutori, che sembrano sempre avere torto; oppure, se in parte hanno ragione, la loro ragione diventa stridente e irritabile, oltre che cognitivamente inerte. Mentre Pasolini cercava di svelare qualcosa di nuovo, loro difendevano solo nozioni già acquisite.

Sta di fatto che, per Pasolini, i concetti sociologici e politici divennero testimonianze fisiche, miti e storie della fine del mondo. Così, finalmente, Pasolini trova il modo di esprimere, rappresentare e drammatizzare teoricamente e politicamente la sua angoscia. Solo in quel momento gli fu possibile ritrovare uno spazio che sentiva di aver perso negli anni precedenti e utilizzare direttamente la propria ragione autobiografica per parlare in pubblico del destino presente e futuro della società italiana, della sua classe dirigente, della la fine irreversibile e violenta di una storia secolare.

Tuttavia, l'evidenza fisica della scomparsa di un mondo, che avrebbe dovuto essere, ed effettivamente era, sotto gli occhi di tutti, sembrava invisibile ai più. Nella descrizione sommaria, violentemente schematica di queste testimonianze fisiche, Pasolini è stato unilaterale, ingiusto. A volte sembrava accecato dalle sue visioni. C'era una stranezza invincibile che sembrava rendere “tutti uguali” i volti dei nuovi giovani (come “si assomigliano” i volti di popoli lontani che non abbiamo ancora imparato a guardare, ad amare). Ma il senso del discorso era chiaro: ciò che rendeva indistinguibile un giovane fascista da un giovane antifascista, o una coppia proletaria da una coppia borghese, era la fine del fascismo classico e dell'antifascismo, la fine del vecchio proletariato e del vecchia borghesia. Era l'avvento (il Avvento) di un nuovo modello umano e di un nuovo potere che ha cancellato il precedente volto fisico e culturale dell'Italia, mutando radicalmente la base sociale e umana delle vecchie istituzioni.

È strano che Pasolini contestasse l'abuso del termine “Sistema” da parte del movimento del 68. Lui stesso, quando il movimento stava precipitando in una condizione regressiva, formulò, con termini suoi, una denuncia violenta e globale, tratteggiando sommariamente i contorni di un sistema sociale “omni-invasivo”. Ha iniziato con dettagli che sono stati assolutizzati, evidenziati e ingranditi (il taglio di capelli, a slogan pubblicità, la scomparsa delle lucciole). Il quadro, come in tutte le analisi distorte, è diventato distorto. Tuttavia, questa deformazione parziale ha dato ai suoi discorsi una straordinaria efficacia e una coerenza provocatoria. E ha anche dato una nuova immagine della società nel suo insieme, come Sistema.

Certo, l'“omologazione” culturale di cui parlava con ossessiva e didascalica insistenza, cioè la riduzione degli italiani ad un unico ed esclusivo modello di comportamento dispotico (Nuova Borghesia o Totale Nuova Piccola Borghesia), non era un processo che aveva già arrivato fino alla fine. Ma presto lo sarebbe stato. Fu questa trasformazione radicale e totale che rese immediatamente vecchie, prive di significato e falsificate tutte le precedenti categorie di giudizio. Fascismo e antifascismo, destra e sinistra, progresso e reazione, rivoluzione e restaurazione stavano diventando opposizioni puramente terminologiche e consolatorie: buona coscienza degli intellettuali di sinistra. La realtà era diversa, lui era “fuori dal Palazzo” (come dirà nel Lettere luterane), al di fuori degli attuali dibattiti tra gli intellettuali.

La storia italiana ha avuto un'accelerazione repentina: “A un certo momento, il potere ha sentito il bisogno di un altro tipo di soggetto, che fosse soprattutto un consumatore”. Il Centro aveva annullato tutte le periferie. La nuova società realizzava, per la prima volta in Italia, il potere totale, senza alternative, della classe media. Un incubo di uniformità, in cui c'era spazio solo per il “perbenismo” consumistico e l'idolatria delle merci. Si compie così un definitivo “genocidio” culturale. Senza bisogno di colpi di stato, dittature militari, controlli polizieschi e propaganda ideologica, il Nuovo Potere senza volto si appropria pragmaticamente del comportamento e della vita quotidiana di tutti. Le differenze di ricchezza, reddito e rango avevano cessato di creare differenze qualitative nella cultura, tipi umani distinti. I poveri e gli impotenti non ambivano ad avere più ricchezza e più potere, ma volevano essere, in tutto e per tutto, come la classe dirigente, fatta culturalmente l'unica classe esistente.

A questi discorsi la cultura della sinistra italiana ha reagito con indifferenza, quasi sempre al limite della derisione. Pasolini scoprì le cose conosciute e vi diede più risalto. O forse voleva solo “aggiornare” l'immagine un po' logora dello scrittore come coscienza pubblica, vittima perseguitata, anima ferita. Insomma, protagonismo e vittimizzazione. È stato davvero possibile, in buona fede, scoprire solo ora la “tolleranza repressiva”, la Uomo a una dimensione di Marcuse? O gli effetti dell'industria culturale di massa analizzati decenni prima da Horkheimer e Adorno? O, infine, il feticismo delle merci nelle società capitaliste?

Infatti, da questo punto di vista, nelle analisi di scritti corsari non c'è niente di originale. Pasolini, però, questo lo sa bene (il “genocidio culturale”, dice, era già stato descritto da Marx nel Manifesto). Tutto, in teoria, era già stato detto. Ma solo ora questi processi, di cui la sociologia critica aveva parlato in Germania, Francia e Stati Uniti, stavano raggiungendo la loro pienezza in Italia, con una violenza concentrata e imprevista. Per Pasolini fu una scoperta personale, una “questione di vita o di morte”. Il suo strumento conoscitivo era la sua esistenza, la vita impostagli dalla sua “diversità”, dal suo amore per la gioventù sottoproletaria, deforme, anima e corpo, per lo sviluppo. E questo, nella polemica ingaggiata sulle pagine dei giornali, non poteva che diventare un motivo maggiore e quasi insormontabile di scandalo e di disprezzo malcelato nei loro confronti.

L'intellettualismo formale e la politicizzazione diffusi nella cultura di sinistra di quegli anni (dalla cultura marxista laico-moderata a quella marxista ortodossa o neorivoluzionaria) offrirono a Pasolini un inusuale vantaggio culturale. Tutti hanno assistito a ciò che accadeva ai vertici del potere e quasi nessuno è stato in grado di guardare in faccia i propri coetanei e compatrioti: masse che venivano portate all'ordine, che promuovevano la modernità o che venivano mobilitate per la causa del comunismo. La stessa esasperazione dello shock politico in Italia tra il 1967 e il 1975 ha impedito la mancanza di scrupoli intellettuali e la percezione empirica che avrebbe consentito di osservare i mutamenti dello scenario e degli attori coinvolti nello shock.

D'altra parte Pasolini, pur sospettando del movimento studentesco, aveva preso posizione anche contro le accuse subite. In un articolo pubblicato sulla rivista Tempo, il 18 ottobre 1969, si legge: “Fu un anno di restaurazione. La cosa più dolorosa da vedere è stata la fine del Movimento Studentesco, se di fine si può parlare (ma spero di no). In realtà, la novità che gli studenti hanno portato nel mondo lo scorso anno (i nuovi aspetti del potere e l'attualità sostanziale e drammatica della lotta di classe) ha continuato ad operare dentro di noi, uomini maturi, non solo durante quell'anno, ma, credo , ora, per il resto della nostra vita. Le ingiuste e fanatiche accuse di integrazione rivolteci dagli studenti erano, in fondo, giuste e obiettive. E – a malapena, ovviamente, con tutto il peso dei vecchi peccati – cercheremo di non dimenticarlo più”. (il caos, Editori Riuniti, 1979, pp. 215-6)

Nonostante lo schematismo concettuale, il libro scritti corsari rimane uno dei rari esempi in Italia di critica intellettuale radicale della società sviluppata. Se da sola non ha potuto sostituire una sociologia disinibita e ricca di descrizioni (peraltro sempre meno praticata dagli specialisti), è riuscita almeno in parte a salvare l'onore della nostra cultura letteraria, quasi sempre molto manierista e dalle idee ristrette. Ciò che è presente anche qui in Pasolini è il colore livido e dolente delle sue scoperte e dei suoi rifiuti, la tensione esasperata della sua razionalità, una disarmata mancanza di umorismo ironico e satirico. la forza di scritti corsari è, soprattutto, nella realtà emotiva e morale di questo lutto.

Pasolini è stato uno degli ultimi scrittori e poeti italiani (con i suoi contemporanei Andrea Zanzotto, Paolo Volponi e Giovanni Giudici) impensabili in una scena non italiana, astrattamente cosmopolita. Quella speciale “eternità”, sacra e mitica, del paesaggio, del mondo sociale italiano, come aveva elaborato nella sua opera, la ritroviamo qui evocata, soprattutto nell'articolo dedicato a Sandro Penna: “Che paese meraviglioso era l'Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come l'avevamo conosciuta da bambini, e da venti, trent'anni non è cambiata: non mi riferisco ai suoi valori [...] ma le apparenze sembravano dotate del dono dell'eternità. Potremmo credere appassionatamente nella rivolta o nella rivoluzione, eppure quella cosa meravigliosa che era il modo di vivere non sarebbe stata trasformata. […] Non farebbero altro che migliorare, appunto, le loro condizioni economiche e culturali, che sono nulla rispetto alla realtà preesistente che governa in modo meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano nei grandi viali [...]”.

Questo saggio di emergenza politica è la vera invenzione letteraria degli ultimi anni di Pasolini. Si basa sullo schema retorico della requisizione, ed è la grande oratoria dell'accusa e dell'autodifesa pubblica di un poeta. Gli stessi toni di elegia sono qui portati dalla schietta semplicità dell'argomentazione. L'ideologia di scritti corsari è “vocale”, improvvisato, si muove sull'improvvisazione polemica e su un'architettura chiara di concetti, di nervi razionali nudi, che sostengono il fragile edificio del discorso con la forza dell'iterazione. Scompare ogni gioco di tonalità, attenuazioni, correzioni, incisioni, luci e ombre. In queste nuove poesie civili o incivili in prosa, tutto è disperatamente e rigorosamente in piena luce. Un nuovo potere sociale, pragmatico ed elementare, che schiaccia ogni cosa nella sua uniformità, è descritto con uniformità altrettanto spietata, e con un uso altrettanto pragmatico ed elementare dei concetti, come per mimetica replica. Il genio saggistico-teatrale di Pasolini sta tutto in quell'intellettualismo scarno e geometrico che manifesta distruttivamente la sua angoscia per la perdita di un oggetto d'amore e la moderna desacralizzazione di Toda la realtà.

*Alfonso Berardinelli è professore in pensione di Storia della critica letteraria all'Università di Cosenza. Autore, tra gli altri libri, di Dalla poesia alla prosa (Cosac Naify, 2007).

Traduzione di David Pessoa Carneiro.

Riferimento
scritti corsari
Pier Paolo Pasolini
Traduzione, presentazione e note di Maria Betânia Amoroso
Editore 34, 294 pagine.
Testo originariamente pubblicato come prefazione all'edizione italiana del scritti corsari (Milano, Garzanti, 2011) (https://amzn.to/3P1sPvD).

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