da LUIZ RENATO MARTIN*
Commento alla mostra “Quasi Circo”, con opere di Carmela Gross, in mostra al Sesc-Pompeia
Tre inviti e sviluppi
Campione Quasi circo, al Sesc-Pompeia (26.03 – 25.08.2024, opere Carmela Gross, a cura di Paulo Miyada), lancia, da ogni opera, installazione o pezzo, fondamentalmente tre tipi di inviti simultanei: all'esperienza visiva, catturata in particolare da costruzioni luminose e dall'intensità cromatica di enormi teli spiegati come stendardi e sipari (circo, palcoscenico o schermo); all'esperienza socializzata del camminare e del parlare; e un processo di totalizzazione critica, combinato con le prime due attività.
In questi termini e come suggerisce il titolo stesso, Quasi circo agisce sinesteticamente, moltiplicando le forme di ricorso alla percezione, ma senza limitarsi all'ambito sensoriale, presentando cioè anche intensità riflessiva e densità storiografica. Il risultato illumina gli occhi e porta ad ammirare, oltre all'esposizione, le qualità del progetto di Lina Bo Bardi (1914-1992) per la ristrutturazione architettonica del vecchio complesso industriale, riconvertito in centro culturale e sociale per gli operai, ma aperto anche al grande pubblico.
Elementi e distribuzione
La proposta basica o piano terra si rifà sia all'interazione immediata, tipica delle sfilate delle attrazioni circensi, sia alla reciprocità tra passi e pensiero, cioè alle cosiddette pratiche peripatetiche degli albori della filosofia nell'antichità. polizia Greco: quello di camminare in compagnia e in dialogo. Senza pareti tra le opere, il visitatore inventa il proprio percorso nella grande piazza coperta che costituisce lo spazio comune; Può andare e venire con il flusso delle idee.
Nel suo allestimento senza divisioni, la mostra evoca sia l’inserimento nell’ambiente urbano – inteso come situazione di interazione e prospettiva di convivenza civica o costante con gli altri – sia la sistemazione dialogica e riflessiva, cioè le pratiche congenito all'ascolto, inerente al dialogo filosofico nascente nel contesto della polizia. Oltre a questo ordine di apertura e trasparenza, Quasi circo è direttamente legato sia attraverso le sue pratiche produttive che i suoi legami di origine (dettagliati di seguito) alla resistenza e all'inventiva popolare.[I]
Allo stesso modo, dentro Quasi circo tutti gli oggetti in mostra, infatti, assemblano o rielaborano materiali economici, già pronti e disponibili in commercio – proprio come fanno solitamente l’architettura e le arti della riproducibilità industriale o tecnica. Prevalgono l'informalità e l'atmosfera di un laboratorio, aperto a chiunque si presenti. Così, Quasi circo evita pratiche singolari di maestria e di eccellenza (e anche di eccezione), per affidare le sue invenzioni ad azioni assembleari.
Per realizzarlo si avvale di materiali di consumo di base (lampade tubolari e relativi cavi elettrici, tessuti e tele di negozi popolari, foto di giornali, legname per rivestimenti, pannello informativo in guidato – comunemente usate nel commercio, per vendite occasionali –, oltre ad oggetti raccolti nelle discariche e nei mercatini dell’usato…) – senza, d’altro canto, moderare o risparmiare sulla scala, che non è né intima né domestica, ma collettiva e propriamente urbano.
Intrinseco a ethos della mostra e naturalmente inglobati nella dimensione architettonica e collettiva delle opere Quasi circo, tre autori ricordati in testi specifici – e con i quali la mostra dialoga vividamente nei diversi spazi della Sesc [Fábrica da] Pompeia (nome originario, ora abbreviato) –, la già citata architetto Lina Bo Bardi, il drammaturgo Zé Celso Martinez Correa (1937 -2023) e Hélio Oiticica (1937-1980), incarnano nella loro carriera l'alleanza tra lo sperimentalismo delle avanguardie artistiche e l'incorporazione fraterna e metabolica dell'inventiva e della resistenza dei linguaggi popolari.
Storicità, unità sistemica e teatralità
Quindi i due (se non tre, chissà) momenti che richiamano Hélio Oiticica non sono casuali ma piuttosto strutturali: uno, nella pièce Bandiera del perno (2024) che evoca parangolé e tessuti di Tropicalia (1967) e al quale è assegnata la funzione di passaggio iniziatico, impregnante sensorialmente, ovvero di “portale”, come si legge nel memoriale di progetto pubblicato al pubblico in una cartella. E un'altra, nel titolo generale della mostra, che allude alla serie Quasi cinema (1971-75).[Ii]
il caso di Il fotografo [2001], a sua volta, è speciale. La disposizione del corpo accennato, lo stato di vita appeso ad un filo, il dramma lirico e struggente emanato dalle esili lampade rosse e dalle sottili e fragili strutture metalliche, nonché dai fili e dai collegamenti esposti – e quindi indifesi, lasciano pensare ad un'irruzione mnestica, in una coalescenza o in duetto con la figura tragica, dal corpo scomparso e decaduto, creata da Oiticica nel Sii marginale, sii un eroe (1968) – opera decisiva e momento indimenticabile nell'arte brasiliana.
Magnetico è anche l’omaggio in rosso a Zé Celso Martinez Correa – già esposto al Sesc nel 1999. Nello stesso luogo, ma ora in un’altra costellazione, oggi appare collocato all’estremità di una diagonale immaginaria, dal Bandiera pivot, che collega un'intera sezione della mostra e conduce, dall'altra parte, al bandiera Rosso (1999): un immenso mantello parangolé dedicato al drammaturgo (che esclamò, allora: “Voglioparangolizzare'il mantello […]”).[Iii]
Né il ricorso complice, ma anche critico (torneremo sull'argomento) è rivolto al primo dei ready-madeo Portabottiglie (Porte-bouteilles, 1914) di Marcel Duchamp (1887-1968). Allo stesso modo, le allusioni e i viaggi decisivi attraverso passaggi e nozioni chiave dei pensatori rivelano non solo valore strutturale, ma funzionano anche didatticamente. Funzionano come segnali che evidenziano direzioni di lettura e propongono interconnessioni tra temporalità e contesti storici diversi, ma mirando sempre al contesto attuale.
In questo modo, oltre agli aspetti di estasi che emergono con forza nelle opere luminose e nei panni spiegati, e che corrispondono al titolo, Quasi circo porta unità sistemica critica e riflessiva, inerente a una dimensione saggistica sobria e discreta, che si rivela durante tutto il percorso – che è inseparabile, a sua volta, dal dialogo simultaneo con l’architettura.
Dalla prospettiva sistemica della progettazione generale, delle parti e degli impianti Quasi circo appaiono strutturalmente combinati attraverso materiali o segni e allusioni ad a corpo riferimenti storici accurati. Come nel caso dei suddetti interlocutori, l' corpo riunisce di tutto, dai riferimenti storici delle arti ai collegamenti o ai segni di questioni storico-sociali che trascendono o invadono, dall'esterno, il puro dominio delle arti; domande e rapporti interattivi o reciproci (con concretezza storica), da cui le opere possono essere più chiaramente distinte e situate oggettivamente; e, davanti al quale le opere esposte invitano il visitatore a totalizzazioni e sintesi.
Ad esempio, Luce del fuoco (2018/2024) evidenzia questo legame oggettivo con la realtà o con la “totalità che esiste fuori del dipinto e che da lì lo invade”, nelle parole del pittore Antonio Dias (1944-2018).[Iv] Ma questo nesso permea tutta la mostra. Quasi circo, in questo senso, non sfuggono alle lezioni teatrali di Bertolt Brecht (1898-1956) sui rapporti dell'arte con le maggiori dinamiche storiche e, analogamente, il suo interesse per le attrazioni circensi, come riviste, locali notturni e scene fieristiche.
Epica urbana e totalizzazione
In breve, Quasi circo assembla pezzi e installazioni illuminate con senso scenico e in maniera successiva, quindi, in un ritmo teatrale e circense, e secondo le qualità radicalmente democratiche degli spazi proposti dall'architettura di Lina Bo Bardi. Si crea così la porosità di una piazza pubblica aperta, ma protetta come ambiente ospitale e giocoso con una pavimentazione accogliente.
Tutti insieme, questi elementi favoriscono una passeggiata fluida e piacevole, assecondando il corso di conversazioni nutrite dalla fecondità dei luoghi comuni e dalla convivenza ottimizzata in città. Pertanto – contando sulla mediazione di un'esperienza urbana collettiva ricostruita nei migliori termini, ma con aspetti oggettivi e materiali concretamente realizzabili –, è certo che il visitatore si trova sollecitato ad azioni di sintesi e totalizzazione. Resta da stabilire i termini precisi dell'invito.
La situazione di partenza, marcatamente collettiva e permeata dallo spazio urbano, e la spiccata pluralità dei materiali inglobati, risalgono, in termini di tradizione storica, all'avventura gioiosa e provocatoria dell'epica collettiva presente nelle molteplici opere di Oiticica post-neoconcreta, vale a dire, nella proposizione di parangoliDi antiart, e sviluppi (“arte ambientale”, “supersensoriale” e così via),[V] nonché al centro delle esperienze di Zé Celso e del Teatro Oficina.
Da questo punto di vista, senza la percezione simultanea del contesto sociale e storico, poco o nulla si può ricavare dalla reinvenzione dello spazio architettonico, dalla fabbrica al centro comunitario, così come dalla passeggiata attraverso Quasi circo. In effetti, allo sguardo puro, senza la mediazione del sentimento energetico dell'epica, l'esposizione e l'architettura che la ospita, entrambe, scompaiono per la mancanza di significato e di energia insita nella mediazione da parte dell'insieme – e materiali e gli impulsi per entrambi arrivano simultaneamente e necessariamente attraverso lo sguardo del visitatore.
Scala collettiva, riproducibilità e sintesi
Oggetti dismessi e senza valore aspettano, dentro ruota panoramica, il visitatore è appena arrivato dalla strada davanti al primo grande portone che immette nella mostra. Per sminuire la sorpresa, cominciamo ricordando che l'inserimento degli oggetti già pronto (ready-made) e con radici manifatturiere o industriali – cioè senza tracce di manipolazione da parte dell'artista – appartiene alla storia dell'arte moderna. Nel 1914 Marcel Duchamp (1887-1968) presentò un portabottiglie (Porte-bouteilles, 1914), oggetto di utilità corrente e reperibile in commercio, singolarizzandolo in termini poetici unicamente attraverso l'atto di scelta autoriale (sulla scia, altri ready-made è apparso in tutta l'opera di Duchamp, ma non è questo il punto).[Vi] Un oggetto simile a questo oggetto inaugurale può essere trovato nell'insieme degli oggetti presentati in ruota panoramica.
Niente, tuttavia, eguaglia o equipara l'ambiente artistico e museografico previsto da Duchamp alla situazione di questo oggetto nell'installazione. ruota panoramica. Molto più che una citazione, qui c'è una negazione e un superamento dialettico. Vale la pena confrontare. L'isolato preconfezionato portato da Duchamp all'augusta posizione dell'inutilità, vista allora come condizione necessaria dell'arte, si ribellò ai suoi nuovi coetanei (allora più illustri), figli legittimi che erano maestri artistici. Con la legittimazione un po’ paradossale di un “oggetto bastardo”, Duchamp è riuscito certamente ad ampliare la nozione di opera d’arte, per non parlare di molti altri sviluppi – tra cui, per andare rapidamente, la corrente poetico-critico-curatoriale oggi etichettata di Istituzionale Critica (sic).
D’altro canto, oltre alle questioni proprie dell’istituzionalità dell’arte, in ruota panoramica, la particolarità e l'unicità del portabottiglie si stemperano nella comicità di una ciranda o di un gioco in cerchio. In esso, l'oggetto duchampiano, invece di essere distinto e trattato come un segno o una presenza illustre, lo si vede raggruppato in un gruppo di circa 250 oggetti, raccolti da discariche e negozi di seconda mano. La totalizzazione è necessaria. In quanto atto di critica e di riflessione, la totalizzazione è sempre un lavoro che va oltre la somma o l'accumulo ritrovato. Si tratta di problemi: negazioni e superamenti, salti e sfide – la sintesi è, oltre che negazione, costruzione.
Qui il visitatore si trova invitato a un salto critico; operazione che, certamente, può includere la memoria storica dell'impresa di Duchamp, come termine di paragone, senza però costituire un requisito indispensabile per comprendere l'insieme. Il salto richiede rinculo e slancio. La sintesi riflessiva o la totalizzazione critica deve comprendere sia l'insieme degli oggetti sia considerare ciò che li circonda; quindi, una situazione più ampia, con più elementi e connessioni, che racchiude e propone altre questioni da affrontare.
Oltre la ribellione
Uno di questi problemi – evidenziato nei pezzi e nelle installazioni in mostra, basati su materiali da costruzione comuni – riguarda l’aspetto cruciale della riproducibilità tecnica, che, come condizione generale, abbraccia tutti gli oggetti manufatti. È noto che il problema fu posto e approfondito da Walter Benjamin (1892-1940) nel saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”,[Vii] circa venti anni dopo l'assunzione del preconfezionato allo stato di un oggetto d'arte.
Tra gli altri problemi concreti, implicati nel solco di quello proposto da Benjamin, c'è anche quello della critica e della storiografia d'arte di fronte a tali oggetti – problema che l'osservatore di ruota panoramica Anche lui tende a vivere in prima persona: infatti, davanti a oggetti banali e disparati, se non addirittura vecchi e fuori circolazione: cosa ammirare, come giudicare?
Una possibilità è procedere in modo interrogativo, svelando e approfondendo il focus investigativo. Così, un tempo, di fronte all’onnipresenza della merce come forma elementare del processo economico capitalistico, Marx (1818-1883) si interrogava sul modo di produzione e sulle sue premesse, che presiedono all’emergenza e alla fisiologia o modo della circolazione della merce. Procedere in modo analogo, in questo caso, implica chiedersi, vista l'installazione in questione, con quali finalità e criteri sono stati accostati l'insieme di oggetti disparati, cosa ne ha dettato la disposizione e l'organizzazione?
Scala collettiva, forma oggettiva
Ben diversa dalla situazione del portabottiglie, elevato al rango di oggetto d'arte, è quella degli oggetti dismessi, raccolti per comparire in ruota panoramica. Venendo (per continuare con l’esempio dell’opera di Marx) dalla “mostruosa collezione di merci” evocata nel famoso primo paragrafo di La capitale,[Viii] Gli oggetti disposti sul pavimento, in grande quantità – molti già logori e senza valore – attestano nel loro attuale deprezzamento il contenuto effimero, datato e deperibile di ogni utilità o mezzo di lavoro e di produzione.
In uno stato ormai condiviso con altri oggetti ammucchiati in zone degradate della città, quelli raccolti e riuniti sul luogo dell'attentato ruota panoramica (ruote, mattoni, borse, vecchi libri e giornali, resti sciolti di ingranaggi, ecc.) ricordano, come strumenti e mezzi di lavoro fuori uso e circolazione, l’ondata di migranti e rifugiati disoccupati che affrontano l’impossibile, con la tenacia di disperazione, alla ricerca di condizioni fisse di occupazione e sopravvivenza.
Nella scena di ruota panoramica, senza nascondere le tracce precarie della recente situazione, ma qui riutilizzate e inglobate in strutture sopraelevate ( sartiame, forbici e travi),[Ix] sotto una nuova luce e relazioni sintetiche (estetiche, critiche e didattiche), proposte da ruota panoramica, tali oggetti acquisiscono il modo oggettivo[X]della circolazione tronca e intermittente, presente nelle economie fratturate dalle disuguaglianze inerenti al Terzo Mondo, dove il lavoro manuale non ha quasi alcun valore.
Questo, quindi, sarà in breve il salto dal ruota panoramica? Mentre nella sua forma isolata e unica, il ready-made cento anni fa (1914) implicava, in modo critico e comparativo, altri oggetti determinati dalla singolarità e dall’eccezionalità inerenti alla sfera esclusiva dell’arte,[Xi] ora in ruota panoramica nel loro insieme o installazione, il significato è cambiato decisamente, riguardando non particolari oggetti e le loro peculiarità, ma piuttosto l'insieme dei mezzi di lavoro e di produzione.
Il tutto viene poi a mettere in luce un aspetto storico strutturale dei processi di modernizzazione tardiva e accelerata. In essi, pratiche economiche e legami produttivi muoiono rapidamente, moltiplicando scenari di disuso e disparità variegate, come ciò che vediamo e sentiamo prima. ruota panoramica – immagine sintetica, infine, di circolazione generale, invito e appello all'esperienza della visione come totalizzazione.[Xii]
*Luiz Renato Martins è professore-consulente di PPG in Visual Arts (ECA-USP). Autore, tra gli altri libri, di Il complotto dell'arte moderna (Haymamercato/HMBS). [https://amzn.to/4e9w3ba]
Questo articolo è la prima parte. Il secondo sarà pubblicato prossimamente.
Riferimento
Quasi circo, di Carmela Gross.
San Paolo, SESC Pompeia, 27 marzo – 25 agosto 2024.
note:
[I] Un esempio (rilevante, come vedremo) di preservazione e rigore, in questa materia, è stato il processo di salvataggio condotto da Lina Bo Bardi, di fronte all’alterità dell’oggetto d’arte popolare, distintosi al tempo stesso come atto di resistenza e creatività. Si veda, a questo proposito, l'ottimo film di Aurelio Michiles e Isa Grispum Ferraz, Lina Bo Bardi, San Paolo, Istituto Lina Bo e PM Bardi, 1993, 50 min; disponibile a: .
[Ii] Per una compilazione dettagliata, vedere Carlos BASUALDO, Hélio Oiticica: Quasi-cinema, catalogo della mostra con lo stesso titolo (2001-02), Columbus (Ohio), Wexner Center for the Arts/ Köln, Kölnischer Kunstverein/ New York, New Museum of Contemporary Art/ Berlino, Hatje Cantz Publishers, 2001.
[Iii] “L'ho adorato, è un meraviglioso mantello sciamanico (…) Il rosso è il mio colore preferito, penso che alla bandiera brasiliana manchi il rosso, il colore della passione, del fuoco, il colore di Cacilda”, ha detto Zé Celso, in occasione della prima mostra di quest'opera in suo onore, associata all'assegnazione del Premio Multiculturale Estadão (1999), al SESC Pompeia, aggiungendo che lo avrebbe vestito per ballare durante la cerimonia di premiazione: “Voglio 'parangolizzare' il mantello (…)” (il corsivo è mio). apud Beth NÉSPOLI, “Zé Celso, l'infaticabile pioniere dell'arte”, nel giornale Lo Stato di San Paolo, 01.05.1999, pag. D6.
[Iv] In un’intervista realizzata a Colonia (Köln), Germania, nel giugno 1994, alla domanda dell’intervistatore – perché usasse forme geometriche combinate con le parole –, Dias rispose: “(…) per mostrare questa totalità che esiste fuori dall’inquadratura, e da lì invade.” Cfr. Antonio Dias, “In conversazione: Nadja von Tilinsky + Antonio Dias”, in Vv. Ah, Antonio Dias: Opere / Arbeiten / Opere 1967-1994, Darmstadt/San Paolo, Cantz Verlag/Paço das Artes, 1994, pp. 54-55.
[V] Per il brillante percorso di Oiticica dopo il movimento neoconcreto, vedere Mário Pedrosa, “Environmental Art, Post-Modern Art, Hélio Oiticica”, Posta del mattino, Rio de Janeiro, 26 giugno. 1966, ripubblicato in Aracy Amaral (org.), Dai Murales di Portinari agli Spazi di Brasilia, San Paolo, Perspectiva, 1981, pag. 205; e in Otília Arantes (org.), Accademici e moderni: testi selezionati, vol. III, San Paolo, Edusp, 1995, p. 355.
[Vi] Duchamp aveva già installato un anno prima, nel 1913, nel suo studio una sorta di prototipo dell' preconfezionato, una ruota di bicicletta fissata capovolta su una panca di legno. Tuttavia non espose mai questo pezzo, che rimase come annotazione o prototipo.
[Vii] Scritto inizialmente tra l'ottobre e il dicembre del 1935, questo testo conobbe diverse versioni negli anni successivi. Per la seconda versione, notevolmente ampliata, pubblicata nel maggio 1936 in Zeitschrift per la ricerca sociale (rivista dell'Istituto di ricerca sociale, in esilio) vedi Walter BENJAMIN, L'opera d'arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, presentazione, traduzione e note Francisco De Ambrosis Pinheiro Machado, Porto Alegre, editore Zouk, 2012. Per una traduzione dell'ultima versione (1939), vedi idem, “L'opera d'arte nell'era della sua riproducibilità tecnica” in Walter BENJAMIN , Detlev SCHÖTTKER, Susan BUCK-MORSS e Miriam HANSEN, Benjamin e l'opera d'arte/ Tecnica, immagine, percezione, org. Tadeu Capistrano, trad. Marijane Lisboa (dal tedesco), Vera Ribeiro (dall'inglese), Rio de Janeiro, Contraponto, 2012. Il volume comprende lettere tra Benjamin, Adorno e Horkheimer, attorno al saggio in questione.
[Viii] “La ricchezza delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico appare come un 'mostruoso insieme di merci', e la merce singola come la sua forma elementare”. Vedi Carlo MARX, Das Kapital, Berlino, Dietz Verlag, 1984, pp. 49-98; trans. fratello: la merce, trad. e commenti di Jorge Grespan, São Paulo, Ática, 2007.
[Ix] Per un'analisi dettagliata della struttura di ruota panoramica (2019/2024) e come ciò sia avvenuto, in una situazione in cui il sartiame appariva irriverentemente legato non a travi, forbici e travi austere come avviene al SESC Pompeia, ma ai capitelli delle colonne neoclassiche in architettura kitsch dell'edificio che funge da sede del centro culturale denominato Faro di Santandernder, vedere LR MARTINS, “Ferris Wheel: Essay on crollo” in Carmela Gross e LR Martins, Ruota panoramica/Rueda Gigante/Grande ruota. Installazione Carmela Gross, presentazione Paulo Miyada, saggio Luiz Renato Martins [versione spagnola Gabriela Pinilla; Versione inglese Renato Rezende], San Paolo, Editora WMF Martins Fontes/ Editora Circuito, 2021, pp. 51-62.
[X] Per la nozione di modo oggettivo, come “sostanza storico-pratica” che condensa i ritmi generali della società, e opera come “nervo sociale” e dialettico della forma estetica, cfr. Roberto Schwarz, “Adeguatezza nazionale e originalità critica”, in idem, Sequenze brasiliane: saggi, San Paolo, Companhia das Letras, 1999, pp. 30-31; vedi anche, pp. 28-41. Per l'origine dell'idea di “forma oggettiva” e il processo di traduzione estetica del “ritmo generale della società” nel romanzo brasiliano, vedi Antonio CANDIDO, “Dialética da Malandragem”, in Il discorso e la città, Rio de Janeiro, Oro su blu, 2004, pp. 28, 38. Cfr. anche LR MARTINS, on. cit., p. 55, 62.
[Xi] In modo parzialmente analogo a Duchamp, Oiticica, nel lanciare la sua ricerca sull'ambiente urbano, articolandola con la proposizione di antiart, si è avvalso di oggetti deprezzati ritrovati per strada. Li ha quindi selezionati isolatamente e per le loro apparenti caratteristiche formali, per contrapporre ironicamente le forme istituzionali dell'oggetto d'arte. Vedi, ad esempio, le lattine di olio da cucina (Fotografia di strada, Rio de Janeiro, 1965), mattoni (Pronto Costruibile, Rio de Janeiro, 1978-79), bottiglie di plastica (Paesaggio ready-made topologico/Omaggio a Boccioni, Rio de Janeiro, 1978), pezzo di asfalto, ritrovato di notte in Av. Presidente Vargas (Ambulatorio del Delirio, 1978) ecc.
[Xii] Sono grato per i commenti e la tagliente recensione di Gustavo Motta, le osservazioni di Maria Lúcia Cacciola, la raccomandazione di Jorge Grespan, la critica chirurgica di Sérgio Trefaut e la collaborazione di Carolina Caliento nel montaggio delle immagini.
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