da FILO OSVALDO FONTES*
Come introdurre nel nostro immaginario quotidiano della pandemia un desiderio e un dolore che vadano oltre ogni significato scontato?
Nell'attuale scenario della pandemia, sarebbe forse importante interrogarsi sull'efficacia (etica e politica) delle immagini che occupano i nostri schermi e, di conseguenza, il nostro immaginario. Sembra inevitabile cercare di comprendere gli atteggiamenti legati alla situazione attuale dal ricorso al pathos (all'emozione) fornita da un'involontaria messa in scena corporea che occupa quotidianamente la scena mediatica. Questo perché l'attualità brasiliana ha orchestrato una violenta antitesi visiva dei corpi: quelli che, vestiti con i colori nazionali, si radunano in manifestazioni estemporanee a favore del potere esecutivo, opponendosi a chi, malato, semplicemente si ammassa negli spazi ospedalieri. Tra corpi in agitazione e corpi in pena, il momento è propizio per osservare, insieme alle immagini, quegli occhi veri della storia, dove si trovano le nostre tacite intolleranze, i nostri desideri inconsci, le nostre paure latenti.
Vale la pena richiamare qui, subito, la lezione di Jacques Rancière: nell'analizzare il sistema informativo ufficiale, bisogna attaccare le regole del gioco piuttosto che imporre un copione che presupponga che siamo inerti di fronte alle immagini. “Non siamo davanti alle immagini, siamo in mezzo a loro, così come loro sono in mezzo a noi”. La questione, quindi, non è quella di infierire ancora una volta contro il torrente di immagini che ci sommerge ogni giorno, ma di sapere “come ci muoviamo in mezzo a loro, come le facciamo circolare”[I].
In tempi di soffocamento in tutti i sensi, è possibile evocare immagini di fotogiornalismo che ci mostrano come anche lo sguardo abbia un regime di respirazione particolare. Qualcosa come uno sforzo dialettico costantemente animato da un ritmo misurato o da un battito alternato.
In questo senso, due fotografie recentemente pubblicate da Folha de Sao Paulo costituiscono testimonianze di un ritmico avanzare e ritirarsi dello sguardo.
Il 28 marzo, il quotidiano di San Paolo pubblica un'immagine del presidente Bolsonaro in una delle sue apparizioni pubbliche davanti al Palazzo Alvorada. Lo accompagnava una didascalia: “Mentre parla davanti ad Alvorada, Jair Bolsonaro spruzza sputo, motivo primario del distanziamento sociale”. Scoppiettare, parola insolita, fatta di circostanza, sinonimo di una prosaica spruzzata di saliva, ha poi catturato l'attenzione del fotografo e guadagnato i 2/3 della superficie della fotografia.
L'immagine delle schegge presidenziali, così messa a fuoco nell'ingrandimento fotografico, ha una straordinaria efficacia metonimica. Se la parte vale il tutto, c'è la precisa registrazione visiva delle nostre paure: la scorrettezza verbale del rappresentante, la sua stessa dannosità (fatta di intemperanza e disagio), in gloriose macchie biancastre che dilagano lo spazio, sullo sfondo di un volto sfocato, perfetto rappresentante, dunque, dell'anonimo su cui sicuramente verranno a depositarsi schizzi salivari nelle varie forme di verbosità controproducente e indecorosa in tempi di tragedia collettiva nazionale.
C'è un'immagine dallo straordinario potere designativo. Lei far vedere senza bisogno del parole per far vedere. Nel suo mutismo, sostituisce il torrente informativo che ci assale. In questo senso si distingue forse per simboleggiare le tensioni ideologiche che si vivono. E lo fa invitando lo sguardo a mettere a punto la sua percezione del reale, a posarsi su minuscole goccioline pestilenziali sospese nell'aria.
Una seconda immagine, pubblicata con variazioni in diversi veicoli informativi, sceglie di starne alla larga. Si tratta di una veduta aerea delle tombe aperte in allineamento quasi geometrico nell'immenso cimitero di Vila Formosa, a San Paolo. I volumi apparentemente in attesa del loro contenuto, una sequenza che la veduta aerea intensifica, trasfigurano in qualche modo i singoli corpi. L'immagine, desiderosa di allineare il collettivo di fronte alla catastrofe, forse scoraggia uno sguardo individualizzato. Il cimitero, le cui dimensioni sono proporzionali alla miseria urbana che serve, non è un oggetto casuale per fotografare i fatti. L'immagine cercherebbe di dimostrare che esiste una grande comunità di fronte al destino, e il singolare è sussunto nell'universalità della morte che invade la vita quotidiana. Il distanziamento sembra predisporre a immagini inquietanti.
Ricorderei, qui, la lezione di Georges Didi-Huberman: un'immagine, per quanto innocua o neutra possa essere, diventa inevitabile “quando una perdita la sopporta”[Ii]. È allora che questa immagine comincia a guardarci, a preoccuparci, a perseguitarci. Questo è ciò che fa di un semplice piano ottico “una potenza visiva che ci guarda”. Potenziale di inquietudine, somatizzazione, immaginazione, dotata di diabolico, e irriducibile, flusso e riflusso ritmico, avanzata e ritirata, apparizione e scomparsa.
In questo senso, le due fotografie evocate sembrano rispondere proprio a questa doppia dimensione dell'immagine, al suo ritmo perennemente va e vieni: sistole o contrazione del vedere (registro indagatore e focalizzato del vedere), diastole o dilatazione del vedere (disperso, regime immaginativo del guardare).
A questo carattere dinamico delle immagini corrisponde anche una doppia implicazione della conoscenza. Né una pura immersione, nell'“in sé” di un fatto, nel terreno del “troppo vicino”. Né una pura astrazione, una superba trascendenza, nel cielo del “troppo lontano”, come sottolinea Didi-Huberman[Iii]. Per lo storico e filosofo delle immagini è necessario prendere posizione per conoscere, assumersi la responsabilità del muoversi. “Questo movimento è insieme 'avvicinamento' e 'allontanamento', avvicinamento con riserva, allontanamento con desiderio”. Ecco perché Didi-Huberman apprezza così tanto i montaggi fantasiosi che vede nell'album di immagini di guerra di Bertold Brecht. Lì nota, in particolare, un'approssimazione paradossale tra la “guerra dei microbi invisibili” e la veduta aerea del suolo sventrato di Amburgo dopo i bombardamenti aerei.[Iv]. Un modo per mostrare che, per Brecht, è possibile comporre con l'ebbrezza delle immagini, verificare il più vicino e il più lontano, “e mai l'uno senza l'altro”, la conoscenza senza immaginazione; infine, le relazioni intime e segrete delle cose. È notevole osservare come la stessa sistole del vedere e la stessa diastole dell'immaginazione sembrino ora rilanciarsi nelle immagini del nostro attuale fotogiornalismo. Come riedizione della stessa esigenza di conoscenza per immagini, una conoscenza abituata al pathos, all'empatia (necessariamente immaginativa) del tragico.
Accade così che l'empatia per il tragico vada seguita, secondo Brecht, allontanandosi dalla visione critica, demistificando il comportamento rappresentato dai personaggi (dal teatro e dalla vita) e il modo in cui questo comportamento è rappresentato. C'è da chiedersi, dunque, se lo spettatore contemporaneo dell'immaginario della pandemia sia invitato ad assumere una posizione critica, ad una acutezza di visione.
Accade così che prevalgano nei nostri media segni visivi che mirano alla perfetta leggibilità, alla trasmissione di un'ovvietà irriducibile, di ciò che, in un'immagine, può raggiungerci, commuoverci e consegnarci, finalmente, una verità. Questo è il caso esemplare di una foto del pluripremiato fotografo Lalo de Almeida pubblicata in Folha de Sao Paulo il 5 aprile. In un interno povero, nella penombra, una donna con il suo bambino in braccio si lascia fotografare accanto al frigorifero aperto e poco attrezzato. Questa immagine ci consegna al record inappellabile della piena indicalità: una mera illustrazione della materia, l'immagine come ovvietà. Tanto da illustrare un rapporto dal titolo: “La quarantena in SP riduce a riso la dieta dei bambini della periferia”. Il lettore è invitato a verificare l'attendibilità del rapporto nell'immagine. L'immagine spalanca, come il frigorifero, ciò che chiede al suo spettatore: un premeditato sentimento di indignazione verso le “anime buone”. L'immagine “desidera”, per così dire, che gli sguardi identificano inequivocabilmente ciò che indica. Legge mercantile di equivalenza dei sensi e dei sentimenti.
Esempi di questa verità ovvia indicale ora proliferano nei media quotidiani. Nel numero del 28 maggio di Folha de Sao Paulo, una fotografia registra con successo un'incongruenza sociale: in piedi, in mezzo allo sporco, un bambino della periferia posa per il fotografo indossando una maschera per proteggersi dal coronavirus. L'immagine alimenta l'indignazione, è certo. Ma persiste nella tacita conferma di un dispositivo di visibilità che indica la vittima, regola lo statuto del suo corpo rappresentato e conferma allo spettatore consapevole lo stato della società.
Ma ci sarebbe modo di garantire all'immagine della catastrofe una qualche resistenza alla mera funzione di transitività? Ci sarebbe modo di proporre immagini dell'orrore senza ricadere nello scandalo della letteralità? “La fotografia letterale”, ci ricorda Barthes, “ci presenta lo scandalo dell'orrore, non l'orrore stesso”[V]. Del resto, è possibile identificare nel nostro immaginario della pandemia un potere affettivo che sfugge ai calcoli del momento, siano essi mediatici o politici?
È noto come la critica di Roland Barthes alle “mitologie” contemporanee abbia contribuito al riconoscimento dei registri ideologici investiti dalle immagini. Barthes ha rifiutato il mito come un'esca che impedisce un'effettiva comprensione della prassi storica. Tuttavia, e allo stesso modo, ha respinto il pathos come richiamo estetico appartenente agli effetti dello “shock”. La sua critica, è vero, ha introdotto un legittimo sospetto nei confronti delle immagini mediatiche del dolore, dell'estorsione di sentimenti da parte delle immagini giornalistiche. mitologie, ricordiamolo, è un libro che parte da un “sentimento di insofferenza di fronte al 'naturale' con cui la stampa, [...], il buon senso mascherano continuamente una realtà che, proprio per il fatto di essere quello in cui viviamo, non cessa di essere questo perfettamente storico”[Vi]. Barthes ci offre così un modello per smantellare le manifestazioni formali dell'ideologia nell'uso strumentale del linguaggio e dell'immagine.
In questa operazione di smantellamento, il semiologo attacca il mitografo – il fotografo – dedito a una rappresentazione del dolore per effetto shock. “Davanti a [queste foto]”, stima Barthes, “siamo privati della nostra capacità di giudizio: qualcuno ha tremato per noi, ha riflettuto per noi, ha giudicato per noi, il fotografo non ci ha lasciato nulla – se non la possibilità di un consenso intellettuale [ …]”[Vii]. Nella sua prospettiva, il tragico dell'immagine incita solo a una “purga emotiva”, a differenza della costruzione epica della storia, che renderebbe possibile una “catarsi critica”.
L'espressione, riferita a Brecht, è fuorviante: una “catarsi critica” rimane nell'ordine di un'esperienza emotiva. Ora, come possiamo dare un valore politico positivo al pathos, emozione, comunemente associata alla passività? Di fronte all'orrore fotografato o filmato, ci rimane la situazione esclusiva dello spettatore comodamente di fronte all'immagine? Ricorda: “l'orrore viene dal fatto che guardiamo dall'interno della nostra libertà”, per ricordare ancora una volta le parole di Barthes.
Sarebbe quindi importante ripensare in termini politici la questione del valore patogeno di ogni immagine traumatica.
Pochi giorni fa, i funerali di João Pedro, il ragazzo morto nella sua casa durante un raid della polizia a Morro do Salgueiro a Rio de Janeiro, hanno fatto rivivere l'icona ancestrale di dolorosa mater. la pathos da pietà si è reintrodotto allo spettatore brasiliano. La madre del ragazzo, dolorante, è sorretta ai piedi della tomba del figlio sacrificato in nome di un ordine che non si avvera mai. Un'immagine simile è apparsa in Folha de Sao Paulo, in una fotografia di Amanda Perobelli, dell'agenzia Reuters, pubblicata il 23 maggio, ai funerali di Raimunda Conceição Souza, altra vittima della pandemia. “Enfatica verità del gesto nei momenti importanti della vita”, nelle parole di Baudelaire citate da Barthes. Viene da chiedersi se queste immagini abbiano la forza di postulare che la storia non sia pura trascendenza (seppur sontuosa), e che le nostre immanenze affettive abbiano qualche effetto sul cammino della verità e dei fatti.
Qual è, in fondo, il ruolo costitutivo del pathos in considerazione dell'attuale gestione del dolore? Quando la fiducia nelle parole del politico diminuisce, forse dovremmo chiedere compassione come risposta a ogni narrativa attuale che coinvolge agenti efficaci in una società paralizzata. Ciò che può sembrare paradossale, un soffio di passività. Ma sarebbe importante riflettere su questo in un momento in cui la politica cessa di designare il dominio dell'agire legittimo[Viii]. E quando assistiamo all'irruzione mediatica delle forme più tradizionali dei gesti funebri, alla sopravvivenza dei gesti tradizionali del lutto nella periferia dei gesti del lutto - Gesti cristiani, gesti di devozione popolare, “espressioni collettive di emozioni che attraversano i secoli”, come sottolinea Didi-Huberman[Ix]– , gesti ed espressioni che il cittadino colto impara ad apprezzare solo sulle pareti opportunamente sceneggiate dei propri musei.
Qualche settimana fa, il Jornal Nacional di Rede Globo ha sostituito l'icona del virus Covid-19 con i ritratti delle vittime della pandemia. Ancora una volta, l'effetto ricercato era quello di a pathos – Giorgio Agamben direbbe, l'evidenza di un'appartenenza di ciascuno al specie, l'apparenza/visibilità dell'umanità[X], nell'incapacità (o mancanza di interesse) di individuare ogni individuo. Ma bastano i ritratti degli assenti a rendere presente il dolore? Ad un certo momento, la TV commerciale è stata sensibile alla richiesta di far parlare loro delle loro singolarità. Ha quindi iniziato a trasmettere brevi vignette in cui la personalità della vittima veniva interpretata da attori professionisti. Un tentativo, forse, di aggirare l'immagine come “una semplice illustrazione ridondante del suo significato”. I termini sono quelli di Rancière, che addita la necessità di una rigenerata “politica della metonimia”, capace di ricostruire la figura della vittima come elemento di una redistribuzione del visibile per cui non ci sono, da un lato, quelle che detengono il potere della parola e, d'altra parte, quelli che guardano solo[Xi].
Del resto nella galleria televisiva delle vittime non c'è la parola da una parte e l'immagine dall'altra. C'è un dolore che lavora nel corpo, che cerca di dire, che cerca di capire e che ci costringe anche a rispondere all'interpellanza. Nella goffaggine con cui si esprimono i lamenti nel popolare, non c'è bisogno di vedere una presenza diminuita. Non lo siamo prima, come legittimi estimatori di una rappresentazione. “Siamo sempre in mezzo”, sottolinea Rancière. Il ritratto non trasmette l'immediatezza di una presenza, deve proiettarla in una storia, cioè in un certo insieme di azioni/atteggiamenti singolarizzati. Viceversa, la storia non dà il fatto (in questo caso la morte) così com'è, lo vede solo attraverso i corpi che ne parlano, soffrono con esso. Forse ha ragione il filosofo: sulle nostre tele non ci sono altro che corpi che lavorano con la loro esperienza di sventura o con quella che altri corpi gli trasmettono.
D'altra parte, è notevole osservare immagini che evitano di imprimere direttamente una catastrofe. Li comunicano con uno scorcio del volto, qualche minima indicazione dell'esaurimento di individui o città. Oppure da immagini statiche e isolate dei dolenti che lasciano da parte, nelle loro apparizioni ritmiche, le immagini “classiche” del lamento e del dolore. C'è in queste immagini la capacità, poco o nulla rappresentativa, di far vedere, su scala intima e tangibile, l'inquietante, l'orrore, persino l'intollerabile. Forse costituiscono un modo sottile di riflettere sul trauma di ciò che non può essere chiaramente espresso. Ricordiamo qui come per Walter Benjamin il rapporto tra trauma e storia sia “senza parole”. Così, a volte capita che i media propongano un'immagine di ciò che fa tacere le parole. Vi si mostrano solo vestigia, tracce di qualcosa che va avanti, trasversali a qualsiasi io, troppo grandi per qualsiasi io. - Gilles Deleuze non afferma che “l'emozione non dice 'io'” […]; che “l'emozione non è dell'ordine dell'io, ma dell'evento”[Xii]? Succede, allora, che tratti minimi dell'io portino a volte questioni di macropolitica, questioni relative al modo di organizzazione della società. Volti che uniscono la forza immaginativa di ciò che non significa niente e la “forza travolgente della testimonianza che fa a meno delle parole”, per usare i termini che Rancière rivolgeva ad alcune vittime dell'Olocausto[Xiii]. Mostrano anche come una certa contemporaneità dello sguardo (diciamo meno mediatico) lavori immaginativamente con il trauma, con la dimensione umana della catastrofe politico-sociale e/o naturale.
Svuotare le nostre immagini dai segni evidenti di un evento si presta a mettere in discussione, con la dovuta efficacia politica, i discorsi ufficiali, invariabilmente impegnati nei significati chiusi di un evento e nelle sue conseguenze equiparabili. La catastrofe di Brumadinho, per esempio. Ha mostrato un record molto particolare delle immagini documentarie di oggi: quando non sono impegnate nella transitività delle reazioni, con il consenso dei sensi, cercano di rompere con l'effetto etico della mobilitazione delle energie (dell'opinione pubblica, diciamo), cercano sospendere ogni rapporto diretto tra la produzione della forma, il suo effetto su un pubblico e lo stato generale della comunità. Contrariamente a tale logica rappresentativa, queste immagini (che, in effetti, sono rare nella stampa mainstream) possono ben dirsi paradossalmente politiche, anche se epurano l'agente politico che, invariabilmente, “ruba sempre i riflettori” dalle loro strutture.
Qualche settimana fa, Rancière ha espresso sui media la sua difficoltà a comprendere coloro che ritualmente denunciano il peso delle immagini sugli spiriti deboli. “Siamo governati dalle parole”, dice il filosofo, da una retorica che alimenta una “realtà patologica permanente” che il crescente potere dello Stato e dei detentori delle “scienze” non fa che sancire. Rancière critica anche l'ansia di rispondere alla “richiesta giornalistica di 'decifrare' la notizia in tempi brevi, di banalizzare l'imprevisto, coinvolgendolo in una catena causale che lo renda retrospettivamente prevedibile, e di fornire le formule con le quali la gestione quotidiana delle informazioni è elevata a una visione della storia del mondo.[Xiv]
Si ha infatti l'impressione di un proliferare verbale incline a comporre un presente e presenze, per così dire, omologate. Il consenso prolifera anche quando l'opinione pubblica è polarizzata, come avviene attualmente in Brasile. A maggior ragione cercare immagini che conservino una certa capacità di resistenza, per una cultura dell'immagine che non si limiti a servire di accompagnamento o di consolazione.
Rimane quindi un'ultima domanda: come introdurre nel nostro immaginario quotidiano della pandemia un desiderio e un dolore che vadano oltre ogni significato scontato? Immagini che rifiutano le prevedibili relazioni tra visibilità ed effetto di pathos prodotto da essa. O meglio, modi meno chiusi di intendere i mutamenti corporei degli individui colpiti dalla storia e as cambiamenti storici imposti da individui politicizzati. Del resto, il corso delle cose sembra cambiare solo attraverso l'azione di coloro che quotidianamente fanno vivere la nostra società, che rispondono alle sue esigenze più vitali; coloro che, di tanto in tanto, invadono i nostri schermi con i loro lutti, la loro indignazione e la loro perplessità.
Immagini di pathos non sono necessariamente scollegati dalla storia e dalla prassi politica. I tempi moderni, quando la storia ha cominciato a essere registrata su carta fotografica e nastro di celluloide, sono pieni di cambiamenti nel corpo individuale e collettivo, dal lutto alla rabbia, dalla rabbia ai discorsi politici e alle grida di rivolta. In questo senso l'espressione “politica patetica”, usata da Didi-Huberman a proposito del lavoro emotivamente impegnato di Pier Paolo Pasolini e Glauber Rocha[Xv], assume una connotazione meno banale di quella che molti brasiliani usano comunemente nella loro scena politica quotidiana.
* Osvaldo Fontes Filho è docente presso il Dipartimento di Storia dell'Arte dell'UNIFESP.
Riferimenti:
[I]Ranciere, Jacques. Lavora sull'immagine. Trans. Claudia Sachs. Urdimento Magazine, nº 15, ottobre 2010, p. 94.
[Ii] Didi-Hubermann, Georges. Cosa vediamo, cosa ci vede. Trans. Paolo Nevis. San Paolo: Ed. 34, 1998, pag.33.
[Iii]Em Quando le immagini prendono posizione. Trans. Cleonice Mourao. Belo Horizonte: Editora UFMG, 2017, p.16.
[Iv] Ibidem, pag. 230.
[V] Barthes, Rolando. mitologie. Trans. Rita Buongermino, Pedro de Souza e Rejane Janowitzer.Rio de Janeiro: DIFEL, 2009, p.11.
Idem, ibidem, p.109.
[Vi] Idem, ibidem, p.11.
[Vii] Idem, ibidem, p.107.
[Viii]Acselrad, Henri. Il linguaggio dell'antipolitica. la terra è rotonda , 30/05/2020.
[Ix]Didi-Hubermann, Georges. Quell'emozione! Quale emozione?Parigi: Edizioni Bayard, 2013, p. 43.
[X]Agamben, Giorgio. profanazioni. Trans. Selvino Assmann. San Paolo: Boitempo, 2007, p. 52.
[Xi]Ranciere, Jacques. lo spettatore emancipato. Trans. Ivone C. Benedetti. San Paolo: Martins Fontes, 2014, p. 94.
[Xii] Citato da Didi-Huberman, Georges. Quell'emozione! Quale emozione? ed. cit. , P. 36.
[Xiii]Ranciere, Jacques. Lavora sull'immagine. Trans. Claudia Sachs. Urdimento Magazine, nº 15, ottobre 2010, p.95.
[Xiv] In francese e in italiano, sul sito web https://www.institutfrancais.it/italie/2-jacques-ranciere-andrea-inzerillo.
[Xv]Didi-Huberman, Pathos et Praxis: Eisenstein contro Barthes. 1895 Revue d'histoire du cinema, n. 67, 2012, pag.20.