Perché ci sentiamo così soli?

Immagine: Helena Kováčova
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da PEDRO HENRIQUE M. ANICETO*

Gli individui implorano l'attenzione degli altri, sperando che l'Altro attesti attraverso Mi piace, opinioni e commenti che la loro vita è davvero degna di essere vissuta.

Con la rivoluzione tecnico-scientifica-informatica e, di conseguenza, il significativo avanzamento dei mass media, si è affermata una nuova realtà nel mondo del XXI secolo. Mai prima d'ora, nella storia umana, è stato possibile connettersi e scambiare esperienze e informazioni con il numero di persone a cui abbiamo accesso attraverso i social network.

La nuova forma di capitalismo in cui noi esseri umani diventiamo prodotti da commercializzare e consumare, crea un pericoloso precedente in cui, da un lato, consente la diffusione di milioni e milioni di informazioni e contenuti importanti per il mantenimento della vita umana vita e, dall'altra, diventa strumento dantesco responsabile di un processo di disumanizzazione dell'essere, che cessa di essere soggetto nella propria vita e diventa oggetto da consumare, responsabile della propria servitù, padrone della la propria futilità.

Il bisogno potente ed erotizzato di essere connessi e creare “contenuto” per l'esperienza degli altri mostra una diagnosi dura e complessa della società contemporanea, il vuoto strutturale della coscienza moderna. Con ciò è evidente il pensiero di Jacques Lacan, psicoanalista francese il cui lavoro si basa, in parte, sulla domanda “Perché ci sentiamo così soli?”.

Per Jacques Lacan, durante una fase dello sviluppo del bambino, chiamata "fase dello specchio", l'individuo si rende conto di essere un'entità separata dall'ambiente ed è questa distanza simbolica che genera il vuoto interiore che ci rende così soli, rendendolo "necessario" per riempirlo. Questa è, per l'autore, la nascita dell'ego. A questo punto, si può prendere questa concezione lacaniana come base per giustificare, in parte, perché la vita digitale, proiettata e messa in scena, sia così apprezzata nella contemporaneità.

Questo perché permette all'individuo di cercare di ridurre, almeno un po', la distanza tra lui e il mondo, permettendogli di sentirsi diluito e appartenente a un tutto, quello che Sigmund Freud chiama il “sentimento oceanico”. Così, in una sorta di “servitù volontaria”, utilizzando un concetto di Étienne de la Boétie, gli individui mendicano l'attenzione degli altri, aspettando che l'Altro attesti attraverso piace, visualizzazioni e commenti, che la tua vita vale davvero la pena di essere vissuta.

In questo senso, gli individui rinunciano alla libertà e alla privacy a favore del sentimento di appartenenza a un gruppo che, per essenza, cerca anche di consolidarsi come qualcuno la cui vita esposta – non necessariamente vera – dovrebbe essere desiderata dalla massa. È in questo scenario, segnato da un circolo vizioso, che scintilla la concezione malsana della felicità contemporanea, in cui è necessario, in ogni momento, esaltare una vita felice e inesistente affinché gli altri convalidino questo sentimento come vero. In modo che, nel nucleo dell'essere, si possa avvertire una momentanea illusione di integrazione con il mondo che viene presto sostituita da un sentimento di solitudine, che rimette in moto la ruota, provocando nuove interazioni vuote e superficiali che non la riempiono. il ciclo si ripete.

È, quindi, su questo paradosso della solitudine tra tanti che si basa la società del XXI secolo, con una cancellazione dell'essere come soggetto padrone di sé e, al suo posto, consolidando, giorno dopo giorno, sempre di più zombie urlanti che sono persone felici, in attesa che il resto del mondo si ripeta e si attesti per poter credere, almeno per un attimo, a quella fantasia che è l'attuale concezione della felicità.

*Pedro Henrique M. Aniceto studia economia all'Università Federale di Juiz de Fora (UFJF).


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