Perché così tanto qui?

Immagine: Lara Mantoanelli
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da FERNANDO BONADIA DE OLIVEIRA*

Commenti da un articolo di Valerio Arcary.

Valerio Arcary pubblicato sul sito la terra è rotonda un articolo - "Perché non qui?" – in cui chiede: perché non ci sono mobilitazioni di massa in Brasile, a differenza di quanto sta accadendo in Colombia, un Paese che, soffrendo le stesse difficoltà del Brasile, è uscito senza paura per le proteste di piazza? "Perché non qui?".

Subito, lascio da parte le nostre decine di ribellioni coloniali (dal 1500 al 1822), e salto al passato più vicino: 1979, il popolo scende in piazza, spinto dallo sciopero dei lavoratori dell'ABCD; 1984, il popolo scende in piazza nella lotta per le elezioni dirette; 1992, il popolo scende in piazza per “Fora Collor”; 2013, la gente scende in piazza contro l'aumento delle tariffe dei mezzi pubblici; 2019, il popolo, mobilitato dagli studenti, scende nelle strade del Paese producendo lo “tsunami dell'educazione”. Chiedo, allora, perché così tanto qui? Il Brasile è già esploso come la Colombia; è esplosa, inoltre, come Cile, Bolivia, Paraguay ed Ecuador. Ma perché siamo qui a chiedere sempre “alla gente per strada”?

Come assicura Arcary, non ci sono dubbi: l'attuale apatia è dovuta alle “peculiarità della situazione reazionaria che stiamo soffrendo in Brasile e alle sue tendenze evolutive”. L'autore, con la sua già nota franchezza, fa notare che non mancano i motivi perché il popolo brasiliano si impadronisca delle città, e indica anche le ragioni che rendono il governo Bolsonaro, in quel momento, un po' più debole di prima Marzo di quest'anno. . Ha infatti ragione Arcary quando afferma che c'è sempre "un ritardo tra il decadimento delle condizioni oggettive che esigono il rovesciamento del governo, e il risveglio nella coscienza delle classi popolari". Tra le ipotesi elencate dall'autore per spiegare il vuoto delle strade, la prima è la situazione estrema in cui si trova la classe operaia, unico strato sociale effettivamente disposto a battersi per l'impeachment del presidente. Altra possibilità è la condizione di pandemia che fa temere, nella sinistra più organizzata, l'aumento della diffusione del coronavirus. Arcary considera anche altre ragionevoli giustificazioni per il silenzio anche dei vasi alle finestre: la confusione generata dall'accumularsi di sconfitte politiche dal 2016, l'idea che solo le elezioni, nel 2022, costituiranno lo scenario ideale per sconfiggere il bolsonarismo e, infine, , la mancata richiesta di atti da parte dei soggetti sociali istituzionalizzati.

Da parte mia, non posso che concordare con l'analisi generale del professore e con il suo modo ponderato di ordinare fatti, possibilità e circostanze, in modo da spiegare l'inerzia della nostra inveterata solitudine. Tuttavia, tutto quello che mi viene in mente sono i motivi per cui i brasiliani non dovrebbero scendere in piazza, anche se sappiamo che prima o poi finiranno per andarci. Il primo motivo, di natura politica, non è fare esattamente quello che vuole il governo, ovvero creare un'occasione di caos per mettere in piazza le truppe e arrestare i manifestanti di massa (come è già stato fatto, da Rafael Braga a Rodrigo Pilha ). La seconda ragione è strategica: con il recente aumento del rilascio di armi e con la massiccia adesione dell'apparato poliziesco-militare al Presidente della Repubblica, sarà necessario scendere in piazza con una buona tecnica operativa. Tuttavia, gli unici che hanno già dimostrato la loro capacità di aggirare l'apparato repressivo dello Stato sono stati discriminati da settori della sinistra istituzionale, e in seguito, presi per radicali, hanno continuato a essere malvisti dalla società. La terza ragione, usata anche da Arcary, è sanitaria e, per questo, scendere in piazza può essere anche una forma di antipropaganda della sinistra. Vale la pena ricordare che chi pensa che sia possibile occupare le strade mantenendo i protocolli sanitari non sa (o dimentica) che il primo segno di successo per un atto brasiliano è l'esplosione delle bombe repressive; quindi, la corsa e l'agglomerato diventano inevitabili. A chi crede che gli atti si possano fare a distanza, in realtà restano solo due spiegazioni: o non assistono agli atti o, quando assistono e scoppiano le prime bombe, sono già a casa.

Riflettendo un po' di più, ricordiamo che, oltre ai motivi per cui i brasiliani non vanno (o non dovrebbero) scendere in strada, le persone sono già in strada per lavorare, e il resto della popolazione – che lavora a casa – può smettere di lavorare. Lo sciopero è sempre un'arma calda... Bisogna anche sottolineare che la gente è nelle strade, e ben mobilitata. Nei giorni scorsi il Movimento dei Lavoratori Senza Dimora (MTST) ha compiuto atti esplosivi chiedendo aiuti urgenti di 600 reais, vaccinazioni di massa e “Fora Bolsonaro”. Dove sono le avanguardie che non si uniscono a loro? Le avanguardie, è vero, non contano nulla, perché sono appunto avanguardie; ma forse è giunto il momento che alcune avanguardie imparino dal popolo. Non dimentichiamo che, già negli anni 2013 e 2014, l'MTST ha messo 32mila persone per le strade della città di San Paolo contro il Master Plan poi imposto sotto la gola dei cittadini.

La gente, che nella sua parte più radicale è già in piazza, prima o poi scenderà completamente in piazza, non ne dubitiamo. Come sostiene lo stesso Arcary, bisogna avere pazienza, dopotutto i movimenti politici non sorgono quando una certa parte della società, consapevole delle iniquità, si infuria e batte i piedi. La temporalità propria di ogni processo storico è necessaria. Ma, prima, possiamo considerare alcune cose che, poiché accadono così spesso, possono accadere di nuovo. Non stupirà se i primi a scendere in piazza saranno i giovani (come nel 2013 nelle giornate di giugno o nel 2015 e 2016 nell'occupazione delle scuole); non stupirà nessuno se, tra i giovani, il primo gruppo ad essere represso con veemenza risulta essere il più radicale, cioè la parte che difende l'autogestione dei movimenti sociali, le decisioni orizzontali e le azioni collettive dirette; non sarà una novità, tuttavia, se dopo aver mobilitato le masse, i settori più radicali vengano solennemente ignorati dalle cosiddette avanguardie partitiche progressiste che consentono, subito dopo, la restaurazione conservatrice. Non è esattamente quello che è successo nel 2013? Nel 2013 si è risvegliata una rivolta originariamente vigorosa e organizzata, in cui si diceva che i più radicali fossero rivoltosi e vandali. Sono stati debitamente puniti, mentre i media di destra e i settori economici si sono rifiutati di pagarne il prezzo, creando una nuova ondata di proteste con agende vaghe e perverse.

Impossibile non pensare come l'educatore brasiliano Maurício Tragtenberg: “Ogni volta che i radicali vengono repressi in un processo rivoluzionario, si apre la strada alla restaurazione conservatrice. Nella Rivoluzione francese, Robespierre soppresse il Enragés, che rappresentava gli strati artigianali più popolari e voleva portare avanti la rivoluzione. Così facendo, Robespierre crea le condizioni per cadere alla ghigliottina, a Termidoro. … Vediamo che queste cose si ripetono in cicli. È ora di smetterla. Se la sinistra vuole davvero essere di sinistra, se vuole davvero il cambiamento sociale, non può cadere in quella cosa gelatinosa del feticismo di partito, della rappresentanza parlamentare per la rappresentanza parlamentare. La storia ha già dimostrato che queste cose portano al fallimento delle migliori speranze socialiste”.,.

Se invece di chiedere, come ha fatto Arcary, "perché non qui?" Chiedo “perché così tanto qui?”, resta da vedere, insomma, perché così tante persone continuano a chiedere alla gente per strada. Ognuno di noi tragga le necessarie conclusioni. Fateci sapere però una cosa: chi chiama i mobilitati scenderà in piazza solo dopo che le piazze saranno già prese.

*Fernando Bonadia de Oliveira Professore di Filosofia dell'Educazione presso l'Università Federale Rurale di Rio de Janeiro (UFRJ).

Nota

[1] Mauricio Tragtenberg. “Rosa Luxemburgo e la critica dei fenomeni burocratici”. Revista Espaço Academico, nº14, luglio 2002.

 

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