da PAOLO SILVEIRA*
Nel 1978, Nicos Poulantzas pubblicò quello che sarebbe diventato il suo ultimo libro (L'État, le pouvoir, le socialisme)
“Una cosa è certa: il socialismo sarà democratico oppure non lo sarà”.
Nicos Poulantzas, 1978.
1978. La data di pubblicazione di questo testo – “Lo Stato, il potere, il socialismo” – attira l’attenzione. Nello stesso anno Althusser e Balibar si ribellarono alla leadership del PCF. Hanno rivolto una doppia critica al Comitato Centrale del Partito. Il primo è la rimozione dell'espressione “dittatura del proletariato” dal preambolo dello statuto del Partito (per entrambi concetto chiave della teoria marxista); la seconda perché si trattò di una delibera i cui dibattiti rimasero segreti. E Althusser completa sottolineando: segreto della direzione. Dittatura del proletariato nella teoria (Althusser e Balibar) e nella deliberazione, senza dibattito, del Comitato Centrale del PCF. E, soprattutto, la dittatura del proletariato in pieno vigore in quel momento storico nelle condizioni del cosiddetto “socialismo reale”, soprattutto, ovviamente, in URSS.
In quello stesso anno, il 1978, Nicos Poulantzas pubblicò quello che sarebbe diventato il suo ultimo libro (L'État, le pouvoir, le socialisme). Chissà il suo testamento teorico-politico (si suiciderà l'anno successivo a 43 anni)? In un brevissimo “monito” sottolinea l'urgenza del testo e il suo carattere personale: “Mi assumo la responsabilità di ciò che scrivo e dico a mio nome”. Un'esposizione personale, urgente e necessaria, come ci dice, al di là dei canoni del marxismo ortodosso o cosiddetto autentico. Poulantzas scrive in francese; forse in greco, sua lingua madre, potrebbe dirci che sta abbandonando il conforto dogmatico per incendiarsi l'anima.
Nell'ultimo capitolo di questo libro (di nuovo “l'ultimo”) “Verso un socialismo democratico”, Poulantzas sembra volerci sorprendere assumendo una posizione molto più ideologico-politica che teorica e assolutamente esaustiva sullo svolgersi della storia: “uno cosa è certa, il socialismo sarà democratico o non lo sarà. Per eliminare ogni ambiguità, intendiamola così: se il socialismo verrà riproposto nella storia, sarà certamente attraverso la via democratica. È chiaro, allora, che il peso di questa certezza pende molto più sul “democratico” che sul “socialismo”. O per dirla in altro modo: non avremo più nella storia il ripetersi delle rivoluzioni bolsceviche, cinesi o cubane, insomma quelle che portarono alla “dittatura del proletariato”.
Poulantzas rivela così una divergenza fondamentale con le posizioni ideologiche, politiche e teoriche di Althusser e Balibar.
Fino ad allora, questo greco residente a Parigi dai primi anni Sessanta aveva condotto un'indagine in una direzione teorica molto vicina a quella di Althusser e dei suoi ex studenti. Aveva svolto un ruolo riconosciuto nei progressi teorici nel campo del marxismo, in particolare per quanto riguarda le questioni dello Stato, del potere, delle classi sociali e dell'ideologia. In queste indagini ha privilegiato temi legati alle diverse forme di dittatura: il fascismo in Germania e l'Italia in Fascismo e dittatura e le dittature in Portogallo, Grecia e Spagna in La crisi delle dittature. Una prospettiva concentrata allora sullo studio critico di queste dittature; e forse, già in quei testi, cercava di annunciare la sua “ultima” critica, quella che doveva ancora venire: il suo veemente rifiuto della dittatura del proletariato, alla quale riserva un eloquente “No”.
E la fine di questo “no” assume una forma assolutamente radicale: “è meglio correre quel rischio [di scegliere una via democratica al socialismo] piuttosto che massacrare gli altri così che, in fondo, finiamo noi stessi sotto i ferri di un Comitato di sanità pubblica o di qualche dittatore del proletariato”.
E conclude il libro con un'ultima cucitura (ultimo paragrafo dell'ultimo capitolo dell'ultimo libro): “i rischi del socialismo democratico possono certamente essere evitati in un solo modo: mantenere la calma e camminare in fila sotto gli auspici e l'autorità di democrazia avanzata liberale; Ma questa è un'altra storia…”.
I tuoi critici[I]non se lo lascerebbero sfuggire: metterebbero in evidenza, oltre a un finale malinconico, una svolta a destra, soprattutto per coloro che difendono la “dittatura del proletariato”.
Ma questo finale può essere inteso in un altro modo: come una ridefinizione del campo e della strategia della lotta di classe. La democrazia liberale divenne il palcoscenico per questa lotta da combattere all’interno della società borghese.
Il “No”, quasi gridato da Poulantzas, si giustifica su due livelli: teórico e ideologici (se, a rigore, possono essere separati).
Dal punto di vista teorico, il nostro autore è eccessivamente parsimonioso, ci offre un solo argomento, che, ovviamente, dovrebbe essere decisivo: la teoria/strategia del doppio potere. Ma chiunque stia mettendo in gioco la propria anima, avrebbe bisogno di qualcosa di più?
Eredità leninista: “Lo Stato deve essere distrutto in blocco con una lotta frontale, con movimento o accerchiamento, ma fuori dallo Stato-fortezza, mirando a creare una situazione di doppio potere… con una strategia d'assalto tipo 'D-Day'”.
Stato borghese x Stato proletario. Democrazia rappresentativa = democrazia borghese = dittatura borghese. Stato proletario = dittatura del proletariato. Alcune impronte lasciate da questo doppio potere.
L'esterno dello “Stato Fortezza” è la chiave del concetto di doppio potere. Un esterno che, in quanto tale, nega il fatto che la società borghese sia attraversata da contraddizioni e, quindi, da lotte di classe (questo è il nucleo teorico dell'argomentazione di Poulantzas). Un esterno che implica una concezione del mondo (un'ideologia), allo stesso tempo, presente ed estranea alla società borghese, come se fosse un'enclave in attesa dell'idealizzato “D-Day”. Tanto più ideologico perché nega la lotta di classe che attraversa la società capitalista, cioè il suo interno.
In questa critica della situazione del "doppio potere", Poulantzas spera di tenersi alla larga non solo dal "socialismo reale" e, di conseguenza, dalla dittatura del proletariato, ma, allo stesso tempo, da quello che chiama lo statalismo delle democrazia. C'è, dice Poulantzas: “una stretta connivenza tra lo statalismo stalinista e lo statalismo della socialdemocrazia tradizionale (…) anche per quest'ultima il rapporto delle masse popolari con lo Stato è un rapporto di esteriorità”. [Ii]
Strategia del “doppio potere”; certamente un buon argomento, ma che lascia spazio per essere sottoposto a un vaglio critico. Forse nella direzione suggerita, molto tempo prima, da Gramsci: “Mi sembra che Ilyich (Lenin, ovviamente) abbia capito che era necessario un passaggio dalla guerra di movimento, applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917, alla guerra di posizione , l'unico possibile in Occidente.
Poulantzas, quasi intuendo la possibilità di una contestazione in questa direzione segnalata da Gramsci – ormai sicuramente il suo ultimo intervento (intervista rilasciata a Marco Diani e pubblicata sul settimanale Rinascita del Partito Comunista Italiano, nove giorni dopo la sua morte) – allora imposta il suo propria difesa: “(…) anche se non è più una guerra di movimento, lo Stato resta da conquistare (…) il problema dell’assedio, della guerra di posizione poggia sempre su un doppio potere”.
Da un punto di vista ideologico, quel “no” pronunciato da Poulantzas si preserva da ogni obiezione. A meno che, ovviamente, non lo rifiutiamo completamente, in questo caso, sulla base di un'altra ideologia, un'altra "affiliazione" ideologica.
“Non abbiamo più una fede millenaria in alcune leggi sull’ottone”, afferma Poulantzas.
Rifiutare questa “fede millenarista” rappresenta un passaggio fondamentale, una disaffiliazione che allontana la storia dai binari che la porterebbero, ad esempio, verso la stazione Finlandia di San Pietroburgo, dove Lenin sbarcò nell’aprile 1917. Ora il flusso della storia è svuotato delle certezze implicite da una teleo(teo)logia, cioè da un finalismo inscritto di risorse teologiche. “Fede millenarista” che, come un'adesione involontaria alla religione, si nutre della propria ideologia, con i suoi iniziati nella lettera e nello spirito dei dogmi e dei misteri che costituiscono il suo Libro, certamente sacro.
In questa non “fede millenaristica”, Poulantzas sembra voler tagliare ogni legame di appartenenza con il contributo di Marx, con quello degli autori marxisti e con le Internazionali, compresa la II, più vicine alla socialdemocrazia.
Ma non è proprio così. Dirige la sua critica ad un ambito più ristretto: Lenin, la Rivoluzione d'Ottobre, la Terza Internazionale, il movimento comunista e, con l'obiettivo centrato soprattutto sullo stalinismo e sulla dittatura del proletariato.
E, per non abbandonare del tutto le sue precedenti posizioni teorico-politiche, produce una propria genealogia.
Marx: “per Marx la dittatura del proletariato era una nozione strategica allo stato pratico, che funzionava, tutt’al più, come un pannello indicatore”; Rosa Luxemburg: “la prima critica giusta e fondamentale alla rivoluzione bolscevica e a Lenin fu quella di Rosa Luxemburg”; e, con qualche riserva, Gramsci: “siamo consapevoli delle distanze da lui assunte rispetto all'esperienza stalinista”. (e, nella sua ultima intervista, Gramsci viene escluso anche dal suo ascendente teorico-politico: “[Gramsci] ragiona sempre all’interno di una concezione fondamentalmente leninista”).
Marx-Rosa-Gramsci (?): la cosa più importante in questa autoproclamata affiliazione non è la sua correttezza teorica, ma, molto di più, è intenderla come una dichiarazione di intenti – rimanere allineati con una corrente teorica, politico e ideologico possibile nel campo del marxismo. (Nella sua ultima intervista, Poulantzas ribadisce indirettamente il suo apprezzamento per il contributo di Marx: «Innanzitutto, vorrei intervenire vividamente in una polemica dominata dall'antimarxismo isterico dei nuovi filosofi [corrente emersa in Francia intorno alla metà del 70, André Glucksmann, Bernard-Henry Lévy e altri], in cui il marxismo è identificato con il Gulag”).
Il no è la storia. Poulantzas riconosce che “finora la storia non ci ha fornito alcuna esperienza vittoriosa di un cammino democratico verso il socialismo…”. Certamente. A maggior ragione se non dimentichiamo che scrive nel 1978. Bisognerebbe aspettare ancora 11 anni perché avvenga la caduta del muro di Berlino e perché la curva della storia, materialmente e ideologicamente, compia il primo irrevocabile movimento di inflessione di un no alla dittatura del proletariato.
Riguardo allo status del no: “Se consideriamo il 'No' come un gesto negativo primordiale, il processo di disgregazione del socialismo orientale ha prodotto un vero atto nella forma del movimento entusiasta delle masse che hanno detto 'no' al regime comunista , in nome della solidarietà autentica; questo gesto negativo è stato più importante della sua successiva frustrata positivizzazione”. (Zizek, S.: soggetto spinoso, p.174, Paidós, Buenos Aires, Barcellona, Messico, 2001)
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Balibar (in due battute, in due movimenti) e Poulantzas
Ricordo che, nel 1978, Balibar si confrontò con la direzione centrale del PCF, prendendo posizione per la permanenza, nel preambolo dello statuto del partito, del "concetto" di dittatura del proletariato che aveva già difeso due anni prima nel suo Sulla dittatura del proletariato. Molti anni dopo, in un colloquio proprio in onore del 20° anniversario della morte di Poulantzas, fa nuovamente riferimento alla “dittatura del proletariato”, riproponendo, con uno spostamento di parole, una timida e quasi inavvertita autocritica: “la dittatura su il proletariato”. In un diverso contesto politico, Balibar ha saputo riconoscere la differenza tra “del proletariato” e “sul proletariato”: togliendo così la maschera della dittatura.
Nel 1981, appena due anni dopo la morte di Poulantzas, Christine Buci-Glucksmann gli organizzò un omaggio che quasi ripeteva il titolo del suo ultimo libro (il Stato, potere, socialismo): sinistra, potere, socialismo: omaggio a Nicos Poulantzas.
Balibar non partecipò direttamente a questo incontro tenutosi a Saint-Denis (Parigi VIII), ma scrisse un articolo per il libro organizzato da Buci-Glucksmann che fu pubblicato nel 1983. In questo articolo (“Après l'autre Mai”), più concentrato sulla congiuntura Nella politica francese, Balibar fa riferimento a Nicos Poulantzas tre volte – così, formalmente, con nome e cognome – senza aggiungere nulla che meriti attenzione in nessuno di essi. Come se il semplice fatto di questa nomina (formale) fosse il limite di ciò che il premiato meritava!
Anni dopo, nel 1999, ora ad Atene, terra di Poulantzas, e in un Istituto a lui intitolato, creato due anni prima, si tenne un tributo nel 20° anniversario della sua morte. E c'era Balibar ad Atene. E ha sparso, senza cerimonie e in abbondanza, riferimenti a Nicos: Nicos qui, Nicos là (ora senza alcuna formalità); come se l'amicizia e l'intimità tra i due si fossero rafforzate in questi vent'anni di assenza di Poulantzas.
Ma… questa intimità (sarebbe meglio dire “vicinanza”) con Poulantzas è iniziata molto prima di questo incontro di Atene. Esattamente dieci anni (27/11/1989) prima; pochi giorni dopo la caduta del muro di Berlino. E a quel punto erano passati anche dieci anni dalla morte di Poulantzas.
In questo momento Balibar evoca un “significante”, o come lui stesso dice, in un altro contesto, una “parola-maestra”, che favorisce un'approssimazione con “Nicos”: il suo nome “L'égaliberté” (per questo valore di significante, di “parola maestra”, e affinché questa forza non venga perduta, smetterò di tradurre questo riferimento all’uguaglianza e alla libertà). Una scelta teorica che sembra non avere ritorno e che non si discosta molto dal percorso che potrebbe puntare verso il “socialismo democratico” proposto da Poulantzas nel 1978. “L'égaliberté”: una giustapposizione che, come significante, assumerà d'ora in poi un luogo teorico fondamentale nelle riflessioni di Balibar. Forse l'inizio di un abbraccio di riconoscimento per “Nicos” che si sarebbe concluso solo dieci anni dopo ad Atene, vent'anni dopo la morte dell'“amico” greco.
E per chiudere questo abbraccio, ora ad Atene, Balibar, almeno due volte, spinge un po' oltre questa identificazione teorico-politica con Poulantzas.
Il primo e decisivo è il riconoscimento esplicito che la concezione di Poulantzas (verso il socialismo democratico, allo stesso tempo, antagonista alla dittatura del proletariato) pone, dice Balibar, una “fine al mito dell'“esteriorità” delle forze rivoluzionarie ( partiti o movimenti) in relazione al funzionamento dello Stato nel capitalismo avanzato (...) l'idea di un comunismo dell'esteriorità ha perso ogni riferimento nel reale (ma non nell'immaginario, perché [continua Balibar] i fantasmi hanno lunga vita)”.
La realtà dell'esteriorità delle “forze rivoluzionarie”, la cosiddetta strategia del “doppio potere” che sta alla base della “dittatura del proletariato”, vent'anni dopo, si trasforma in un mito. Ancora una volta Balibar, sensibile alle congiunture teorico-politiche, unisce le mani nella pagaia. La “dittatura del proletariato” che, per lui, si era già trasformata in “dittatura sul proletariato”, in questo nuovo passo si avvicina alle posizioni difese da Poulantzas. E, qui ad Atene, patria del premiato, nel rinsaldare questa amicizia postuma, Balibar trasforma il tanto freddo quanto distante “Nicos Poulantzas” del 1983 nel suo amico “Nicos”.
Ma l'identificazione di Balibar con Poulantzas aveva ancora spazio per andare oltre, molto oltre. Un'identificazione che Balibar considera come il “comunismo” di Nicos per il quale “l'idea di politica comunista è filosoficamente un'idea etica”. Un’etica che è alla base dell’incontro tra l’“égaliberté” di Balibar e il “socialismo democratico” di Poulantzas. Le braccia dell'abbraccio consacrate dall'etica.
“I comunisti – continua Balibar – praticamente 'rappresentano' la pluralità, la molteplicità degli interessi di emancipazione che sono irriducibili gli uni agli altri per la loro natura radicale” (Balibar mutuando la parola da Nicos).
In prima linea ci sono gli interessi dell'emancipazione radicale. I percorsi: molteplici, plurali. Molteplicità che non era contemplata dal comunismo (al singolare) dell'esteriorità, della strategia del “doppio potere”, della via unica. L'universale astratto è condannato a calpestare il suolo della storia, o forse nemmeno così lontano se lo consideriamo come il “fantasma” a cui allude Balibar. La sua funzione ora sembra essere quella di spaventare gli incauti. Come non scorgere qui una parentela, anche se non così stretta, con il feticismo: uno scorcio della fantasmagoria della storia. Feticismo delle merci, feticismo delle idee, o forse semplicemente, in queste fantasmagorie, idee che prendono il posto delle merci.
Balibar conclude il suo omaggio a Nicos con una filippica elegante e commovente: “Oggi Poulantzas e altri che non ci sono più. Ma i cittadini comunisti, i cittadini comunisti oi cittadini comunisti sono sempre qui. 'Invisibili', perché non hanno armi, né campo, né partito, né Chiesa. È il loro modo di esistere".
Balibar getta qui un cuneo che produce una riparazione alla proposta di Poulantzas di un “socialismo democratico”: il rilevante posto teorico-politico che attribuisce alla cittadinanza. Poco prima, in questo stesso testo di omaggio a Poulantzas, avevo già notato l’assenza della nozione di cittadinanza negli argomenti in difesa del “socialismo democratico”. Balibar non vuole confondere la sua idea di cittadinanza con alcuna proposta astratta. Al contrario, cerca di collegarlo dialetticamente, contraddittoriamente, all’égaliberté. Crepe e aperture della cittadinanza comunista: “invisibili” sì, ma non fantasmi. “Comunisti della cittadinanza”, “comunisti dell’égaliberté”.
Una politica comunista come idea etica. Comunisti di emancipazione radicale. Comunisti di cittadinanza ed égaliberté. Le proposte di Balibar.
Portare queste diverse forme di comunismo all'Istituto Nicos Poulantzas, ad Atene, all'inizio del XX secolo, ha almeno due aspetti che si intrecciano contraddittoriamente. La prima è produrre una qualche identificazione con l'Istituto che lo ha invitato, qualcosa di soggettivo. La seconda, con ben più peso politico, è quella di rompere il monopolio dell'espressione “comunista” (e derivati) finora esclusiva dei partiti con quel nome. Balibar, politicamente e soggettivamente, si trova a suo agio nell'affrontare questa rottura del monopolio: si iscrisse al Partito Comunista Francese nel 1961 e vent'anni dopo ne fu espulso per aver criticato le azioni razziste del partito.
Retroattivamente, è impossibile sapere se Poulantzas accetterebbe di essere classificato come “comunista di cittadinanza” o “comunista di radicale emancipazione”. Quello che sembra più certo è che già nel 1978/79 avrebbe partecipato volentieri al dibattito sulla proposta di Balibar.
Sarei certamente d’accordo con l’idea che la politica comunista sia un’etica. Nel 1968, quando la cosiddetta “Primavera di Praga” fu repressa dai carri armati sovietici, si aprì una spaccatura nel Partito comunista greco. Il partito dell'interno - contrario a quell'intervento - al quale ha aderito Poulantzas e che è un embrione dell'attuale Syriza e del cosiddetto partito dell'estero, a causa della sua stretta dipendenza dal PC dell'URSS[Iii] (ora l'esteriorità del “potere duale” appare in modo diverso).
Nel suo ultimo testo, Poulantzas dichiara ancora la sua affiliazione a Marx. Balibar non va così lontano, ma fa un addio raffinato.[Iv]
La sinistra, per identificarsi come tale, richiede un impegno minimo nel lavoro di Marx: estrarre daLa capitale la consapevolezza secondo cui la società capitalista è una società di classe che funziona per sfruttamento e che il feticismo delle merci è la sua forma (oggettiva) di dominio ideologico (soggettivo). Potrebbe essere che i fondamenti dell'etica siano ancorati in questo impegno?
Althusser e Poulantzas (entra in scena la soggettività o forse un po’ di “fraternità” per apparire come supplemento all’“égaliberté” di Balibar).
Il 1978 fu l'anno in cui Althusser e Poulantzas difesero posizioni teorico-politiche del tutto antitetiche. Althusser, contro la direzione centrale del PCF, proponeva di salvare ad ogni costo la “dittatura del proletariato”.[V]. Poulantzas, al polo opposto, voleva evitare di essere massacrato da qualsiasi “dittatore del proletariato” e puntava molto sulla sua previsione della storia: “il socialismo sarà democratico o non sarà” (e questo 10 anni prima della caduta del Parete).
Riporto qui la testimonianza dello stesso Althusser per raccontarci il suo rapporto con Poulantzas:
“La follia, l’ospedale psichiatrico, il ricovero possono terrorizzare certi uomini o donne, che sono capaci di pensare o di sopportare l’idea senza grandi angosce interiori, che possono arrivare a trattenerli sia dal visitare il loro amico, sia anche dall’intervenire qualsiasi questione. Una cosa singolare: erano generalmente i più intimi, ma non sempre, e, tra quelli intimi, alcuni si allontanavano visibilmente [Althusser durante uno dei suoi ricoveri]. A questo proposito, non posso fare a meno di evocare l'eroismo del nostro caro Nicos Poulantzas, che aveva un orrore assoluto per qualsiasi ospedale psichiatrico, eppure veniva sempre a trovarmi regolarmente durante i miei ricoveri, ed era sempre felice con me quando in realtà doveva essersi dimenato per l'angoscia, ma non me ne sono accorto fino a molto tardi. E ricordo anche che fu praticamente l'unico che accettai di vedere, l'anno prima della morte di Hélène [quest'anno precedente è il 1979, l'anno della morte di Poulantzas]. Allora non sapevo che una volta aveva tentato il suicidio, caso che valeva come un semplice incidente, durante la notte, su un ampio viale un camion lo aveva trascinato... in realtà si era gettato sotto le ruote , mi diceva il suo compagno. Ora, ho visto Nicos, non a casa mia, ma per strada vicino alla Scuola, e ho poi saputo che soffriva già di una terribile crisi di persecuzione alla quale avrebbe posto fine con un suicidio spettacolare.[Vi]. Beh, Nicos era felice davanti a me, non mi ha detto una parola sulla sua sofferenza o sul suo primo tentativo, che ha camuffato da incidente, mi ha raccontato dei suoi progetti di lavoro e di ricerca, mi ha interrogato sui miei e mi salutò, baciandomi calorosamente, come se dovesse rivedermi il giorno dopo. Quando poi ho saputo cosa aveva in mente, non ho potuto contenere la mia ammirazione per quello che, in lui, non era solo un eccezionale gesto di amicizia, ma vero eroismo”.[Vii]
Abbraccio di Balibar a Poulantzas; caloroso bacio d'addio di Poulantzas ad Althusser. Un'identificazione teorico-politica e un'altra che viene a suggellare qualcosa di personale, più soggettivo, anzi intersoggettivo: una coppa di fraternità.
Althusser sembra volerci dire che certi legami intersoggettivi riescono a perforare diversi strati ideologici. Come se cercassero (pazzamente) uno sfondo: “pre-ideologico” o forse il luogo dell'essere (umano, direbbero molti, in quanto porta in movimento e solidarietà). Chi lo sa? Quel che è certo è che le affinità ideologiche non facilitano questo tuffo (Althusser cita gli “intimi” che si sono allontanati). Immersioni folli alla ricerca di quel tratto, di quel granello di umanità prima che il feticismo lo sopraffacesse o fosse sommerso dalla valanga del capitale.
* Paolo Silveira è psicoanalista e professore in pensione presso il Dipartimento di Sociologia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di Dalla parte della storia: una lettura critica dell'opera di Althusser (Polizia Stradale).
note:
[I] Mi includo tra questi critici. Poulantzas, Silveira, P. (org.), Editora Ática, São Paulo, 1984. In quella situazione politica, la guerra fredda e l'egemonia dei PC facilitarono l'intorpidimento della sensibilità storica.
[Iii] Löwy, Michael, “Nicos Poulantzas, come lo conoscevo io”, intervista a battuta d'arresto il 18/12/2014.
[Iv] Balibar, E. La filosofia di Marx, La Découverte, Parigi, 1993.
[V] Althusser, nel suo ultimo intervento del 1985, espresse forti riserve sul “socialismo reale”: “Credo di aver servito, e servito bene, l’idea di un comunismo non allineato con l’esempio detestabile del ’socialismo reale’ e del suo degenerazione (…)”. Il futuro dura a lungo, p.212, Companhia das Letras, San Paolo, 1992.
[Vi] Poulantzas si lanciò dal 22esimo piano della torre di Montparnasse. “Il grande amico di Nicos, Constantin Tsoukalas, che è anche mio amico, era con lui al momento dell'atto. Si dice che Nicos abbia cominciato lanciando i libri dalla finestra, dicendo che quello che aveva scritto non valeva niente, che aveva fallito nella sua impresa teorica, e poi si è gettato dalla finestra. C’è quindi sicuramente un sentimento di fallimento personale. Ma nessuno lo saprà mai, è una tragedia inspiegabile”. Michael, Löwy, ob.cit.
[Vii] Althusser, L., Futuro…, ob.cit. p.229.
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