da RICARDO FABBRININI*
Commento all'opera di Amilcar de Castro, che a luglio avrebbe compiuto 100 anni
L'attività di Amilcar de Castro nel corso di cinque decenni è stata segnata dalla passione per la coerenza. Il suo lavoro di scultore, disegnatore, incisore o impaginatore obbedisce sempre a una rigorosa formalizzazione, nel senso della tradizione dell'arte costruttiva, senza che ciò implichi, però, una rinuncia alla pulsazione dell'opera. Ha prodotto un linguaggio dalle forme chiare e precise, che “innestava la poesia sulla matematica, o il rigore sulle libere immagini” (Paul Valéry). Ha creato una scrittura di segni irriducibili, che non si allontanano dalla loro origine, poiché ha sempre coltivato “la terribile abitudine di voler cominciare dall'inizio, e di partire da zero”, come diceva Ferreira Gullar, o, insomma, di cogliere il segno in stato nascendi. L'obiettivo principale del suo lavoro – che eliminava tutto ciò che si ripete – era, dunque, la difficoltà. Amilcar amava solo i problemi.
Negli anni '40 studia disegno e pittura, paesaggio e natura morta con Guignard, all'Escola do Parque, a Belo Horizonte. Guignard gli ha insegnato a disegnare con matita dura e linee decise, puntando, come ricorda Amilcar in una recente poesia, alla “comunicazione diretta senza aggettivi o preziosismi”. La matita, in questi disegni, come una puntasecca o un bulino, solca la carta. Nelle sue visioni di Ouro Preto, ad esempio, osserviamo rischi precisi accanto a rischi erranti, tracce di errori. Paesaggi figurativi, con pochi elementi, dai contorni netti, situati sulla soglia dell'astrazione: i tetti sono trapezoidali; porte, rettangoli; balaustre, quasi spirali. Amilcar apprende da Guignard, insomma, che l'arte è geometria e rischio, segni della sua futura scultura.
A Rio, nel 53, stimolato dall'arte e dalle idee dell'artista svizzero Max Bill, determinanti nell'affermazione delle avanguardie geometriche in Brasile, realizza la sua prima “opera costruttiva”, in lastre di rame, esposta alla 2a Biennale, e dal 95 ospitato in un lato della strada del Centro Hélio Oiticica (RJ).
Pur senza partecipare attivamente al dibattito teorico tra artisti di San Paolo e Rio de Janeiro, “concreti” e “neoconcreti”, aderì al gruppo di Rio, firmando il Manifesto del Neoconcreto del 59, reazione, nelle parole di Ferreira Gullar, al la “pericolosa esacerbazione razionalista” del “pensiero matematico”. “La geometria non poteva limitarsi, ricordava Amilcar, al teorema di Pitagora, al nastro di Moebius o alla tavola di Fibomacci”.
Dell'arte concreta, riassunta da Gullar nel 61, Amilcar conserva così la “volontà di essere strutture libere, definite, espressione diretta”, e non la struttura dura, modulare, che produce illusioni ottiche, nello stile del Bauhaus e del concretismo. La sua scultura, ha azzardato Gullar, non è il risultato dell'applicazione di uno schema, ma l'“esperienza drammatica”, in maniera inedita, perché “catturata alla nascita”.
Da 50 anni Amilcar taglia e piega lamiere di ferro. Solo dal 67 al 71, periodo in cui visse negli Stati Uniti, senza ferro o fabbro a portata di mano, sperimentò l'acciaio inossidabile, un materiale a suo dire privo di carattere, in quanto molto sottomesso alle torsioni. Inoltre l'acciaio inox resiste ai segni del tempo, mentre il ferro lo accoglie alla ruggine. Le lamiere di ferro, esposte all'aria del giorno, si macchiano, cambiano colore, inglobando il tempo e l'ambiente.
Tornato in Brasile ea Gerais, è rimasto fedele al ferro: la sua scultura “è fatta di lamiera di ferro”, disse una volta, “perché è necessaria, è originaria di Minas, è a portata di mano”. "Tutti qui sanno come forgiare il ferro." Amilcar utilizzava però soprattutto “acciaio cor-tem”, una lega di ferro con carbonio, in quanto più malleabile e resistente alla ruggine, in quanto questo acciaio, meno corrosivo e tenace, produce dopo un certo tempo una protezione che impedisce ulteriori ossidazione.
Amilcar ha creato opere in cui taglia e piega lamiere di ferro; in alcuni, invece, c'è solo un taglio; in altri, si piega semplicemente. Ciascuna serie, tuttavia, non derogava alla precedente, ma vi si aggiungeva, ampliando i procedimenti dell'artista. È il taglio, che ferisce il ferro, che lo costringe a scultura. Il ferro insiste ad essere trattato come se stesso, come un “corpo in sé”, e non come sostrato sottomesso a qualsiasi iscrizione. Il ferro è, in Amilcar, il materiale della scultura, sia superficie che supporto.
L'atto di tagliare, prima di quello di piegare, richiede imprecazioni, alterchi, in quanto è necessario maltrattarlo, venire alle mani, per poi attraversarlo e conquistare l'altra parte. Questo atto, però, è anche chirurgico, in quanto lascia il senso relegato alla questione. Non si deve strappare il ferro, ma scalzarlo con la lima della tecnica, lentamente, per poi farvi spazio. Dopo che la lastra è stata sollevata, con la piega che segue il taglio, ciò che era piatto ora diventa una regione dello spazio: “spazio organico” o “spazio esperienziale”, nel lessico neoconcreto.
La scultura di Amilcar è una ricerca sull'origine della scultura stessa, la nascita della terza dimensione: il piano (bidimensionale), piegandosi, si trasforma in una scultura (tridimensionale). Piegarlo è sollevarlo. È il fuoco, però, a piegare il ferro: non basta scaldarlo, ci vuole una gru, e molta fiamma, per piegarlo.
La piega di Amilcar non è la piega barocca, che va all'infinito, che produce elasticità e fa esplodere la forma: la piega come drappeggio. È invece la piega fondamentale, la virilità che eleva il piano, che ne fa una scultura senza teatralità. È una piega concisa, che con sapienza genera, all'improvviso, dopo una lunga attesa, una scultura, e non la piega fluente, turbolenta, che termina in una frangia o in un arabesco. La sua opera non è “manierista”, ma “essenzialista”, nel linguaggio di Deleuze. Non c'è ornamento o eccesso in lei. L'opera, aperta dalla piega, è senza eccessi: “Ho fede”, dice, “nella forma che non lascia residui”. L'atto di piegare, dispiegato in ciascuna delle sue opere, alla fine ha reso la piegatura un potere, la condizione per la variazione in quasi tutto il suo lavoro.
“Il meno è Minas”
Negli anni '80, però, Amilcar tagliava anche opere senza pieghe. Sono opere più piccole, monolitiche, minimaliste, mini-menhir per interni nel Minas Gerais. Alcuni di essi sono blocchi feriti o spaccati da fessure longitudinali o trasversali. Altri hanno ritagli interni, componendo a puzzle primitivo: blocchi maschio-femmina. Questi massicci totem prendono le distanze dal minimo da Carl André o Le Witt, perché non sono unità modulari, e da Morris o Smith, perché non sono marchi raffinati e repressivi. O minimo di Amilcar non lo è yankee (non segue la massima "meno è più”). In esso “l'ultimo è Minas”: è il ferro e le sue metafore.
Ci sono opere in cui non c'è taglio, solo pieghe. Molti di loro, realizzati in sottili lamiere di acciaio Cor-Ten, sembrano mantelli alati: parangolés di tonnellate leggere. Sono “hagoromos” (“mantelli di piume”) d'acciaio che radicalizzano la tensione, sempre presente in Amilcar, tra l'arcana solidità del minerale e la leggerezza aerodinamica, quindi moderna, delle sue forme. Sono deltaplani fino a 2,40 mx 2,40 m: da un lato, provenienti da depositi, sono radicati nel terreno. Hanno un peso “marcatamente scultoreo”, come diceva Ronaldo Brito, che dà loro un “senso di permanenza”: a piedi nudi, come senza piedistalli, giacciono a terra, dove hanno avuto origine. Le pieghe, donando leggerezza alle forme, le fanno salire verso l'alto, trasformando le lamiere in strati e l'acciaio in ali. Nel 66, Hélio lo aiuta con una scenografia per Mangueira; e nel 99 Amilcar ha ricambiato il gesto con questi mantelli e passi di danza.
Oltre che scultore (qui, non come modellatore di volumi come Henry Moore, ma come “costruttore di spazi” come Richard Serra), Amilcar è anche pittore, incisore e disegnatore. Non traspone semplicemente la stessa forma, fatta in stampo, a tutti i media, ma la stessa economia è visibile in tutti. Nei quadri o, come vuole l'artista, “disegni” acrilici su tela di grandi dimensioni, il tachismo di Franz Kline appare in una versione costruttivista à la Malevitch e Mondrian. Macrosegni neri, le notti di Klein, si riversano, nell'alchimia di Amilcar, in quadrati bianchi su fondo nero, l'alba di Malevitch. De Mondrian detiene ancora la tavolozza pura: oltre al bianco, al nero e al grigio, ammette solo colori primari.
Si tratta dunque di una geometria gestuale, visibile anche nei suoi disegni a china o in acrilico su carta e nelle sue litografie. Sono tratti tra l'ideogramma e lo scarabocchio, che ad ogni occorrenza sorprendono per l'originalità della configurazione. La scrittura di Amilcar è fatta di linee che non si consumano mai, perché, con la stessa secchezza e ruvidezza della sua scultura, questi segni aurorali irrompono nel bianco della pagina come un botto; come tratti iniziali o iscrizioni parietali. Amilcare creò infine, nel corso dei decenni, una castrografia, oggi robusto ramo del tronco glossematico (dal protodiscorso: lettere ante litteram) d'avanguardia, composta da kleografia, michauxgraphy, duuffetgraphy e citomblygraphy.
l'artista del layout
Nella buona tradizione costruttivista, Amilcar è anche un layout artist. Nel 59 esegue la riforma grafica del Giornale Brasile, pietra miliare della stampa brasiliana, e, nel 1999, ha curato la copertina e la grafica di Giornale delle recensioni, da Discurso Editoriale. La struttura grafica è, come dice lui, il “carattere di un quotidiano”, quindi la pagina deve essere “severa, chiara, leggera, ma seria”, senza ornamenti o ingrigimenti: “Diretta, nero su bianco”.
Non Giornale delle recensioni, Amilcar ha valorizzato orizzontali e verticali, interrotti solo da linee sottili spostate rispetto ai titoli. Sottolinea il candore della pagina e immagini di forza grafica che, aerando il testo, ne facilitano la lettura. Qui il bianco è uno spazio d'aria che lascia respirare ogni recensione: non è uno spazio vuoto o vuoto, ma calamitato, perché riecheggia i testi. La concisione dei titoli, fulcro delle recensioni, rafforza ulteriormente questa logica di midolli o essenze.
Negli ultimi loghi realizzati per Jornal de Resenhas, invece, ha utilizzato forme sinuose e, in una serie di recenti litografie, forme a spirale. Questa scrittura non implica l'introduzione dell'eccesso nella sua opera, perché anche qui abbiamo un gesto generoso, gioioso, che diventa geometria senza intonacarsi; nelle sue pennellate o sinuosità del tratto sottile, senza ritocchi, è la spinta che si compie nella scrittura di precisione.
Amilcar ha così costruito, nel corso dei decenni, in vari supporti, un'opera somma e unitaria fatta solo di variazioni di taglio, piega e linea. I suoi gesti esperti e accurati producono forme purificate, raffinate, sostanziali. Ogni sua opera è solo midollo, un osso così centrato da non avere aggettivo o ornamento. “È un manufatto senza artificio, nudo, senza pelle” (Gullar): – con le ossa esposte. Tutto è chiaro e sembra facile; perciò nutriva disprezzo per le cose vaghe. Anche il suo discorso aveva la semplicità e la concisione delle sue opere, era un discorso tagliente, dal retrogusto secco: “Ho fede”, disse direttamente, “nell'opera che non lascia residui”. Questa ferrea coerenza lo allontanava dalle mode: “La mia vita facile mi annoia. Il mio difficile mi guida” (Paul Valéry via Augusto de Campos). Il facile è lo spettacolare, il pomposo. Il difficile è la purezza, il rigore. Il suo lavoro è, infine, mirabilmente accurato: ma “cosa c'è di più misterioso, si chiede Paul Valéry, della chiarezza?”. Ed è da questa chiarezza strutturale che Amilcar deriva la sua universalità, come testimonia il suo lavoro, molteplice e unico: serie aperte al futuro dell'arte brasiliana di tradizione costruttiva.
*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Unicamp).
Versione riveduta dell'articolo pubblicato in Giornale delle recensioni N. 57.