Quo vadis, Israele?

Marcel Duchamp, Rotorrelevos, 1935
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da SERGIO DA MATA*

Considerazioni sul libro “Niemals Frieden?”, di Moshe Zimmermann

Come agisce, o meglio, come reagisce lo storico in situazioni estreme come la guerra? Soprattutto quando la belligeranza non è rivolta solo al nemico, ma anche a chi osa mettere in discussione le ragioni e la moralità dei propri connazionali? In un paese come Israele, tali questioni non sono affatto teoriche. Un esempio: per la sua dura critica all'occupazione dei territori palestinesi e per il suo lavoro con il movimento pacifista Schalom Aschaw, il politologo e storico Zeev Sternhell subì un attentato il 25 settembre 2008. Zeev Sternhell, che trascorse parte della sua infanzia nel ghetto di Przemyśl e all'epoca aveva 73 anni, fu fortunato e riportò solo contusioni.

Le cose non sono arrivate a questo punto, fortunatamente, per lo storico israeliano Moshe Zimmermann, che ha appena pubblicato un libro importante per comprendere il ciclo di atrocità innescato dal brutale attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre dello scorso anno. Specialista in storia dell'antisemitismo e autore di ampie opere, Moshe Zimmermann è un appassionato difensore della soluzione dei “due Stati” e uno dei più grandi critici degli errori della politica del suo Paese.

A differenza degli altri suoi libri su Israele e la questione palestinese, in Niemals Frieden? Israele sono Scheideweg (“Pace impossibile? Israele al bivio”, in libera traduzione) la voce ferma e serena dello storico si apre, qua e là, alla dimensione personale: i ricordi d'infanzia, l'ammirazione per lo scienziato e grande umanista Yeshayahu Leibowitz, le cause legali a al quale doveva rispondere delle sue opinioni, della preoccupazione per la sorte dei suoi nipoti. La stessa fermezza espressa nelle altre sue opere è ora accompagnata da quello che lui – un intellettuale ottantenne per il quale la struttura di base del conflitto è rimasta immutata per decenni – chiama “pessimismo costruttivo” (p. 80).

È come se per Zimmermann non ci fosse più tempo da perdere, nemmeno per esercizi di imputazione causale o grandi voli analitici. Ciò che conta è presentare al lettore una cronaca onesta degli eventi, contribuire a chiarire l'opinione pubblica e, chissà, rafforzare il partito della pace, ancora minoritario.

Un critico frettoloso o disinformato probabilmente ti rimprovererà di aver concentrato le tue analisi sulla parte israeliana del conflitto. Chi fosse interessato al neutralismo da salotto sicuramente non lo troverà qui: “il tentativo di essere neutrali è un atteggiamento che ritengo moralmente sospetto” (intervista a Tageszeitung, 01/11/2023).

Meno di una recensione, il testo che segue è un tentativo di familiarizzare il lettore brasiliano con l'illuminazione storiografica di Moshe Zimmermann. I sottotitoli corrispondono alla divisione in capitoli del libro. È stato omesso solo il capitolo 12, che tratta della dimensione economica del conflitto.

Il fallimento del sionismo: 7 ottobre

Il progetto del padre del sionismo, Theodor Herzl, era debitore alla cultura politica europea del XIX secolo. Si cercava la creazione di uno Stato che potesse garantire una casa e una piena cittadinanza agli ebrei. Ma questo ha creato anche un mito: quello in Eretz Israel sarebbero completamente al sicuro. Un sogno che, per Moshe Zimmermann, non sono le guerre del 1967 o del 1973, ma pogrom l'anno scorso lo ha messo a terra. “Se in Israele si verifica la peggiore catastrofe della storia ebraica dal 1945, dobbiamo ammettere che c’è qualcosa che non va nell’intera idea di sionismo” (intervista a Il Paese, 19/04/2024).

Moshe Zimmermann ci ricorda un ulteriore elemento tragico: i luoghi attaccati lo erano kibbutz situati nel territorio indiscusso di Israele, spazi in cui, contrariamente al radicalismo dominante nelle cosiddette “colonie”, il dialogo con i palestinesi è generalmente sostenuto – o sostenuto. Tra le vittime del massacro “c'erano innumerevoli coloro che, altruisticamente, furono coinvolti attivamente nell'aiutare i [loro] vicini di Gaza” (p. 22).

La soluzione dei due Stati e i suoi nemici

Chiunque abbia letto i saggi di Hannah Arendt sul sionismo, scritti negli anni Quaranta, sa – contrariamente alla generalizzazione che ricorre nei forum e nei siti web, o divenuta corrente in parte del mondo musulmano – che il sionismo non è mai stato un movimento omogeneo. Come minimo, spiega Moshe Zimmermann, egli era diviso tra un’ala laica e una religiosa, e tra un’ala “proletaria” e una “borghese”. Da quest’ultima fazione nascerà poi la corrente revisionista, che Zimmermann classifica come “nazionalista ed etnocentrica” (p. 1940). E' l'embrione del Likud.

Nella Palestina sotto il dominio britannico negli anni ’1920, c’era una “guerra interna latente” (Arendt 2007, p. 365). Così andarono le cose nei decenni successivi, che portarono alla prima grande catastrofe per i palestinesi, la nakba. Mentre i revisionisti erano riluttanti a rinunciare alle terre a est del Giordano, guidati dall'ideologia del “Grande Israele”, la creazione del nuovo Stato sarebbe stata respinta all'unanimità dal mondo arabo (solo nel 1988 l'OLP di Arafat avrebbe riconosciuto Israele).

Poiché un’espansione “verso l’esterno” si è rivelata irrealistica, i predecessori del Likud hanno optato per un’espansione “verso l’interno”, cioè con l’obiettivo di annettere la Striscia di Gaza e la Cisgiordania (cioè la fondazione territoriale del futuro Stato palestinese, come previsto nel 1947 nella risoluzione ONU 181). I revisionisti cominciarono allora a contare sull’appoggio dei sionisti religiosi. Per cinquant’anni, scrive Moshe Zimmermann, “è stata promossa una deliberata politica di colonizzazione delle regioni sotto occupazione con l’obiettivo di realizzare il sogno del Grande Israele” (p. 27). L’autore non manca di notare, però, che settori della giovane società civile israeliana hanno alzato la voce: alla fine degli anni Settanta Schalom Aschaw (“Peace Now”), un movimento che difende la restituzione dei territori occupati ai palestinesi.

Purtroppo le elezioni del 1977 avrebbero celebrato il riavvicinamento definitivo tra il Likud, i sionisti religiosi e gli ultraortodossi. Due anni prima della rivoluzione islamica in Iran, si formò una coalizione che Moshe Zimmermann definisce “di destra radicale, nazionalista, conservatrice e fondamentalista”, che non esitò a incoraggiare “azioni illegali nei confronti dei palestinesi” e una “politica di occupazione radicale”. " (pag. 28).

L’assassinio del primo ministro Yizhak Rabin nel 1995 sarebbe un chiaro segnale che “nessun governo israeliano”, se tale costellazione dovesse continuare, “rischierà di avviare negoziati con i palestinesi che potrebbero implicare un ritiro dalle colonie” (p. 29). Il ritiro di 7.000 “coloni” da Gaza nel 2005 contraddice solo apparentemente questa previsione. Il piano di Ariel Sharon – come aveva già sottolineato Moshe Zimmermann nel suo libro La paura della pace. Il dilemma israeliano (2010, p. 45) – era quello di eludere l’accordo di pace proposto dalla Lega Araba nel 2002 rinunciando ad un anello.

Con ciò Sharon (le cui provocazioni furono l’innesco della Seconda Intifada) intendeva “rafforzare le iniziative di colonizzazione in Giudea e Samaria” (p. 29), toponimi biblici con cui il nazionalismo ebraico si riferisce alla Cisgiordania. Neppure i brevi governi laburisti che seguirono fecero nulla per invertire questa politica, il che indica chiaramente che le occupazioni sono una politica statale in Israele. Questa situazione raggiungerebbe un nuovo livello con l’arrivo al potere di Netanyahu.

Dal 2014, quando i negoziati proposti da Barack Obama fallirono, i “coloni” israeliani hanno ottenuto la carta verde dal loro governo. Da quel momento in poi, sono stati in grado di “costruire colonie quasi senza alcun ostacolo, molestare i palestinesi, costruire strade che solo i [loro] coloni possono utilizzare, e quindi promuovere una graduale annessione” (p. 30) di ciò che non era a disposizione loro.

Potere e impotenza: guerra infinita

Il sionismo stabilì il modello di ciò che dovrebbe essere il nuovo ebreo: forte, impavido, pronto alla guerra (p. 33), un ideale rafforzato e legittimato dal sistema educativo del paese. Nei libri di testo scolastici “la storia delle guerre mette in ombra (…) tutti gli altri aspetti della vita in Israele”; e il soldato viene elevato allo status di “tipo ideale” (p. 35). Tutti i conflitti e le operazioni militari in cui il Paese è stato coinvolto – dalla guerra d’indipendenza a quella attuale – vengono presentati come “inevitabili”.

Per i nazionalisti, chiunque metta in dubbio questo articolo di fede commette “un peccato contro il sionismo” (p. 35). Moshe Zimmermann ritiene che questa narrazione eroica “è fortemente radicata nella mentalità israeliana, che, a sua volta, ha praticamente distrutto la fede nella pace” (p. 37). In questo senso, il radicalismo di Hamas ha fornito un servizio inestimabile a quella che Arendt (2007, p. 374) chiamava “ideologia settaria” sionista.

Nel suo sobrio trattamento della questione, Moshe Zimmermann è ben lungi dall'esprimere empatia con Hamas, limitandosi piuttosto a chiedersi: “che cosa può spiegare meglio la volontà di guerra dei palestinesi che vivono sotto occupazione: la loro 'natura' araba o la loro 'natura' israeliana? comportamento?" (pag. 38).

Ragione di Stato israeliana o tedesca

In un libro scritto direttamente in tedesco e pensato per i lettori tedeschi, i rapporti tra la Repubblica Federale e Israele occupano uno spazio considerevole. Il punto di partenza è la dichiarazione fatta nel 2008 da Angela Merkel in Knesset, che la sicurezza di Israele è “parte della ragion di Stato tedesca”. Zimmermann non si tira indietro in questa parte del libro, come nelle sue interviste alla stampa, nel criticare la posizione dei tedeschi sull'argomento. Sostegno incondizionato a Israele (secondo The Guardian, la Germania è il secondo maggior fornitore di armi a Israele, dietro solo agli USA) vi sembra una sciocchezza.

La sicurezza di Israele potrà essere raggiunta solo attraverso “un riavvicinamento con i paesi della regione, in particolare con i palestinesi, sulla base della soluzione dei due Stati” (p. 42). Le dichiarazioni rilasciate negli ultimi mesi dal cancelliere Olaf Scholtz e dal ministro degli Esteri Baerbock non fanno altro che confermare la tendenza di Berlino a combinare “dichiarazioni a parole” dal contenuto umanistico con l'accettazione effettiva della conquista ininterrotta del territorio palestinese. Come giustificare l'allineamento automatico alle azioni di un governo descritto da Moshe Zimmermann (intervista a Tageszeitung, 01/11/2023) come “un regime di fanatici nazionalisti”?

A un giornalista che gli chiedeva se spettasse ai tedeschi, gli autori dell’Olocausto, esercitare pressioni su Israele, Moshe Zimmermann ha risposto: “Proprio per questo motivo. Come eredi degli autori del reato bisogna imparare qualcosa dalla storia. Inutile dire che non bisogna stare dalla parte dei razzisti” (intervista a Tageszeitung, 04/03/2024).

Di questi tempi, il solo fatto di citare le frasi sopra riportate può valere a chiunque, soprattutto a un non ebreo, l’accusa di antisemitismo. Come affronta la questione Moshe Zimmermann, noto esperto in materia? Ci mostra che il concetto è da tempo in discussione; qualcosa che, come sappiamo, ha il potenziale di metamorfizzare concetti analitici in concetti politici, o meglio, politicizzati.

Nel 2017, dopo aver condotto una vasta inchiesta, una “commissione indipendente”, convocato dal parlamento tedesco è andato oltre e ha proposto una tipologia di forme di antisemitismo. Accanto all’antisemitismo “classico” (odio verso gli ebrei) e all’antisemitismo “secondario” (negazione o relativizzazione dell’Olocausto) vi sarebbe anche un israelbezogener Antisemitismo, cioè “antisemitismo legato a Israele”. Sulla base di quest'ultima tipologia, è stato suggerito che le critiche rivolte a Israele, anche quelle apparentemente più neutrali, potrebbero avere una motivazione antisemita.

Quattro anni dopo, un gruppo di esperti riunito a Gerusalemme, al quale prese parte Zimmermann, concluse che l’antisemitismo doveva essere inteso (p. 46) come “discriminazione, pregiudizio, animosità o violenza contro donne e uomini ebrei in quanto ebrei ed ebrei ( o da istituzioni ebraiche in quanto ebraiche).” Il gruppo di Gerusalemme si è quindi opposto ad un significato troppo ampio del termine, come quello delineato dalla “commissione indipendente”. Non dovrebbero essere prese in considerazione le critiche a Israele basate sui fatti e nemmeno le sanzioni e il boicottaggio dei prodotti provenienti dai territori occupati di per sé antisemiti.

Per Moshe Zimmermann, l’esperienza ha dimostrato “che i politici e i diplomatici israeliani tendono a denunciare le critiche alla politica israeliana come antisemite” (p. 48); un tipo di abuso semantico che si intensifica man mano che il conflitto si prolunga e il numero delle vittime civili palestinesi genera indignazione in tutto il mondo, dalle università nordamericane agli ex riservisti israeliani (Gvaryahu 2024).

Che i sostenitori della causa palestinese non siano del tutto esenti dal commettere lo stesso tipo di errori è dimostrato dal loro uso ripetuto, non meno suscettibile di abusi, del concetto di genocidio. Non possiamo che concordare con Zimmermann nel ritenere che la banalizzazione del termine antisemitismo indebolisce la lotta all’antisemitismo vero e proprio anziché rafforzarla, poiché tende a sfumare la percezione del fenomeno entro contorni precisi, laddove esso effettivamente si manifesta (p. 48).

Radici europee, sguardo retrospettivo postcoloniale

Dall’ultima guerra mondiale si è sviluppata in Germania una comprensibile ipersensibilità verso tutto ciò che ha a che fare con Israele e con l’antisemitismo. Come tutte le forme di ipersensibilità, però, di tanto in tanto si supera il limite del ragionevole. È il caso delle polemiche scatenate dall’invito di Achile Mbembe per una conferenza alla Triennale della Ruhr nel 2020, o, più recentemente, dei tristi episodi dell’annullamento dell’assegnazione di un premio letterario alla scrittrice palestinese Adania Shibli (autrice dell'acclamato libro Dettaglio minore) all'ultima Fiera di Francoforte, e la revoca dell'invito da parte dell'Università di Colonia alla filosofa Nancy Fraser dalla cattedra per aver firmato il manifesto “Filosofia per la Palestina”.

Nonostante il contenuto delle sue critiche alla cronica indisposizione dell’alta politica israeliana nei confronti della pace, Zimmermann esprime il timore che nel contesto attuale, dietro molti dei paragoni attuali tra la realtà dei palestinesi nei territori occupati, il colonialismo e il regime sudafricano dell’apartheid, può nascondersi la volontà di delegittimare l’esistenza dello Stato di Israele. In altre parole, non è da escludere l'ipotesi che in un caso o nell'altro possa esserci una motivazione antisemita. a priori (pag. 56). “Devo ammettere che in passato ho sottovalutato il potenziale di questo pericolo. La reazione (…) a quanto accaduto intorno a me dal 7 ottobre mi ha insospettito» (p. 58). Molti, infatti, hanno qualificato le atrocità commesse da Hamas come un atto di legittima resistenza, come una “rivolta”. Le carte diventano ancora più confuse quando un discorso del genere viene ripreso da un'intellettuale ebrea dell'importanza di Judith Butler.

Come possiamo valutare con sicurezza il significato di fondo di una critica a Israele? O meglio: come possiamo sapere cosa si nasconde dietro l’assurda tesi secondo cui la violenza indiscriminata e apocalittica contro civili indifesi (sia dentro che fuori Gaza) potrebbe essere legittima? È antisemitismo, perversione ideologica, ingenuità sconfinata o mero istinto di vendetta?

La questione non è affatto semplice, ma come dimostra la pratica giuridica quotidiana (le motivazioni contano), non è possibile lasciarla da parte. Zimmermann capisce che “se attribuisci il comportamento di un ebreo al fatto che è ebreo, stai ragionando sulla base dell'antisemitismo. Se critichi Israele per il controllo della Cisgiordania e diresti lo stesso di qualsiasi altra nazione che occupa un territorio e sottomette i suoi abitanti, questo non è antisemitismo. Oppure se si chiede il boicottaggio” (intervista a Il Paese, 19/04/2024).

È comprensibile ciò che probabilmente ha lasciato sospettoso Moshe Zimmermann. È interessante notare che nella sinistra in generale, e tra i postcolonialisti in particolare, eventi come l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e l’invasione dell’Ucraina nel 2022 sono stati raramente trattati come un’espressione della moderna aggressione coloniale. Ma poiché i doppi standard di una parte del intellighenzia non è il problema più grande, Zimmermann preferisce lasciare le sue critiche tra le righe e concludere che il “programma razzista-fondamentalista” dell’attuale governo israeliano, così come “il tipo di guerra che promuove a Gaza, alimentano il sistema fuoco del postcoloniale” (p. 58).

Israele – uno stato senza confini

Dal punto di vista della geografia politica, ci troviamo di fronte ad una situazione innegabilmente anomala. Israele è un paese senza confini riconosciuti a livello internazionale – almeno quelli che vorrebbe avere. Ciò è strettamente legato alla questione demografica. Anche dopo le due maggiori ondate migratorie della seconda metà del XX secolo, le leggi israeliane continuano a mantenere una chiara distinzione tra ebrei e non ebrei. Mentre i primi acquisiscono la cittadinanza non appena si stabiliscono nel Paese, per i secondi il percorso è estremamente difficile, soprattutto quando sono arabi (pp. 20-64).

Ma la distinzione nel trattamento e nei diritti non si limita agli arabi e ai palestinesi israeliani. Per Moshe Zimmermann l’asimmetria si estende agli ebrei della diaspora. Sebbene il Paese consideri se stesso come il loro destino naturale, essi “non vengono consultati sui loro interessi, essendo, piuttosto, praticamente protetti da Israele”. Riferisce che, nel 1992, quando partecipò ad un dibattito con un ex capo del Mossad, propose nientemeno che di inviare soldati israeliani in Germania “per salvare gli ebrei e 'rimandarli' in Israele” (p. 66).

Insomma, una vera integrazione in altre culture e società sarebbe impossibile, un mero e indesiderabile interregno prima del definitivo ritorno al mondo. Eretz Israel. Come ha dimostrato la storica Idith Zertal in un articolo ben documentato (Zertal, 2007), mettere in dubbio un simile articolo di fede è stato uno dei tanti motivi per cui Hannah Arendt è diventata persona non grata tra i politici e perfino tra gli accademici israeliani.

Per Moshe Zimmermann, che già si era espresso negli stessi termini più di dieci anni fa, si è instaurato nel tempo uno stile di relazione che «trasforma gli ebrei della diaspora in ostaggi della politica israeliana» (p. 67). Sappiamo cosa significa in pratica: i leader ebrei brasiliani e nordamericani tendono a garantire un sostegno incondizionato ai governi israeliani. Un automatismo che andrebbe messo in discussione, dice Zimmermann, quando il Paese ha alla guida “un governo di estrema destra, ultraortodosso, omofobo”, un governo “favorevole all’instaurazione del Grande Israele, alla teocrazia e alla distruzione della divisione dei poteri” (p. 67).

Dal laicismo al fondamentalismo

In altre occasioni Moshe Zimmermann (2005; 2010) ha mappato due momenti decisivi della storia recente di Israele, senza i quali non è possibile comprendere la situazione attuale. La prima è la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele occupò la penisola del Sinai (restituita all’Egitto in seguito agli accordi con Anwar Sadat), le alture di Golan, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. In quel momento la società israeliana mostrava segni di una profonda trasformazione ideologica. Declino i valori politici liberali e socialisti e subentra il banco socialdemocratico Knesset inizia a ridursi.

Il sionismo nel suo senso classico e secolare sta entrando in crisi. Questo processo raggiunge il suo apice con la sconfitta del Partito Laburista nelle elezioni del 1977, che “non fu solo un punto di svolta politica, ma anche un cambiamento di paradigma nella teologia politica dello Stato di Israele” (Zimmermann 2005, p. 155). ). Con il nuovo governo, formato dalla coalizione tra nazionalisti religiosi e ultraortodossi, viene meno la separazione tra religione e politica che fino ad allora aveva prevalso nel movimento sionista.

Un tenore comune dei gruppi emergenti è quello che Zimmermann chiama romanticismo biblico (p. 70), e che si manifesta nella ricerca di “tombe sacre”, nell’ossessione per luoghi come Hebron e Betlemme e nel tentativo di riportare Israele in i suoi presunti “confini biblici”. Anche i leader più influenti del partito laburista aderiscono a questo principio Rendere Israele di nuovo grande, vedendo il fiume Giordano “non come un confine di sicurezza, ma come il confine orientale della Terra di Canaan, promessa da Dio agli ebrei” (p.71).

Moshe Zimmermann associa la svolta fondamentalista dell’ideologia statale israeliana alla graduale perdita di influenza del sionismo laico dell’Europa occidentale, à la Herzen. Provenienti soprattutto dall'Europa dell'Est, gli ultraortodossi erano inizialmente una minoranza e non esercitavano una maggiore influenza politica (soprattutto perché vedono nello Stato moderno una sorta di eresia). I rapporti di forza iniziarono a cambiare dopo la prima grande ondata di immigrazione, composta soprattutto da ebrei provenienti dai paesi vicini, come Yemen, Marocco, Tunisia e Iraq (circa 120.000 ebrei iracheni si stabilirono in Israele negli anni Cinquanta).

Poco affezionata al sionismo laico dei fondatori dello Stato d'Israele, questa fascia di popolazione metteva in primo piano il rapporto simbolico con la “terra santa”. Organizzandosi politicamente e associandosi agli ultra-ortodossi, la politica israeliana comincia finalmente a essere dettata, nelle sue linee più ampie, da quello che Moshe Zimmermann chiama “vero post-sionismo”. Dalla vittoria elettorale di Menachem Begin, tale alleanza ha governato il paese solo durante brevi intermezzi sindacali.

La radicalità delle loro posizioni si esprime sempre più, come dimostrano l'ininterrotta espansione delle “colonie” nei territori occupati, la violenza praticata sia dai “coloni” che dall'esercito, il tentativo di espandere la giurisdizione dei tribunali rabbinici , la battuta d'arresto nei diritti delle donne (come ha ammesso l'anno scorso l'ex ministro Meirav Cohen), il finanziamento pubblico degli istituti scolastici ultraortodossi a scapito del sistema accademico universitario, gli attacchi all'indipendenza della magistratura e della comunità LGBT. Tali fatti dimostrano, dice Zimmermann, che “il sionismo ha subito una terribile metamorfosi” (p. 73). Sembra infatti che sia giunto il momento e la svolta per coloro che uno dei suoi professori all’Università di Gerusalemme, il grande storico Jacob L. Talmon, chiamava “zeloti” (Talmon 2015, p. 276).

Da questa prospettiva, e al di là di tutta la tragedia, emerge una grande ironia: il conflitto sorto negli ultimi decenni tra Israele e Iran è il risultato non meno delle crescenti somiglianze tra le due società quanto delle loro evidenti differenze. Il fatto che entrambi abbiano iniziato le rispettive svolte ultraconservatrici quasi contemporaneamente (1977/1979), così come gli innegabili parallelismi che esistono, richiedono un degno sforzo di ricerca.

Stato ebraico o Stato di tutti i cittadini

La tragica situazione del popolo palestinese, che rischia di vivere una vita nuova nakba, fa quasi dimenticare un altro gruppo che meriterebbe maggiore attenzione da parte dell'opinione pubblica internazionale. Ci riferiamo agli arabi israeliani, che costituiscono circa il 20% della popolazione del loro paese. Sebbene la Dichiarazione di Indipendenza del 1948 parli di uguaglianza tra ebrei e non ebrei, non fornisce una base giuridica per garantire i diritti fondamentali. Il fatto che Israele non abbia ancora una costituzione non è qualcosa di slegato da questa situazione: sottoposto fino al 1966 alla legge marziale – segnata da “espropri, limitazioni alla libertà di entrare e uscire, divieto di esercitare alcune professioni” (p. 81 ) – gli arabi rimasti in Israele dopo l’indipendenza sarebbero diventati cittadini a pieno titolo non appena fosse stata promulgata una costituzione (Sternhell, 1998, p. 320).

Moshe Zimmermann mostra che, nel tempo, si è diffusa tra la maggioranza della popolazione una visione “secondo la quale Israele deve intendersi come uno Stato ebraico, nel senso che deve rispecchiare i valori religiosi ortodossi e agire per rimuovere i privilegi dei non -Ebrei” (p. 82). Le conseguenze pratiche del declino dei valori liberali e illuministi sono evidenti. E nonostante il fatto che l’uso di analogie storiche sia diventato da tempo una questione controversa in Israele (Zimmermann 2015, p. 205-208), l’autore sottoscrive la diagnosi di coloro che, come il presidente nordamericano Jimmy Carter (2006, p. 242), valutano che nei territori occupati esisteva – ed esiste tuttora – un regime di apartheid (P. 83).

I sondaggi d’opinione citati da Moshe Zimmermann suggeriscono addirittura che Israele potrebbe aver svolto un ruolo di primo piano nella crisi globale della democrazia liberale e dell’ideale di una società aperta. Ad esempio: il 49% degli israeliani ritiene che gli ebrei dovrebbero avere più diritti dei non ebrei, e la tendenza è in aumento (p. 84). Non a caso, la cosiddetta Legge dello Stato Nazionale, approvata dal governo di Benjamin Netanyahu nel 2018, ha eliminato lo status di seconda lingua ufficiale di cui l’arabo aveva goduto per 70 anni.

Diversità culturale vs. lotta culturale

Come abbiamo visto, Moshe Zimmermann non è esattamente in sintonia con la critica postcoloniale del sionismo. Per lui il sionismo non è il risultato del colonialismo (contro il quale, peraltro, i fondatori dello Stato di Israele hanno dovuto prendere le armi), ma piuttosto del nazionalismo europeo, e Herzl credeva nella possibilità di cooperazione e tolleranza reciproca tra arabi e arabi. ebrei. Proiettare nel passato una visione teleologica e fatalistica del conflitto, come fa la critica postcoloniale, “oscura fatti importanti” che indicano che “il conflitto non era pre-programmato” (pp. 89-90).

I primi sionisti sostenevano un riavvicinamento culturale con gli arabi e la creazione, sempre nel 1906, della Scuola d’Arte di Bezalel aprì l’estetica ebraica a tutti i tipi di influenze “orientali” – dalla musica alla letteratura. Purtroppo, poco a poco, le identità culturali di entrambe le parti si irrigidirono e persero la loro permeabilità, al punto che negli anni Cinquanta si verificò una vera e propria “guerra culturale”. L'intenso flusso migratorio degli ebrei sefarditi produsse un profondo cambiamento non solo nella cultura religiosa, ma anche nella cultura politica israeliana.

Chiudendo i ranghi con il nazionalismo del “Grande Israele”, il sefarditi ha portato ad una radicalizzazione della politica di occupazione dei territori palestinesi, rendendola sempre più aggressiva. Inoltre: da Menachem Begin in poi, i successivi governi di destra non si stancarono di ripetere l’accusa secondo cui il Paese continuava ad essere nelle mani di una “élite culturale ashkenazita ed europeizzata” (p. 93).

Secondo Moshe Zimmermann, nel 2023, Benjamin Netanyahu iniziò a strumentalizzare le tensioni tra i due grandi gruppi etno-religiosi ebraici, etichettando i difensori dello stato di diritto e della pace come “bianchi, privilegiati, una minaccia di sinistra per la fortezza di Israele”. " (pag. 93). Una cesura tra “Occidente” e “Est” ha iniziato a dividere la società israeliana, tanto quanto la divisione che tradizionalmente oppone Israele e palestinesi.

Coloni come rapitori

L’uso della metafora del rapimento è diventato una risorsa delicata in questi giorni, in cui centinaia di civili israeliani restano nelle mani di Hamas dopo la pogrom il 7 ottobre. Ma questo è effettivamente il modo in cui Zimmermann si riferisce da tempo al movimento dei “coloni” israeliani. Fino al 1977 questo gruppo contava circa 5.000 persone, ma il generoso sostegno finanziario statale – rivelato dalla commissione presieduta dall’avvocato Talia Sasson nel 2005 – e l’immunità virtuale di cui godono i “coloni” davanti alla giustizia israeliana (quando si tratta di abusi in relazione a i palestinesi) ha offerto la tutela necessaria affinché il numero degli israeliani nei territori occupati sia arrivato a circa 110.000 nel 1993, per salire a 300.000 alla fine del 2009 e raggiungere, oggi, la soglia dei 700.000.

“Tale politica”, dice Moshe Zimmermann, corrisponde “all’attuazione dell’ideologia del Grande Israele attraverso l’auto-appropriazione delle terre (selbst ermächtigte Landnahme)., Ciò ha portato ad un sistema simile a quello del apartheid" (pag. 98). Il suo segno più noto è il muro che iniziò a essere costruito intorno alla Cisgiordania nel 2003 e poco dopo dichiarato illegale dalla Corte internazionale dell’Aia.

Come oggi in Brasile, la cultura politica di Israele cominciò a essere dettata dalle dinamiche e dagli umori del campo religioso. Secondo Moshe Zimmermann, il radicalismo religioso dei “coloni” cominciò a dettare la direzione della politica israeliana, rendendo tutti gli altri cittadini “ostaggi” (p. 101). Considerata una priorità assoluta, la sicurezza dei “coloni” in pratica ha lasciato il posto kibbuzim del sud (p. 102), che li ha resi vittime sia del terrorismo di Hamas sia, in una certa misura, dell’ossessione dell’estrema destra israeliana di rendere mitica la geografia del sud Eretz Israel una realtà storica, costi quel che costi. Non sorprende che il movimento dei “coloni” abbia manifestato apertamente, fin dall’inizio dell’attuale guerra, a favore del ritorno degli insediamenti nel territorio di Gaza (p. 103).

È in questo contesto che si è formata la cosiddetta “Gioventù delle Colline”, un gruppo di estremisti il ​​cui obiettivo è creare avamposti del processo di occupazione e promuovere attacchi indiscriminati contro i palestinesi, vandalizzando le loro scuole, moschee e ulivi. La sua “fanatica politica di colonizzazione” (Zimmermann 2010, p. 96) ha raggiunto un nuovo livello negli ultimi anni, come spiega Moshe Zimmermann: “Da quando Itamar Ben-Gvir, un ex membro dell’organizzazione terroristica bandita dal rabbino Meir Kahane, è diventato deputato Knesset, i membri della Gioventù delle Colline trovarono in lui non solo un mecenate, ma anche un rappresentante in parlamento” (p. 104).

Il lettore può facilmente immaginare cosa rappresenterà, data la spirale di radicalizzazione ultranazionalista, la nomina di Ben-Gvir alla carica di ministro della Sicurezza interna alla fine del 2022.,

La kakistocrazia

L’uso di questo termine non sorprende né è inappropriato: come gli Stati Uniti di Donald Trump, il Brasile di Jair Bolsonaro e l’Argentina di Javier Milei, Israele è attualmente governato, secondo le parole di Moshe Zimmermann, “da persone populiste, di estrema destra, fondamentaliste, razzista e omofobo” – una costellazione che scandalizza anche gli ex politici del Likud (p. 107).

Seguendo un copione poco originale, Benjamin Netanyahu ha addirittura approvato un pacchetto di leggi che “inizia con la fine della divisione dei poteri e si concluderà con la distruzione della democrazia liberale” (p. 107). Molto recentemente, una mobilitazione senza precedenti della società civile israeliana è riuscita a rinviare i piani del Primo Ministro, il che, sia chiaro, è nell'interesse dei difensori della causa palestinese. Se Netanyahu riuscisse nei suoi piani e la democrazia israeliana si limitasse al mero svolgimento di elezioni periodiche, la pace diventerà ancora più improbabile.

Moshe Zimmermann usa il termine kakistocrazia (il governo del peggio) nel titolo del capitolo 11 del suo libro, e per ovvi motivi. La carica di rappresentante del governo per le questioni relative all'identità nazional-ebraica è occupata da un “razzista estremista”. Ci sono portafogli con più di un titolare, e il secondo (!) ministro della Giustizia “offende i membri delle corti superiori nel modo più volgare possibile”. Il ministro delle Finanze riduce le risorse universitarie e considera le discipline umanistiche “un'assurdità”. Il ministro dell'Istruzione cerca di domare lo spirito critico delle università.

Il ministro degli Esteri è lo stesso che affermava, nel 2019, che “i polacchi allattano l’antisemitismo insieme al latte materno” e che lo scorso febbraio accusava il presidente Lula di aver fatto dichiarazioni antisemite durante la sua visita in Etiopia. Il punto più alto, ovviamente, è il caso di Ben-Gvir: “la sua nomina a ministro potrebbe essere paragonata”, dice Zimmermann, “alla nomina di Al Capone a capo della polizia nordamericana del suo tempo” (p. 110). .

Israele e le grandi potenze

Niente di tutto ciò porta Moshe Zimmermann a esonerare alcuni leader palestinesi dalla loro parte di responsabilità nella tragedia, dopo tutto “entrambe le parti hanno dato il loro contributo per bloccare gli sforzi per la pace” (p. 125). Infatti, l’articolo 13 della Carta di Hamas afferma testualmente che rinunciare a qualsiasi parte della Palestina equivarrebbe a rinunciare a parte della sua religione – una domanda che potrebbe benissimo essere sulla bocca dei suoi nemici!

Tuttavia, coloro che pensano ancora che Israele non sia altro che un burattino della politica estera nordamericana si sbagliano. Dagli anni ’1990, quando circa un milione di russi emigrarono in Israele, i rapporti tra i governanti israeliani e il Cremlino si sono fatti sempre più stretti. Nel gennaio 2020, durante una cerimonia commemorativa della liberazione di Auschwitz presso il memoriale di Yad Vashem, Netanyahu e Putin hanno lasciato aspettare gli altri ospiti per più di un’ora (p. 128).

Una volta iniziato l’evento, ai capi di stato presenti venne mostrato un pezzo di propaganda russa che, tra le altre cose, sminuiva l’importanza della Gran Bretagna e degli Stati Uniti nella sconfitta della Germania nazista. Di fronte allo scandalo, lo stesso Yad Vashem è stato portato a chiedere scusa. Israele ha anche mantenuto una “vergognosa neutralità” (p. 129) rispetto all’invasione russa dell’Ucraina, un gesto che Vladimir Putin era noto per non essere disposto a compiere nei confronti di Israele. E sebbene le relazioni tra i due Paesi abbiano subito una grave battuta d’arresto negli ultimi mesi, la prova generale del 2020 ha reso chiaro quale modello politico batta il cuore dei nuovi fanatici.

La soluzione dei due Stati

Ad un certo punto, Moshe Zimmermann evoca i versi del poeta Nathan Alterman che cantava con i suoi amici d’infanzia: “Il ieri è ormai alle nostre spalle,\ ma la strada verso il domani è lunga”. Nello stesso spirito insiste, nelle pagine finali del suo libro, sul fatto che “più a lungo continua il conflitto, più difficile diventa il percorso verso una soluzione giusta e razionale” (p. 139). Ma Zimmermann, come ogni buon storico, sa che il futuro è sempre aperto.

Non crede che la guerra sia destinata a seppellire definitivamente il sogno della pace. Se Israele prima o poi si impegnasse veramente in questa direzione, i suoi leader farebbero meglio a ritornare sulla strada aperta dagli accordi di Oslo e riconoscere che “la Cisgiordania e la Striscia di Gaza appartengono entrambe, anche se geograficamente separate, allo Stato di Palestina.” (p. 140).

*Sergio da Mata è professore presso il Dipartimento di Storia dell'Università Federale di Ouro Preto (UFOP). Autore, tra gli altri libri, di Fascinazione weberiana: le origini dell'opera di Max Weber (ediPUCRS).

Riferimento


Moshe Zimmermann. Niemals Frieden? Israele sono Scheideweg. Berlino, Propyläen, 2024, 192 pagine. [https://amzn.to/3K0Jxbk]

Bibliografia


ARENDT, Hannah. Gli scritti ebraici. New York: Scholen Libri, 2007.

CARTER, Jimmy. Palestina: pace non apartheid. Waterville: Thorndike, 2006.

GVARYAHU, Avner. Il mito dell’“esercito morale” di Israele. Affari Esteri, 04 marzo 2024. Disponibile a https://www.foreignaffairs.com/israel/myth-israels-moral-army.

SHEEN, David. Tre decenni dopo la sua morte, il messaggio di odio di Kahane è più popolare che mai. Progetto di ricerca e informazione sul Medio Oriente, 02 febbraio 2021. Disponibile a https://merip.org/2021/02/three-decades-after-his-death-kahanes-message-of-hate-is-more-popular-than-ever/.

STERNHELL, Zeev. I miti fondatori di Israele. Princeton: Princeton University Press, 1998.

TALMON, Jacob L. Missione e testimonianza: saggi politici. Eastbourne: Sussex Academic Press, 2015.

ZERTAL, Idith. Uno Stato sotto processo: Hannah Arendt vs. lo Stato di Israele. La ricerca sociale, v. 74, n. 4, pag. 1127-1158, 2007.

ZIMMERMANN, Moshe. Politisierte Theologie des Judentums. In: WITTE, Bernd; PONZI, Mauro (Hrsg.) Teologia e politica: Walter Benjamin e un paradigma della modernità. Berlino: Erich Schmidt, 2005, p. 150-163.

ZIMMERMANN, Moshe. L'angoscia di Frieden. Il dilemma israeliano. Berlino: Aufbau, 2010.

ZIMMERMANN, Moshe. La storia come strumento: uso e abuso della storia tedesca: una prospettiva israeliana. In: MATA, Sergio da; FERNANDES, Luiz EO; PEREIRA, Luisa R. (a cura di) Contributi alla teoria e alla storia comparata della storiografia. Prospettive tedesche e brasiliane. Francoforte: Peter Lang, 2015, p. 195-208.

ZIMMERMANN, Moshe. Eine Regierung von Fanatikern. La Tageszeitung, 01 nov. 2023. Disponibile a https://taz.de/Moshe-Zimmermann-ueber-den-Nahost-Krieg/!5966884/.

ZIMMERMANN, Moshe. Moshe Zimmermann, storico israeliano: “Il nazionalismo ebraico tende a considerare come suo nemico chiunque non appartenga alla sua nazione”. Il Paese, 04 aprile 2024. Disponibile a https://elpais.com/ideas/2024-04-04/moshe-zimmermann-historiador-israeli-el-nacionalismo-judio-tiende-a-considerar-todo-lo-que-no-pertenece-a-su-nacion-como-el-enemigo.html.

ZIMMERMANN, Moshe. Einen Ausweg suchen. La Tageszeitung, 04 marzo 2024. Disponibile a https://taz.de/Historiker-ueber-Israels-Zukunft/!5993204/.

note:


, Le virgolette sono di Moshe Zimmermann. Dei sette membri della suddetta commissione, solo uno era uno storico – eppure mezza giornata. Il rapporto finale è consultabile sul sito Bundestag: https://dserver.bundestag.de/btd/18/119/1811970.pdf.

, Em La paura della pace, Zimmermann (2010, p. 98) usa un linguaggio più diretto quando parla di “terra rubata”.

, Il Kahanismo, un movimento estremista fondato da Kalhane, sosteneva non solo l'annessione dei territori occupati, ma la rigida separazione tra ebrei e non ebrei, oltre alla sostituzione della democrazia liberale con un regime teocratico, compreso l'uso di metodi terroristici. Yigal Amir, l'assassino del primo ministro Yitzhak Rabin, era un seguace di Kalhane. Dopo la sua messa al bando negli anni ’1980, le idee razziste, xenofobe e fondamentaliste del Kahanismo furono incorporate da altre organizzazioni, che oggi sostengono Netanyahu. Negli anni '1990 Zimmermann paragonò il Kahanismo al nazismo (Haaretz, 28/12/2023). Data la scarsità di studi sull’argomento si veda l’ottimo rapporto di Sheen (2021).


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