Recitare la storia dei palestinesi

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da LEDA TENÓRIO DA MOTTA*

L'incomprensione copre il discorso stesso dei guerriglieri, che non sempre viene tradotto, così che le parole non risaltano di fronte a ciò che si vede.

All’improvviso, negli anni Ottanta del secolo scorso, la diffusa denuncia che le immagini falsificano e cancellano la nostra esperienza del mondo – cfr. Il delitto perfetto di Jean Baudrillard —, e l’insistente lezione sulla necessità di tenerli lontani dalle cose reali si è fatta strada nel cinema. Focalizzato sulla questione etica della rappresentazione della catastrofe nel contesto post-Olocausto, intellettuale di parola, tanto da essere legato al gruppo di Sartre e alla rivista Tempi Moderni e interlocutore particolarmente vicino di Simonede Beauvoir —, è stato allora pubblico rifondare su nuove basi la nostra prevenzione contro le icone e gli idoli. Tanto più energicamente in quanto cominciò a coinvolgerli nella questione etica, piuttosto che estetica, del discorso della testimonianza. Se già ci manca l’apparato concettuale per adempiere al compito di dare un nome al trauma assoluto – ha ipotizzato –, quali possibilità potrebbe avere il nostro immaginario vanitoso, dato l’estremo?

Tutto era iniziato inaspettatamente, circa dieci anni prima, quando colleghi altrettanto influenti dei vertici del governo israeliano gli avevano rivolto una richiesta che non poteva rifiutare. Che avrebbe approfittato della sua posizione nel circolo filosofico di influenza internazionale al quale apparteneva, come ebreo francese, per schierarsi in difesa dello Stato ebraico che stava emergendo, a quel tempo, dalla Guerra dei Sei Giorni . È alla luce di questa esigenza e senza aver avuto in precedenza alcun coinvolgimento con il cinema – a differenza della nota collaborazione di Sartre alla sceneggiatura di Freud além da alma di John Huston —, che in risposta a Tel Aviv, si propone, subito, di girare un breve documentario, da intitolare, nel rigoroso rispetto del significato politico del progetto: Perché Israele?

Il film è uscito nel 1973. Presenta scene inedite della vita di un ebreo della diaspora tornato sul suolo ancestrale, 25 anni dopo gli eventi che ne motivarono il grande ritorno. In particolare, il movimento degli intellettuali immigrati nella prima ora, dovuto alla guida spirituale del processo, e la situazione degli ultimi ebrei arrivati.

È dopo questo che il suddetto apprendista stregone decide di fare qualcosa di molto più grande. Qualcosa non solo molto più lungo, ma in tempo inverso rispetto a quello di Perché Israele. Un panel di 10 ore per concentrarsi non su ciò che stava accadendo attualmente in Medio Oriente, ma sulla causa immediata di quanto stava accadendo, il ritorno degli ebrei nella loro prima terra. Ciò richiedeva, più che una panoramica delle condizioni attuali di una problematica costruzione statale, che ha innescato una crisi geopolitica nel mondo contemporaneo, un’esplorazione approfondita del precedente passaggio degli ebrei ora restituiti dalla macchina da guerra nazista. Ciò comportò quindi la ricerca dei sopravvissuti ai campi di concentramento, che erano ancora numerosi e presenti in tutta Europa.

Stiamo parlando di Shoah, di Claude Lanzmann. Un'avventura filmica che non solo collocherebbe il regista improvvisato al centro del cinema d'autore e dell'attenzione dei cinefili, in tutto il mondo, ma anche in Brasile, si tradurrebbe nell'inquietante stile documentaristico di Eduardo Coutinho. Un babele coro di voci dei salvati dal Lager, in queste circostanze individuati e chiamati dalla redazione del Tempi moderni da aprire all’uomo con la macchina fotografica in mano che era diventato la ferita delle loro vite.

Restauro commemorativo guidato dal senso del dovere di dire, dalla forza di un regista-direttore che lavora, quanto più freddamente possibile, vedere la sua fermezza davanti al barbiere di Treblinka, quando chiede di smettere di spiegare cosa fosse esattamente facendo, ai piedi delle camere a gas, nella posizione di preparare la toilette per coloro che stavano per morire. Non solo severo su cosa prendere dai partecipanti, cioè i loro ricordi terribili, ma su cosa modus operandi, interamente orientato alla testimonianza, scartato ogni affetto. Nel 1985, al momento del suo lancio, a Parigi, le nuove generazioni si riunirono in gruppi per ascoltare, più che guardare, queste ore e ore di deposizione, in ascolto riverente.

Et versare causa: Shoah è emerso come un punto di svolta cinematografico. All’improvviso, ha scambiato i film di guerra americani, che banalizzavano la barbarie nazista nel circuito dell’industria culturale – dove è stato coniato il termine sacrificale “olocausto” – per un documentario molto serio. La parola greca a sfondo religioso usata per evocare i campi di sterminio è stata sostituita dalla parola ebraica “Shoah”, riferita solo al disastro, alla calamità, al collasso. Cambiava la prospettiva delle prove tangibili dei file di immagini ottenute dai cineasti imbarcati sulle truppe alleate attraverso la linea vocale. La presentabilità idolatra dell'orrore inarrestabile attraverso la tavoletta del mosaico verbale.

Da allora, considerando il genocidio nazista come qualcosa di quasi inintegrabile – in pratica, come imfigurabile, a giudicare dalla focalizzazione della parola –, una corrente conosciuta come catastrofe-e-rappresentazione, all'origine di un'altra corrente chiamata la letteratura-testimoniale, che aggiungerà alle argomentazioni dei filosofi dello spettacolo e del simulacro, secondo i quali nel mondo contemporaneo in rovina tutto è per gli occhi, le decorose possibilità di un cinema senza cinema.

Se teste parlanti de Shoah Dopotutto non creano un'immagine. Insieme a ciò, assocerà l'idea di rovina storica, con la quale i filosofi della critica sociale avevano negativizzato la dialettica marxista, alla catastrofe ebraica, cominciando a misurare questa incidenza catastrofica con l'intera catastrofe o - come un nuovo iconologo come Georges Didi direbbe — Huberman —, a tutta la catastrofe.

In un momento in cui i conflitti tra arabi ed ebrei si stanno intensificando in Medio Oriente, vale forse la pena notare che, proprio come il trauma del nazismo, per quanto estremo possa essere, non è l’intero trauma – o l’intero trauma –, né lo è il cinema della storia traumatica deve essere ridotto a Shoah. Ci sarebbero altri crolli. Tanto che, appena entrato nel post-nouvelle vague detto Dziga Vertov, Jean-Luc Godard comincia a considerare, da parte sua, un altro doloroso corso degli eventi. Gli eventi catastrofici che hanno sradicato anche i palestinesi dalla loro terra. Un esodo non previsto nel kolossal americano. IL nakba.

Infatti, è nel contesto delle rivolte estetiche successive al maggio 68, nel meno conosciuto intermediario vertoviano della sua produzione, che perpetrazioni come Vent d'Est — una specie di western di sinistra in cui Glauber Rocha appare chiedendo se qualcuno conosce il cammino della Rivoluzione —, che il cineasta di molestato Viene voglia di registrare un'altra testimonianza politica, uguale e diversa da quella che ne fa la fama Shoah.

Anche in questo caso tutto viene sparato dall'esterno. Nel 1970, due anni prima dei contatti tra la Knesset israeliana e il quartier generale esistenzialista, anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina si rivolse al cineasta molestato una richiesta. Per mostrare al mondo cosa sta succedendo in Giordania, dove tornarono gli esuli dalla guerra del 1967. Come Lanzmann, Jean-Luc Godard accetta la sfida. Lascia Parigi con il gruppo di cui ora si circonda, diretto ai campi dei fedayn stabiliti nel regno di Saddam Hussein.

In questa fase lancia un primo tentativo di lungometraggio dal titolo Jusquà la Victoire. In Giordania, la sua squadra, di cui fa parte l'attivista Jean-Pierre Gorin, fa il punto della situazione, intervista i guerriglieri, filma i civili e rimuove le macerie. Ma le cose si fermano qui. Intanto i Fedayeen e il governo giordano litigano, i palestinesi vengono espulsi dal Paese, il materiale viene archiviato.

Verrà riutilizzato, in seguito, in un secondo progetto, esteticamente ancora più ardito, di puro assemblaggio. Stiamo parlando di Qui e altrove, che venne realizzato anni dopo, nel 1976. Come documento politico, è un colpo di stato artistico che prende il falso racconto o disarmante la linearità narrativa che è il marchio di fabbrica di Jean-Luc Godard. Il film si apre, in modo parabolico, con una sfilata di comparse che mostrano foto di persone a una macchina fotografica montata su un treppiede.

Mentre la voce di Jean-Luc Godard, parlando da fuori campo, riflette sul fatto che tempo e spazio non sono gli stessi nei fotogrammi che vediamo e nella vita reale là fuori. Si prosegue con sequenze catturate nell'ambientazione giordana, applicando la stessa relativizzazione a quest'altra realtà fotografabile. Oscilla tra l’avanzare e il ritirarsi, il dire e il non dire affatto. Il titolo del documentario, del resto, parla di questo. Come superare la distanza tra qui e là? Il linguaggio che inevitabilmente separa chi entra in comunicazione? In quest’altro scenario vediamo, per ore, una bambina recitare una poesia, ad alta voce, in mezzo alle rovine, simili a quelle della Striscia di Gaza oggi, in una lingua che non capiamo. Questo malinteso è coperto dal discorso stesso dei guerriglieri, che non sempre viene tradotto, in modo che le parole non risaltino di fronte a ciò che si vede.

Durante il passaggio ebbe luogo quella che doveva essere un'operazione di ricognizione degli accampamenti fedayn raddoppia in riconoscimento delle condizioni di visibilità dell'operatore. Ben riassunto nel famoso slogan che esprime la tensione dialettica tra vedere ed essere, e con essa il realismo impossibile al quale Godard non ha mai smesso di fare riferimento, ma al quale fa riferimento sempre più insistentemente, col passare del tempo, non solo per continuare ad accusare le rappresentazioni arbitrarie, ma per rivendicare una montaggio capace di rimuoverlo poeticamente: “questa non è solo un'immagine, è solo un'immagine".

Questa non è l'unica replica del progettista dalle immagini di Jean-Luc Godard alla proverbiale verbalità di Lanzmann. Considerato il capolavoro della maturità dell'artista, Storia(i) del cinema, dal 1986, replicherebbe tempestivamente il Shoah con altre dieci ore di incursione nel paesaggio sensibile del Novecento, attraverso collage di film, fotogrammi, dipinti, poesie. In questo mosaico multimediale, insieme all'iscrizione sullo schermo di una frase lapidaria secondo cui “quattro fotogrammi sbiaditi salvano l'onore della realtà”, ci ritroviamo con un inquietante collegamento immaginario.

Le sequenze iniziali mostrano sovrapposizioni tra fotografie allora poco conosciute, scattate ad Auschwitz, mesi prima della caduta dei campi, con un dispositivo introdotto clandestinamente dalla resistenza polacca, e niente meno che scatti di Elisabeth Taylor In Un posto al sole di George Stevens. Il che spiega: prima di diventare un mostro sacro di Hollywood, quest'ultimo, che altri non è che il regista di Shane (Anche i bruti li adorano), era passato attraverso i campi di concentramento, come cameraman incorporato a Desembarque, nel 1945. Fu con questo bagaglio che tornò a casa e si dedicò alla finzione.

Jean-Luc Godard approfitta di questo fatto per riunire due sfondi scuri. Gioca con l'idea che ciò che l'attrice di Stevens incontra, protagonista di una delle sue storie più tristi, di fronte a un altro scenario di morte, in questo caso coperto anche dal paesaggio verdeggiante che appare sul luogo di un crimine, non può fare a meno essere confuso dall'orrore incontrato dal regista da Buchenwald.

In tal modo, non solo conferisce valore affettivo alle immagini che Shoah scarta, ma considera il suo risorgere come un sintomo, la sua formulazione del , il tuo inconscio. Li salva dall'essere semplicemente impressionanti e, soprattutto perché il secolo del nazismo è il secolo del cinema, li rende partecipi della comprensione del cammino della storia.

In un momento in cui la recrudescenza dei conflitti in Medio Oriente riporta sulla scena il Libano, forse è anche importante ricordare che lo stesso entourage Il Sartreano che ci ha lasciato in eredità le voci di Lanzamnn ci lascia la saga araba del poeta bandito, omosessuale e machete ai margini della società francese che Sartre, proprio per questo, definì un santo: Jean Genet. Perché accade che, nel suo eterno pellegrinaggio al di fuorir, dopo essersi schierato per le Pantere Nere americane, Genet si unì ai palestinesi.

Era in Libano nel 1982, durante i massacri di Chatilla e Sabra, alla periferia di Beirut. Ha assistito ai bombardamenti che ora stanno tornando ad illuminare il cielo della città. Nello stile intimo e abbagliante dei suoi scritti, così in contrasto con il modo direttivo di Lanzmann, egli registra l'immensa desolazione di cui fu allora testimone, in Un prigioniero si innamoròx, il suo ultimo diario, del 1986. Prima di essere sepolto in Marocco, nel 1987, fece sapere di voler essere l'Omero di quest'altra guerra. A questo proposito scrive in modo commovente che: “non essendo un archivista, uno storico o qualcosa del genere, avrò raccontato la mia vita solo per recitare una storia dei palestinesi”.

E considerate che, anche perché stiamo parlando di perdenti, stiamo parlando di Troia. Secondo Genet, non per desiderio di territorio o per sogno di un nuovo ordine, ma per vergogna e rabbia.

*Leda Tenório da Motta È professoressa presso il Programma di studi post-laurea in Comunicazione e Semiotica presso la PUC-SP. Autore, tra gli altri libri, di Cento anni della Settimana dell'Arte Moderna: Il gabinetto di San Paolo e l'evocazione delle avanguardie (prospettiva). [https://amzn.to/4eRXrur]

Riferimenti


DICHY, Alberto. Le valigie di Jean Genet. Parigi: Gallimard, 2020.

DIDI-HUBERMAN, Georges. Immagini dopo tutto. Tradotto da Vanessa Brito e João Pedro Caxopo. Lisbona: Imago, 2012.

GODARD, Jean-Luc. Storia(i) del cinema. Parigi: Gallimard, 1998.


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