da JOSÉ CRISÓSTOMO DE SOUZA*
La “filosofia dell’USP”, il profilo dei suoi rappresentanti, il suo modello di lavoro, la sua discussione, sono più reali che ipotizzati
Il mio primo contatto con la “filosofia USP” è avvenuto nel lontano 1969, quando il suo corso post-laurea, il primo nel Paese, non era ancora nemmeno accreditato. Stavo assistendo alla cerimonia di laurea dell'UFBA, quando José Arthur Giannotti e Oswaldo Porchat sono arrivati qui, mano nella mano, portando la buona notizia della formazione in filosofia come lettura “interna”, “tecnica”, “strutturale” dell'opera dei grandi filosofo, storico-canonico. Da qui hanno preso due promettenti neolaureati per formarsi nel nuovo metodo/idea, che sono tornati a fare gli insegnanti, uno dei quali era mio fratello Vítor, che non si aspettava una simile ascesa.
Andando avanti, intendiamo questa visita come un'estensione della missione francese che ha implementato la “filosofia USP”, José Arthur Giannotti e Oswaldo Porchat come padri fondatori nazionali, che hanno studiato in Francia con Martial Guéroult e Victor Goldschmidt, l'autore di Tempo logico e tempo storico nell'interpretazione dei sistemi filosofici, che può ben essere preso come l'epitome della nuova ricetta, della filosofia come storia della filosofia, filosofia sempiterna, filosofia esemplare di sistema.
Tra i professori uspiani citati da mio fratello, tutti ammirevoli, c'erano anche Marilena Chauí, Gilda de Mello e Bento Prado Jr. "La gente è di sinistra, ma non esattamente marxisti, piuttosto marxologi", mi disse Vítor, che scelse di studiare Friedrich Nietzsche, un filosofo che, sotto la dittatura, avrebbe potuto svolgere il ruolo di Karl Marx, questa era un'idea, come in una certa misura potevano farlo altri esponenti della filosofia europea, a monte e a valle dell'autore di La capitale. Dopotutto Marx intendeva la realizzazione, nel mondo, di quella tradizione, soprattutto tedesca, e non la sua soppressione, giusto?[I]
Da allora ho acquisito maggiore consapevolezza della “filosofia USP”, del profilo dei suoi rappresentanti, del suo modello di lavoro, della sua discussione, che era più discussa che presunta. Solo molto più tardi ho potuto compiere studi post-laurea a San Paolo, tra Unicamp e USP, dopo un interregno di più di tredici anni, in cui ho dovuto affrontare la dittatura (dopo l'AI-5 non c'è stato scampo), pro domo mea Stesso. Tra pratica (democratico-popolare) e teoria (non accademica), è stata una grande scuola, in un'epoca in cui, anche così, ho partecipato alla pionieristica (1976) Società per gli Studi e le Attività Filosofiche (SEAF), con un Intenzione “strutturalista”, con Anchieta, Pegoraro, Chasin e Marilena.
Di quella prima visita di José Arthur Giannotti, ho conservato la sua metafora, quasi mistica, del nuovo metodo/idea: “Fondersi con il filosofo studiato, fino a vestirlo come la propria pelle”, che comporterà poi “la dolorosa sfida di spogliarlo”, e poi fare filosofia. Una vera ascesi, quindi, di cui una parte è stata il non chiedere la propria verità materiale, il non “trovare” nulla per sé, non prima del remoto secondo passo. Una metafora che anticipava il dilemma che la nostra comunità filosofica accademica si sarebbe poi trovata ad affrontare, e che, a quanto mi risulta, si trova ancora ad affrontare.
Sopravvissuto e iscritto all'Unicamp, il cui modello di selezione era più lontano da ciò che Safatle, giustamente, criticava come “affiliazione” (Colonna Anpof, 19/10/2016), ho iniziato la mia esperienza filosofica a San Paolo nel 1983 con una visita a José Arthur Giannotti, in cui mi ha generosamente mostrato il manoscritto del suo ambizioso Lavoro e riflessione, sostenendo, davanti alla mia faccia stupita, che “non sono solo i filosofi europei che sanno scrivere ciò che non viene capito”. Mi sono congratulato con lui. Per pura coincidenza, quello stesso anno, sotto la guida di José Arthur Giannotti, venne creata l'Associazione Nazionale di Studi Perfezionati in Filosofia, da lui per primo presieduta, e iniziarono i suoi memorabili incontri biennali, che ho potuto seguire fin dall'inizio, per decenni.
Insieme all’Anpof, con il sostegno di Capes e CNPq, è iniziata la grande espansione nazionale dei nostri studi post-laurea, “da un nucleo centralizzato”, come racconta il nostro collega Vinicius Figueiredo, che “ha dato ai primi programmi un ascendente intellettuale e istituzionale sugli altri” (V. Figueiredo, Colonna Anpof, 27/07/23). Di questo nucleo faceva parte, ad esempio, anche l'URGS, che però era più direttamente tedesca, si mostrò meno inibita filosoficamente e priva dello stesso spirito missionario franco-paulista. Il nucleo del nucleo era, quindi, la Filosofia dell’USP, comprensibilmente egemonica in questo processo.
Si è trattato, in ogni caso, di un ampliamento segnato dalla “nostra differenza”, dal “nostro metodo”, cioè dalla “enfasi sulla lettura intensa delle opere” (più apologetica che critica-appropriativa, direi), volta a “individuare la sua articolazioni interne” (V.F., ibid.). Ciò ha portato all'orientamento delle monografie alla "grandi questi francese” (Giannotti, 1999),[Ii] che ha rappresentato i filosofi canonizzati, e il prezioso “consolidamento di un lessico filosofico, attraverso attente traduzioni”.[Iii]
Ciò che rappresenterebbe presumibilmente una “rottura” con il nostro “scapolo e clericalismo” (V.F., ibid.) – in effetti, storico. Ciò comporterebbe anche una rottura con la “storia panoramica” della filosofia (nella quale purtroppo siamo ricaduti più tardi) e, innanzitutto, una rottura con tutto ciò che era stato originariamente scritto in portoghese. Anche se ciò implicava, José Arthur Giannotti si sarebbe poi pentito di “rifiutare la creatività di un Oswald [de Andrade]” e “il saggismo e l’inventiva di un Sílvio Romero” (G., ibid.).
Per un po' più di contesto (con uno sguardo a treppiede): era un'espansione che ci metteva in contrasto, (i) a destra, con l'Instituto Brasileiro de Filosofia, genericamente conservatore, di Miguel Reale, legato a Kant, al culturalismo e al pensiero brasiliano, e (ii ), a sinistra, alla filosofia, o alle filosofie, dell'ISEB (Instituto Superior de Estudos Brasileiros), più politica e nazionale, subito chiusa dalla dittatura nel 1964, presumibilmente meno “tecnica” e “classista”, coinvolta con un insieme simile di influenze filosofiche, prevalentemente tedesche, ma presumibilmente con maggiore autonomia rispetto ad esse.
In questo contesto, il “Seminário d’Or” uspiane – e “strutturalista”La capitale”, José Arthur Giannotti e FHC in testa, creato prima del Regime Militare, impressionerà i nostri colleghi delle scienze sociali per il suo superiore tecnicismo logico-metodologico, e, più tardi, attraverso loro, contribuirà alla costituzione, con la ridemocratizzazione di Golbery , di una nuova sinistra brasiliana, “socialdemocratica”, PT/PSDB. Una sinistra che, infatti, anche oggi, fatica a considerare la questione nazionale e l’illogico mix di rapporti produttivi e socialità che di fatto si vive sul territorio, perché La capitale Non è un buon orientamento politico, né lo è il suo correlativo umanesimo.
A San Paolo, tra Unicamp e USP, ho conosciuto il meglio del nuovo metodo/idea, che, nelle sue varianti, anche nelle opposizioni, è stato lì ben rappresentato, insieme al suo dibattito, negli anni successivi. Ho giocato faticosamente al gioco, con grande beneficio accademico, perseguendo segretamente il mio dottorato diretto, che ha avuto successo. Ho avuto il privilegio di studiare con Salinas, Brum Torres, Monzani, Fausto Castilho, Carlos Alberto, Paulo Arantes, Debrun, Marcos Müller (caro consigliere). Gli ultimi quattro, più il gaucho Cirne Lima, costituivano il mio pannello, la tesi in cui ho cercato (500 pagine, 6 lingue) di aggirare il lato “internalista” del metodo, attraverso una lettura critica e detrascendentalizzata di Marx. (non solo la sua), implicando una propria posizione mascherata.
Nel corso dei decenni successivi, questa filosofia uspiana, erudita, letta e storica, cercherà di diventare più interessante, interrogativa e produttiva. In primo luogo, Oswaldo Porchat, rifondatore, annunciò che, divenuto uomo comune, avrebbe creato una filosofia adattata alla vita comune, non più una storia della filosofia goldschmidtiana, e avrebbe formato i suoi studenti a discutere ed elaborare questioni e temi, non autori.
Marilena Chauí ha creato, in pratica, una filosofia politica democratica, contemporanea, non eterna. Carlos Alberto ha spinto Guéroult e Goldschmidt, il suo “passato come presente”, dalla parte della “storia stultitiae”. Paulo Arantes ha esposto, come filosofia di commento, il suo “dipartimento francese d’oltremare”. Ricardo Terra suggerisce di avvicinarsi al presente, considerando le ricezioni del commentato filosofo storico. E Ricardo Musse capì che i nostri filosofi accademici più “eccellenti”, Balthazar in testa, esibivano una competenza di semplice graduazione quando interrogati su qualsiasi argomento tematico.
Tutto questo, però, mi è sempre sembrato di ricorrere all'autorità indiscutibile dell'eterno Autore, classico o moderno, che poteva anche essere Marx, in quanto critico assoluto del capitalismo o, insieme Theodor Adorno, filosofo assoluto della storia del capitalismo. il nostro tempo. Tra tutti, però, José Arthur Giannotti è andato avanti coraggiosamente, con un progetto filosofico provvisoriamente autoriale, anche con una messa in discussione apparentemente più radicale del metodo/delle idee uspiane.
Nel 1999 (cfr. la sua “Testimonianza”), il nostro filosofo no.1 non credeva alla riduzione del filosofico alla “disciplina del testo” e all’”alienazione nell’Autore”, ha dichiarato che “il dipartimento [dell’USP] si è esaurito”, che “questo pensiero tecnico è diventato una rigidità”, e ha suggerito che i suoi studenti “abbandonino il grandi questi Francese” e “cercava il saggismo [precedentemente criticato]”.
Allora, ormai ecumenico, José Arthur Giannotti riconobbe finalmente il visitatore Vilém Flusser come filosofo, cosa che lo staff dell’IBF aveva già fatto molto tempo prima, del quale, ora riconosceva, “avevamo una visione piatta” – quindi, a fortiori, sempre dell'ISEB, vero? Questo ritardo, naturalmente, rafforzò il mio sospetto che, con quella nuova-vecchia ideologia, non saremmo stati in grado di riconoscere un filosofo quando ne avessimo visto uno davanti a noi, e tanto meno di produrlo. Dopo tutta questa recensione, possiamo solo immaginare dove andrebbe a finire la critica di José Arthur Giannotti al “metodo Uspian” e cosa metterebbe al posto del suo “esaurimento”, in linea con la “sveglia della logica” e la “critica della razionalità classica, che ha abbracciato nel suo ultimo libro (2020), di Heidegger e Wittgenstein.
La cosa più rilevante, però, resta che nessuno ha cercato quanto José Arthur Giannotti di arrivare ad una propria costruzione filosofica, in questo caso attraverso un’esplorazione/aggiornamento logico-ontologico di Marx, iniziata però “studiandolo come [lo strutturalista] Guéroult commentò Cartesio” (Lebrun) – che segnerà, credo, tutto il suo sviluppo successivo. Il nostro filosofo no. 1 continuò logico-trascendentale fino alla fine, o quasi, prima con Husserl, Kant sempre sullo sfondo, mentre la sua disamina de-shegelianizzante della dialettica di Marx lo elevò a vette mirate di tecnicismo e di difficoltà idealista-tedesca, infine, in modo transmoderno, a Heidegger .
In questo itinerario affermava il suo postulato, curiosamente storicista, secondo cui una buona filosofia deve corrispondere alla logica “più avanzata” del suo tempo, da qui Wittgenstein (kantianizzato), il cui Lebensformen Giannotti ha giustamente cercato di allargarsi – come capitalismo alla Marx. Con quello, l'avremmo fatto La capitale logicamente rimasterizzato e un Marx ontologicamente secolarizzato, alla fine con risorse wittgensteiniane e heideggeriane. Quasi una svolta filosofica pratica completa, detrascendentalizzante, verso un logos pratico-mondano.
Viene fuori la logica dialettica ed entra la grammatica, presumibilmente proveniente dallo stesso capitalismo, in un percorso in cui José Arthur Giannotti ha seguito a modo suo la tradizionale, purtroppo linguisticocentrica, contemporanea cancellazione della “filosofia del soggetto”, echeggiando allo stesso tempo una certo movimento pragmatizzante di quei due super-Majors, Wittgenstein e Heidegger, il cui approccio insolito è stato comune nella filosofia metropolitana del nostro tempo. Se fosse stato meno logico-trascendentale, Giannotti sarebbe stato interessato all'indecisa svolta pragmatista della teoria critica marxiana tedesca, a un cambio di paradigma, che almeno ha saputo lasciarsi alle spalle la sterile complicazione adorniana.
Allo stesso tempo, José Arthur Giannotti non riusciva a capire, ad esempio, il 1a tesi “ad Feuerbach”, di Marx, che tradusse al contrario, né il significato della famosa sesta tesi, che cercò di chiarire attraverso un'irragionevole complicazione logica. E ha attribuito i difetti nella sua traduzione del Trattato, plausibilmente, al fatto che ancora “non conoscevamo il panorama in cui l’autore era inserito” – cosa che evidentemente nessuna “lettura interna” gli avrebbe dato, e che fino alla fine credo non sia riuscito a realizzare (vg. il “panorama” Peirce-James-Ramsey-Wittgenstein). Alla fine, ancora invischiato nell’alienazione, nel feticismo e nell’illusione necessaria, egli sfuggì, a quanto ho capito, alla portata costitutiva del problematico fondamento normativo di Marx, da qui anche l’opportunità per una ricostruzione detrascendentalizzata, non rappresentazionalista e non dualista del suo materialismo pratico e interattivo, con conclusioni politiche meno semplici.
E adesso? Dopo tutta questa storia, come attraverso un percorso irrisolto, un dilemma non affrontato, i problemi della nostra filosofia, generalmente considerati, non mi sembrano essere gli stessi di quelli delle comunità filosofiche nazionali che effettivamente producono filosofia. Non sorprende che, dopo tutto, non abbiamo i nostri filosofi, civili, come, mutatis mutandis, Charles Taylor, R. Jaeggi, V. Descombes, K. Wiredu, Linda Alcoff, Vattimo o Timothy Williamson.
Invece, genericamente, continuiamo a esibire – di fronte alla sfida delle superficiali “varianti del proselitismo contemporaneo” (anche strutturalista, franco-americanizzato, linguistico e senza soggetto), come pseudo secondo passo del metodo – il deficit di autonomia di pensiero e di elaborazione argomentativa, nella quale apparentemente eravamo formati. In molti casi, la nostra fuga dalla considerazione critica del pensiero importato (oggetto ricordo Guerreiro Ramos e Roberto Schwarz), e la nostra paura di filosofare su temi e problemi, non fanno altro che riprodursi, ora in un modo apparentemente non eurocentrico, antipatriarcale, non occidentale, etnico, sempre lo stesso atavico Dixerunt Magistri, fuori posto.
Nonostante ciò, alla fine, è il nostro coraggioso e laborioso José Arthur Giannotti, all’estremità di questo sviluppo incompiuto, a “demunicipalizzare” e “concludere”.[Iv] Abbiamo cioè sia (a) la sua rivisitazione logico-ontologica di Marx per i nostri giorni, sia la sua critica alla nozione classica di razionalità, nonché (b) la sua disposizione metafilosofica a riflettere sullo stato della filosofia e sul nostro itinerario seguito. finora aeb come due lati da mettere in relazione l'uno con l'altro. Meglio ancora, abbiamo Marx stesso, con il posto davvero unico che ancora occupa tra noi e in tutta la storia, per ricostruire, modificando i suoi presupposti dichiarati, una migliore “filosofia critica”, per il nostro tempo, le circostanze e le pratiche: un punto di vista materialista, sensuale, artefattuale, della pratica come poiésis, post-giannottiana, che fa a meno di soggetti metafisici, nonché di linguaggicentrismi e mode più metropolitane.
Qualche anno fa, la nostra ormai quarantenne Anpof, sotto la presidenza di un altro collega uspiano, propose alla comunità filosofica brasiliana la sfida di raggiungere finalmente la maggioranza filosofica, il cosiddetto secondo passo, attraverso uno sforzo produttivo, di autonomia, attualità, attualità, alla quale certamente non rinuncerà alla variegata esperienza vissuta finora. In effetti, per una tale sfida, una comunità nazionale di ricerca ed elaborazione – plurale, (auto)critica, decolonizzata, con una vocazione all’indipendenza e alla creazione – potrebbe essere ciò che conta di più. Sotto la benedizione rifondatrice di José Arthur Giannotti e Oswaldo Porchat, ancora una volta mano nella mano, ma anche di tante altre persone.[V]
*José Crisóstomo de Souza È professore ordinario presso il Dipartimento di Filosofia dell'UFBA. Autore, tra gli altri libri, di La questione dell’individualità (Editore Unicamp).
note:
[I] Nel 1976, all'età di 32 anni, Vitor Hermenegildo de Souza ci lasciò senza il suo talento.
[Ii] Cfr. Giannotti, “Testimonianza”, in Bernardo & Mendes (org), Vilém Flusser in Brasile, SP: Relume-Dumará, 1999.
[Iii] Per usare i termini assertivi di Giannotti: “Ci interessava creare un linguaggio filosofico brasiliano” (ibid.); cioè tradurre in portoghese il vocabolario della filosofia classica europea.
[Iv] Giannotti, con buon umore, decise di definirsi “filosofo municipale”, poiché la sua opera non costituiva un riferimento rilevante al di fuori del comune di San Paolo.
[V] In occasione del 90° anniversario dell'USP, la nostra università nazionaleo. 1, e il suo prezioso FFLCH.
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