da CICERO ARAUJO*
Considerazioni sul pensiero politico del filosofo
Remare controcorrente: nulla esemplifica meglio questa immagine della posizione di Ruy Fausto come intellettuale di sinistra. In qualsiasi momento, nel mezzo del cammin della sua vita, giunse alla conclusione che la critica del capitalismo era insufficiente per comprendere il dominio sociale nel nostro tempo. "Radicalmente insufficiente", ha detto una volta. Lui stesso pensatore critico, non ha mai dubitato che il capitalismo fosse uno dei pezzi centrali del puzzle.
Tuttavia, mentre aggiungeva altri tasselli del Novecento per fare un bilancio, si rendeva conto che la fissazione esclusiva per la critica del capitalismo finiva per lasciare molte domande senza risposta. E, soprattutto, ha generato un effetto politico paralizzante, bloccando una più profonda messa in discussione (radicale) dei problemi che la stessa sinistra doveva affrontare, se voleva riaccreditarsi come alternativa per il futuro del Brasile e del mondo .
Ruy non ha mai affrontato superficialmente i temi che aveva in agenda per la riflessione. Tanto per cominciare, sapeva molto della critica del capitalismo, essendo diventato uno dei principali studiosi brasiliani (se non il più grande) dell'opera di Marx e della tradizione marxista, proprio la tradizione che ha portato avanti questo sforzo. A cui aggiunse una speciale attenzione alla politica, non solo teorica, ma esistenziale, acquisita fin dalla giovinezza, che diede enorme vivacità alle sue elaborazioni. Per questo si teneva molto ben informato sull'attualità, oltre al suo interesse e al suo enorme gusto per lo studio della storia, specialmente di quei tempi e luoghi che riteneva più rilevanti per la sua riflessione filosofica. Queste diverse dimensioni, invece di dividere la sua vita in esigenze opposte, esistevano dentro di lui come partner inseparabili.
Non posso rendere giustizia, in questo breve articolo, alla sottigliezza e alle sfumature di tutti gli argomenti che contano per comprendere il suo percorso di intellettuale pubblico. Mi limiterò a fare qualche appunto sui suoi rapporti con la sinistra, per quanto riguarda il dibattito teorico e alcune questioni pratiche, mescolando i riferimenti ai suoi ultimi scritti – che conosco meglio – con i ricordi delle nostre conversazioni. Questi ultimi, ovviamente, sono tutt'altro che equivalenti al rigore e alla complessità del testo scritto; Li evoco solo per dire qualcosa sull'essere profondamente politico che è sempre stato, forse per suggerire un ulteriore livello di significato al suo pensiero.
Il ruolo della critica e alcuni “punti ciechi” del marxismo
Sappiamo che la storia della sinistra mondiale è la storia di una famiglia allargata, molto variegata e dai confini fluidi, al punto da rendere controversa la sua stessa identità. E anche che è una storia altalenante, con alti e bassi.[I] Accompagnando queste oscillazioni, più volte si è tentato di provare il suo funerale. Tuttavia, più volte, ugualmente, si è giunti alla conclusione che la notizia della sua morte fosse prematura... come direbbe il comico Marx. E questo, suppongo, è dovuto non tanto a una testardaggine indifferente alle battute d'arresto ea una realtà inospitale, quanto alla capacità di imparare da entrambi e rinnovarsi.
Le forze sociali concorrenti esisteranno sempre come risultato della stessa asprezza del dominio sociale. Ma non sono destinate, solo perché contestano, a diventare un'opzione politica credibile e desiderabile. A questo punto occorre riconoscere che anche la destra – famiglia eterogenea come la sinistra – si è dimostrata capace di adattarsi ai tempi e di presentarsi, almeno in alcuni suoi aspetti, come opzione ribelle e contestatrice. Non è dunque scritto nelle stelle che l'alternativa a una certa forma di dominio sia, necessariamente, un tentativo di emancipazione. Questo è il primo articolo di fede di Ruy Fausto.
Ne consegue un certo modo di intendere la critica della sinistra, che non si accontenta di esprimere solo l'anticonformismo al dominio sociale. Impone la sfida di essere accompagnato da un giudizio riflessivo che metta in discussione alternative frustrate, alternative a queste alternative e modi di articolarle nelle lotte del presente.[Ii] Pertanto, la critica non significa solo pensare, ma pensare con conseguenze; Voglio dire, la conseguenza che è figlia del senso di responsabilità per ciò che si pensa e dice, ciò che oppone la critica alla pura e semplice levità e le fornisce una sorta di ancoraggio morale. Questo è il secondo articolo di fede del nostro amico.
Ma la responsabilità comporta anche una zavorra politica. La critica di sinistra non si accontenta di essere un solitario scarico di coscienza, come se bastasse dire “te l'avevo detto…”. È, ora, la conseguenza che si impegna, irradiando il proprio disagio, a modificare lo stato d'animo della società, quasi estrovertendo quel turbamento interiore che porta a risvegliare la coscienza morale. In fondo è un appello agli altri, una richiesta di aiuto al mondo, anche se sotto forma di pensiero contorto. Fare critica è un'impresa collettiva – o così dovrebbe essere, perché abbia un effetto politico. Questo era il loro terzo articolo di fede.
Si noti, però, il “contratto” di responsabilità reciproca in esso implicito: un impegno reciproco a dare ea ricevere critiche con le rispettive conseguenze, finalizzate appunto a costituire un comune campo d'azione. Questo è forse il passaggio più difficile, perché qualifica l'alleanza da stringere, costringendola a trascendere i rapporti privati per configurarsi in un progetto pubblico. Pubblico sì, ma fatto di persone in carne e ossa, che investono i loro nomi in una trama che li espone due volte, sia quando fa che quando riceve critiche. Trama assolutamente necessaria, ma non sempre piacevole. Nonostante il fardello che lo stile incisivo della critica gli portava – soprattutto quando richiedeva di anteporlo alle amicizie personali – Ruy cercava di prendere alla lettera i termini di questo impegno.
Ma in che senso queste osservazioni si riferiscono al contenuto stesso della discussione, a partire dal dibattito teorico che si è svolto? Qui è necessario parlare un po' dei suoi rapporti con il marxismo e con il pensiero di Marx stesso. La rottura di Ruy con questa stirpe intellettuale, da lui considerata la più influente all'interno della sinistra dalla fine dell'Ottocento, non fu un fulmine a ciel sereno, frutto di una divergenza puramente speculativa e astratta. Piuttosto, è il risultato del test storico a cui è stato sottoposto, in particolare durante tutto il XX secolo. Ciò nonostante, Ruy mantenne una posizione di rispetto per il pensiero di Marx, conoscendolo, come lui, in tutta la sua densità. Di più: ha sempre considerato la sua critica al capitalismo un solido punto di partenza.
Per molti anni ha cercato la migliore lettura possibile dell'opera e dell'eredità del grande pensatore tedesco, cercando di svelare come la forma logica del suo discorso – ereditata dall'idealismo tedesco, in particolare dalla dialettica hegeliana – si intrecciasse con la materia indagata: il carattere del lavoro salariato, la sottile forma di sfruttamento in esso implicata, il plusvalore, la forma merce, il famoso “feticcio” che si irradia nei rapporti sociali quando si generalizza e acquista un carattere astratto, il capitale come potenza sociale, il “ modi di produzione” ecc.
Ruy pensava che Marx avesse fondamentalmente ragione nel vedere che il capitalismo è portatore di un'instabilità strutturale, basata sul modo contraddittorio in cui gira i suoi ingranaggi, sottoponendolo a crisi ricorrenti e talvolta devastanti. E, nel suo lavoro di demistificazione dell'aspetto "quasi naturale" del suo dominio, ho anche sentito che ha fornito alla sinistra una potente tabella di marcia per mettere in discussione quel dominio e cercare alternative. Ma quali alternative? La domanda si riferisce alla politica, ed è proprio da lì che Ruy tirava i fili sciolti – o meglio, come diceva, i “punti ciechi” – della prospettiva marxista.
In realtà, questi punti ciechi sono già insinuati nella critica stessa del capitalismo, tanto da istigare Marx a pensare che il pieno controllo di questo modo di produzione avrebbe spinto le società a un bivio, restringendo le alternative e scartando possibili “deviazioni”. dal percorso. Alla fine, avrebbero dovuto saltare oltre il capitalismo, seguendo il percorso che avrebbe portato a un'esistenza emancipata (comunismo), o dirigersi verso il completo disastro.
Marx era così sicuro che il meccanismo contraddittorio della dinamica capitalistica avrebbe portato inesorabilmente a questa biforcazione fondamentale – e solo a questa biforcazione – che non si preoccupò molto di fare anticipazioni teoriche sulla forma politica del percorso anticapitalista. Battuto il vecchio modo di produzione e gettate le basi del nuovo, tutto il resto sarebbe seguito come semplice conseguenza. Per questo, quando gli venne l'idea della “dittatura del proletariato” come mezzo per fronteggiare la prevedibile resistenza delle classi privilegiate, prestò poca attenzione alle obiezioni del suo oppositore anarchico Mikhail Bakunin, che metteva in guardia contro la minaccia autocratica implicita nel termine “dittatura”, preferendo concentrarsi unicamente sulla sua funzione di servire gli interessi della classe sociale emancipatrice. Per quanto riguarda il disastro completo, è stato come un ripiego per l'impensabile o, nelle parole di Ruy, un sostituto per qualcosa “più o meno dell'ordine del nulla”.[Iii]
Perché queste domande configurano punti ciechi? È chiaro che la risposta ha una zavorra storica: l'esperienza del Novecento suggerisce che le contraddizioni del capitalismo spingono le società non verso una biforcazione, ma verso un ventaglio più ampio di alternative, senza escludere il disastro, ma che ora occorreva considerare. Dall'osservazione storica è possibile, però, passare ad una riflessione più teorica. Nel caso di Ruy, significava riesaminare la critica del capitalismo stesso – fare “una critica della critica”, per così dire.[Iv]
La percezione, nella sua opera matura, che il capitale configuri un potere sempre più comprensivo e autonomo, cioè astratto da ogni finalità esterna al movimento anche della sua autovalorizzazione, faceva pensare a Marx di avere a che fare non solo con un regime economico, ma con un tutto sociale – questo è il punto della categoria “metodo di produzione” – chiuso in se stesso, poiché, nel suo sviluppo, ciascuna delle sue parti è saldata a tutte le altre in modo inestricabile. Pertanto, ha concluso che sarebbe impossibile ("utopico") cercare di sbarazzarsi di uno di loro senza sbarazzarsi anche degli altri. La sua prospettiva di rivoluzione sociale riflette questo punto di vista: l'unica alternativa “realistica” sarebbe quella di cambiare tutto – dalla forma della proprietà al lavoro salariato, dal mercato al denaro, dalla fabbrica allo Stato – anche se ciò richiederebbe un tempo indefinito fino al compimento, cioè un periodo di transizione tra capitalismo e comunismo, che chiamò “socialismo”.
D'altra parte, la sua visione del capitalismo come sistema sociale così chiuso si traduceva in una teoria della storia in cui anche i futuri possibili si chiudevano fino alla suddetta biforcazione, in cui l'alternativa anticapitalista poteva seguire solo una direzione: il progresso dell'umanità. . Non gli venne in mente che questa alternativa potesse comportare anche una regressione storica, un nuovo, inedito tipo di dominio sociale – il dominio totalitario, di cui parleremo più avanti –, che deriverebbe dallo sforzo stesso di superare il capitalismo. Quindi, non si è preoccupato di elaborare il problema della forma politica di questo superamento. Primo punto cieco.
D'altra parte, la prospettiva di cambiare tutto (il comunismo) coglieva un residuo dell'eredità illuministica o, almeno, di una certa eredità illuministica, che scommetteva sull'avvento di una società pienamente trasparente. Marx pensava di superare l'“utopismo” illuministico – ancora presente, secondo lui, nella sinistra hegeliana – intendendo andare oltre la critica che si fondava solo sul buon uso della ragione, come se il dominio sociale potesse ridursi a semplice dominio, a un'opacità o in trasparenza dell'ordine dell'intelletto, così ben esemplificata nella credenza religiosa. Marx, al contrario, riteneva che questa opacità derivasse dal tessuto stesso dell'agire sociale e che anche una società emancipata dalla religione e governata solo da interessi materiali – cosa promossa dallo stesso capitalismo – avrebbe continuato ad essere dominata da una sorta di sottile “ incanto”, tradotto da lui nella figura del feticcio delle merci. Per superare questa forma “superiore” di superstizione, non bastava criticare una ragione illuminata – che poteva sfociare anche in un'illusione di secondo ordine (l'“ideologia”) – ma occorreva compiere una critica pratica, la critica di un modo alternativo di fare le cose, contro la pratica sociale dominante.
A Ruy piaceva indubbiamente l'idea che il feticismo delle merci costituisca una pratica sociale e non una semplice finzione della coscienza. Ma da lì a pensare che la sua critica pratica, attraverso la rivoluzione e durante tutta la transizione socialista, possa ripulire tutta l'opacità dei rapporti sociali, fa molta strada. Pur cambiando brillantemente i suoi termini, Marx mantenne comunque questo obiettivo. aufklärer. Ma, cosa più importante: ha mantenuto la sua antropologia implicita, di una “natura” umana così plastica che nulla in essa poteva costituire un ostacolo all'intervento dell'azione critica – nel senso di eliminare, ad esempio, pulsioni egoiche di tale natura contraria a il progetto di emancipazione – , che ha dato vita a uno sperimentalismo autoritario, se non brutale, insieme a un nuovo tipo di mistificazione, convertendo la critica nel suo contrario. Secondo punto cieco.
Infine, il problema del rapporto tra capitalismo e forma politica, che in fondo anticipa il rapporto tra post-capitalismo e politica. La sua concezione del capitalismo come modo di produzione, cioè come un insieme sociale in cui le parti sono intimamente unite tra loro, lo indusse a sussumere ogni singolo elemento della politica – il regime politico e la forma dello Stato – a funzioni di dominio sociale. Questo, pur assumendo che il capitalismo sia mosso da una contraddizione interna, ma che fondamentalmente si trovasse altrove, nella “sala macchine” della vita materiale. Se qualche forma politica emergesse all'interno del sistema, ma in contraddizione con esso, come per un certo periodo immaginava fosse la democrazia, ciò porterebbe la società fuori dal capitalismo e, quindi, verso la rivoluzione. Se non fosse così, la democrazia, come la forma giuridica del contratto, non sarebbe altro che un'illusione di libertà e di uguaglianza, niente di più. La fattibilità di una coesistenza contraddittoria di democrazia e capitalismo non era nel loro orizzonte. Terzo punto cieco.
Totalitarismi, di sinistra e di destra
In anni più recenti, Ruy Fausto si è concentrato sul problema del pensiero, partendo dalla storia del Novecento, dal destino delle rivoluzioni e dai regimi politici e sociali che ne derivano. Una questione fondamentale, poiché “rivoluzione sociale” era il termine che forse meglio sintetizzava il progetto di emancipazione della sinistra all'inizio di questo periodo. Come notato in precedenza, Ruy era convinto che i regimi comunisti emersi da queste rivoluzioni mostrassero chiaramente che le alternative anticapitaliste, contrariamente alle aspettative, potevano trasformarsi in terribili regressioni storiche. Il bilancio dell'andamento della sinistra nel periodo, quindi, non è affatto positivo.
Non che alla destra, e in generale ai difensori dell'alternativa capitalista, sia andata meglio. Il secolo si apre con la catastrofe rappresentata dalla prima guerra mondiale, forse origine comune di tutte le successive disgrazie, essa stessa conseguenza del dispiegarsi del capitalismo europeo nei precedenti quaranta o cinquant'anni, segnati dalla competizione imperialista. Tuttavia, anche lì bisogna ammettere una certa complicità della sinistra, in questo caso la sinistra non rivoluzionaria, la socialdemocrazia europea, che per lo più ha dato il suo appoggio alla guerra e ha finito per cadere a lungo in discredito. Questa decisione storica, che Ruy qualificò come “quasi criminale”, consegnò praticamente l'iniziativa della lotta politica, nel periodo cruciale che seguì, a una sinistra più incline a perdersi nei punti ciechi del marxismo sopra ricordati.[V]
Due eventi, quasi concomitanti, e che segneranno il Novecento, seguono direttamente dalla prima guerra: la rivoluzione russa e l'emergere del fascismo in Italia. Pur derivando da una causa comune, la valutazione che Ruy ne fa, contrariamente a certi storici conservatori, non è la stessa: la prima fu, in linea di principio, un evento propizio, in quanto rovesciò l'ultimo baluardo dell'assolutismo in Europa, l'impero zarista; mentre la seconda rappresentava già l'inizio della grande regressione storica che porterà all'ascesa del nazismo e alla seconda guerra mondiale. La storia della rivoluzione russa è più tortuosa, poiché è una storia di speranza che deraglia in seguito, quando il bolscevismo prende la guida della rivoluzione e inizia a costruire un nuovo potere statale. Successivamente, questo nuovo potere, già autoritario, intraprende una pura e semplice regressione, nella forma del regime stalinista.[Vi]
Per alcuni aspetti esteriori comuni, e per la necessità di sottolineare l'assoluta novità storica che significavano, Ruy adottò, seguendo alcuni analisti, il termine “totalitarismo” per nominare entrambe le regressioni, una da destra e l'altra da sinistra. Come generica approssimazione a entrambi gli oggetti, il totalitarismo gli servì a segnare l'ultimo punto sulla scala di un processo di radicalizzazione e diffusione della violenza, iniziato con l'instaurazione delle dittature di un partito rivoluzionario - uno di estrema destra e l'altro di l'estrema sinistra – fino a diventare regimi autocratici tutte breve, sostenuto da ricorrenti terrori di massa, campi di concentramento e pratiche di sterminio della popolazione. Sebbene il regime stalinista (e poi maoista) non sia arrivato a puntare allo sterminio sistematico e completo di una determinata “razza”, come fece il nazismo, ciò non significa che fosse meno devastante nella sua furia di arrestare o eliminare un numero colossale di persone, la cui caratteristica comune, peraltro, era quella di non rappresentare assolutamente una minaccia per il potere costituito.
Nonostante le somiglianze in termini di modus operandi, Ruy ha evidenziato le differenze, che considerava essenziali, tra totalitarismo di sinistra e di destra, sia in relazione alla loro “preistoria” (la questione delle origini) sia in relazione alle pratiche di legittimazione e al discorso ideologico. Questa distinzione proveniva dal suo dialogo con altre analisi dei regimi totalitari, dalle quali fu fortemente influenzato, ma che tendevano a sottolinearne le continuità più che le discontinuità. È il caso dell'analisi classica di Hannah Arendt, da lui molto apprezzata, ma che non ha saputo spiegare le “origini” dello stalinismo con la stessa ampiezza e profondità con cui aveva ripercorso le “origini” del nazismo. Evidentemente aveva un interesse speciale nello studio delle radici del totalitarismo di sinistra.
Anche per il dibattito politico che l'argomento sollevò, gli importava meno fornire una spiegazione sociologica che comprendere il complesso insieme di idee che avrebbero potuto contribuire, sia pure in una certa misura involontariamente, all'introduzione di un potere totalitario da la sinistra. Abbiamo già cercato di indicarlo brevemente qui, con la nozione di “punti ciechi” nel pensiero di Marx. Ciò non significa, neanche lontanamente, che il regime stalinista (o quello maoista, che è una sorta di continuazione[Vii]) era stata un'emanazione diretta della sua teoria del socialismo e del comunismo. Ma non si tratta nemmeno di esentarlo del tutto da errori e mancanze di precauzione, che potrebbero facilmente sfociare in appropriazioni opportunistiche, arrivando anche al completo capovolgimento del suo significato. Tra il marxismo originario e la pratica totalitaria vi sono una serie di passaggi indiretti, che egli cercò di individuare nel proprio sforzo di fare una “preistoria” dei regimi comunisti.
Così, questi passaggi comprendono la peculiare storia della sinistra russa, il pensiero di Lenin, l'avvento del bolscevismo e i suoi rapporti ancestrali con la tradizione giacobina e il terrore rivoluzionario, l'appropriazione autoritaria, da parte del leninismo, delle energie democratiche e progressiste della rivoluzione russa, ecc. Nel processo, la conversione della figura della “dittatura del proletariato”, come aveva previsto Bakunin, in una dittatura del partito e infine nella dittatura dell'autocrate o del despota. Si noti, ancora una volta, l'accento posto sull'analisi delle idee e dei loro fatidici “incroci” – figura del discorso dialettico usata spesso da Ruy per indicare il passaggio storico di termini opposti (o, come lo descriveva, “il passaggio dall'opposto al contrario”): ad esempio, dall'egualitarismo che si pone nel discorso originario del regime rivoluzionario, e che poi ideologicamente “calza” i regimi comunisti, si passa, attraverso la negazione della libertà, al suo esatto contrario (il non uguaglianza). È in questo passaggio essenziale che il totalitarismo di sinistra forza il suo ingresso, quasi impercettibile, nel piano delle originarie idee di sinistra – per questo il nostro autore lo chiamava anche “totalitarismo egualitario” –, da cui distingue il “totalitarismo non egualitario”, da quello di destra , che negando a priori il valore dell'uguaglianza e avallando la teoria della superiorità razziale, si impone senza dover effettuare l'interversione.[Viii]
Enfatizzare le idee e, allo stesso tempo, evitare approcci "sociologizzanti" (come li chiamava) al fallimento del socialismo sovietico e alla sua conversione in una forma senza precedenti di dispotismo, era anche un modo per rifiutare le spiegazioni marxiste. ad-hoc che ha cercato di estendere la critica del capitalismo a questo ambito. Voglio dire, spiegazioni come le seguenti: che il socialismo sovietico era in realtà una forma mascherata di capitalismo di stato, il risultato dell'arretratezza stessa dello sviluppo economico in Russia e dello sfortunato fallimento della rivoluzione proletaria nei paesi capitalisti più avanzati. Ruy vedeva in queste spiegazioni un tentativo di mantenere a tutti i costi lo stesso quadro di idee che, in fondo, insisteva nell'impedire alla sinistra predominante di affrontare di petto i punti ciechi del pensiero marxista originario e trarne poi le dovute conseguenze. Non si trattava, quindi, di contrapporre spiegazioni “idealiste” a spiegazioni “materialiste”, ma di condurre la lotta politica attraverso lo scontro di idee – che, come indicato all'inizio di questo articolo, si riferisce sempre a una presa di posizione critica , ancorato a possibili alternative.
Democrazia, capitalismo e certe insidie
Torniamo al problema della giunzione tra democrazia e capitalismo. Come già evidenziato, Ruy Fausto la vedeva come una giunzione contraddittoria, una sorta di compenetrazione degli opposti, per la quale usava l'espressione “democrazia capitalista”.[Ix] Ciò potrebbe significare sia un freno ai valori di uguaglianza e libertà – che il polo democratico comporta – sia un freno al dominio del capitale. Da un lato, implicava la possibilità di introdurre cambiamenti progressivi all'interno del capitalismo, come era avvenuto nei paesi dell'Europa occidentale del dopoguerra.[X] Ma, d'altra parte, comportava anche delle insidie, tutte legate alla tendenza ad adattarsi al sistema dominante.
I pericoli dell'accomodamento sono attestati dalla stessa traiettoria della socialdemocrazia europea. A partire, come abbiamo visto, dalla resa al guerrafondaio nella prima guerra mondiale. È vero che la socialdemocrazia ha vissuto poi il suo grande momento, durante i cosiddetti “trent'anni gloriosi” dopo il 1945. Eppure è ricaduta nelle trappole dell'accomodamento per tutto il periodo del predominio neoliberista, fino a raggiungere un collasso quasi totale discredito negli ultimi anni, come esemplificato dal malinconico governo del socialista François Hollande in Francia.
Ma Ruy era particolarmente preoccupato per il destino della sinistra brasiliana, dopo l'ascesa di Lula e del Partito dei Lavoratori al governo nazionale. È stato un momento di grande speranza, vista la traiettoria precedente del PT, di forti legami con i movimenti sociali, di partecipazione attiva alla ricostruzione democratica del paese e di lotta contro le iniquità del capitalismo brasiliano. Sulla base della sua conoscenza dell'esperienza socialdemocratica e delle impasse della politica brasiliana nel precedente periodo democratico (1946-1964), il nostro amico ha cercato di mettere in guardia da queste insidie, anche prima dell'ascesa di Lula alla presidenza della repubblica.[Xi]
Spiccano due questioni. La prima riguarda le alleanze, sia elettorali che di sostegno al governo. Non è una questione elementare, soprattutto quando si ha a che fare con un Paese come il Brasile, così esteso ed eterogeneo dal punto di vista regionale, e con poca tradizione di partiti con coerenza programmatica. Sarebbe forse una questione meno problematica se le correnti politiche che mirano al potere statale intendessero solo amministrare il status quo. Ma per le correnti di sinistra che vogliono davvero mettere in moto una piattaforma di riforme economiche e sociali progressiste, la sfida è ben diversa. Le alleanze devono essere sufficientemente ampie da garantire l'approvazione delle leggi al Congresso, come richiesto da un regime democratico; e tuttavia coerente dal punto di vista programmatico, per non intaccare fin dall'inizio il suo slancio riformista. Il problema fondamentale, infatti, è come conciliare la trasformazione sociale, che dà senso a una politica di sinistra, con istituzioni e valori democratici. E questo ci porta alla seconda domanda.
La difficoltà sopra descritta ha predisposto in passato buona parte della sinistra latinoamericana a difendere soluzioni di rottura, che imponevano l'uso della violenza come orizzonte strategico. Negli ultimi decenni, con la democratizzazione dei paesi della regione, questa strategia ha perso credibilità. Diversi partiti di sinistra iniziarono a crescere elettoralmente e ad abbracciare l'idea di un percorso di trasformazione attraverso mezzi istituzionali. Il PT è stato uno dei più riusciti in questo percorso, con successive espansioni dei suoi banchi parlamentari e del numero di amministrazioni locali che amministrava. Nel 2002, per aumentare le possibilità di vittoria alle elezioni presidenziali, ha anche fatto uno spostamento verso il centro, sia nelle alleanze che nella sua piattaforma. Un gesto delicato e rischioso, ma politicamente accettabile, se il partito facesse concessioni laterali e potesse conservare i fondamenti del suo programma e – altrettanto importante – rendere non negoziabili alcuni principi di condotta. Tra questi ultimi, la guida a non scendere mai a compromessi con la corruzione.
Per Ruy, questo non era un problema minore. A suo avviso, la sinistra aveva poco da guadagnare se sostituiva la tentazione della violenza rivoluzionaria (intesa non come risorsa di difesa, ma come forma “positiva” di lotta) utilizzando il potere del denaro per promuovere i mutamenti sociali desiderati. Equivarrebbe a fare una cesura inappropriata tra mezzi e fini, per cui fini "buoni o giusti" potrebbero essere ottenuti con mezzi "cattivi o sbagliati". Nei due casi sullo schermo, quello della violenza e quello della corruzione, i mezzi impiegati contaminerebbero irrimediabilmente i fini perseguiti. Entrambi finirebbero per innescare una sorta di circolo vizioso: una volta adottata questa strada, diventa molto difficile, se non impossibile, uscirne. La condotta contraria può sembrare moralistica e persino utopistica, ma Ruy ha cercato di basarla su una visione che considerava, al contrario, la più realistica.
Il punto si riferisce all'importanza dei principi etici “trascendentali” non solo nella condotta personale, ma anche in quella politica, che egli imparò a rivalutare anche all'interno della sua critica alla critica marxista del capitalismo.[Xii] Non possiamo approfondire l'argomento in questo spazio, ma vale almeno la pena di indicare il significato del termine “trascendentale” in questa considerazione. Accade così che la cosiddetta teoria “materialista” della storia tenda a pensare ai soggetti del dramma della trasformazione sociale come a meri sostenitori della posizione di classe che possono avere. In un certo senso, i comportamenti personali o collettivi sono sussunti sotto la posizione di classe, cioè il ruolo o la funzione che una data classe sociale svolge nelle diverse epoche storiche: questa estrema “oggettivazione” del soggetto sembra essere una forte tendenza in una visione della storia in cui nulla sfugge all'immanenza delle forze impersonali che ne governano il dispiegarsi. Il che lo rende secondario rispetto a principi come la dignità intrinseca dell'essere umano. Tali principi avrebbero senso solo in una società completamente emancipata. Prima ancora, operano come semplici illusioni o, ancor più grave, come “ideologia”, che altrimenti ha la funzione di rallentare la marcia della storia.
Senza trascurare l'importanza degli oggettivi interessi di classe, Ruy ha cercato, nella sua critica, il modo di rifondare una nozione forte del soggetto politico, in cui avesse senso pensarlo come attore, allo stesso tempo, “dentro” e “fuori” "storia. . In breve, uno spazio aperto per dare alla tua pratica una dimensione trascendentale. In questa considerazione, scommetterei che nella coscienza del soggetto c'è sempre qualcosa che sfugge all'oggettivazione e che albergherebbe un passaggio per agire non solo secondo fini dati, ma secondo principi. In questo modo, invece di essere sospettato di essere una coscienza illusoria, Ruy inizia a vederla come un attributo intrinseco del soggetto che non è solo un supporto, ma che agisce efficacemente.
Proprio per questo, il soggetto che agisce secondo principi non può mai ritenere banale qualsiasi violazione dei mezzi e dei fini. Quantomeno, i principi impongono dei limiti all'uso dei mezzi, proprio perché il soggetto che li abbraccia è portato a considerare se le loro conseguenze incidano sulla dignità stessa dei fini.[Xiii] Ecco, la coscienza morale pone sempre la domanda: vale la pena fare così o così? La domanda può anche meritare risposte diverse, a seconda delle circostanze; quello che non si può fare è liquidarla come falsa domanda, soprattutto se riguarda il destino di altri o di molti altri, come accade nelle decisioni politiche.
Oltre all'aspetto strettamente etico, la corruzione solleva un'altra considerazione, che è direttamente correlata al carattere delle “democrazie capitaliste”, l'interazione tesa tra democrazia e capitalismo. Ci sono due modi in cui quest'ultimo cerca di sbarazzarsi del fastidio rappresentato dai valori e dalle istituzioni democratiche: o attraverso la pura e semplice eliminazione del regime democratico, o attraverso la sua neutralizzazione. In epoca neoliberista prevalse la seconda strategia. Neutralizzazione significa sostituire le risorse dell'azione politica – lo scontro pubblico di idee, il convincere gli elettori, la militanza volontaria dei cittadini in difesa dei propri diritti – con lo strapotere del denaro. Cioè ridurre il regime democratico a una forma di “governo attraverso il denaro”. Approfittare della risorsa della corruzione per promuovere gli obiettivi di un governo, per quanto progressisti possano essere questi obiettivi, implicherebbe giocare al gioco di questa riduzione. In termini puramente realistici, Ruy non vedeva alcuna possibilità che le forze di sinistra prevalessero su questo terreno.
Conclusione
In tutto il tempo che, nella sua vita, ha dedicato ad alimentare il dibattito pubblico, Ruy Fausto si è sempre visto remare contro due correnti: quella della sinistra dominante e quella della destra dominante – quest'ultima espressa, più recentemente, in il discorso neoliberista. Era, diceva, il suo modo di rifiutare, in campo politico, il principio del terzo escluso. Ovvero, per evitare il disgiuntivo, quasi sempre fuorviante, del tipo “o stai da una parte, o sei necessariamente dalla parte opposta” – che, in fondo, funziona smorzando la posizione più riflessiva e più favorevole alla densificazione di alternative.
Infine, ancora una volta la questione della critica e della responsabilità delle sue conseguenze.
*Cicerone Araujo è professore di teoria politica presso il Dipartimento di Filosofia della FFLCH-USP. È autore, tra gli altri libri, di La Forma della Repubblica: dalla Costituzione mista allo Stato (WMF Martins Fontes).
Originariamente pubblicato su Quaderni di filosofia tedesca, vol. 26, n. 2.
arbitro
erenze
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note:
[I] Sul significato, validità e limiti contemporanei della distinzione sinistra/destra si veda FAUSTO, R. (2010).
[Ii] Cfr. “Zero e Infinito”. In: FAUSTO, R. (2007), pp.155-164.
[Iii] Cfr. “Sulla politica di Marx”; e “Successi e difficoltà del Manifesto comunista”. In: FAUSTO, R. (2007), pp.33-50 e pp.51-65.
[Iv] Le note che seguono cercano di condensare un argomento che è molto più fine e sinuoso di quello che posso presentare qui. Cfr. FAUSTO, R. (2017), Cap.II, spec. pp.37-48; e FAUSTO, R. (1987), Cap.I.
[V] Sulla traiettoria della socialdemocrazia europea e le sue disavventure, vedi FAUSTO, R. (2007), pp..224 e ss.
[Vi] Per una panoramica sulla rivoluzione russa si veda FAUSTO, R. (2017a), Caps. IV e V.
[Vii] Sulla rivoluzione cinese e il regime maoista si veda FAUSTO, R. (2017a), Cap.VI.
[Viii] Su questi passaggi dalla “preistoria”, alla storia dei regimi totalitari di sinistra, e sulla loro differenza con il totalitarismo di destra, cfr. FAUSTO, R. (2017a), Caps.II e III.
[Ix] Su questo concetto si vedano, tra gli altri, FAUSTO, R. (2007), pp.18 e ss.
[X] La sua prospettiva a lungo termine, tuttavia, è quella di andare oltre la democrazia capitalista, che richiederebbe un regime politico e sociale per neutralizzare il dominio del capitale, che Ruy chiamò “socialismo democratico” o “democrazia radicale”. Sull'idea di neutralizzare il potere del capitale e sulla necessità di una nuova critica dell'economia politica per sostenerlo, vedi FAUSTO, R. (2017b), pp.95-104.
[Xi] Sulla sinistra brasiliana, il PT ei governi di Lula e Dilma Rousseff, vedi FAUSTO, R. (2009), Parte I, Cap.2; e FAUSTO, R. (2017b), Caps. 1 e 3.
[Xii] Cfr. FAUSTO, R. (2009), pp.149-151; sul rapporto di questo punto con il tema del “populismo di sinistra”, che qui non ho trattato, vedi FAUSTO, R. (2017b), pp.29-39.
[Xiii] In questo campo di considerazioni dovrebbe rientrare la sfida posta dalla crisi ecologica ei limiti dell'oggettivazione della natura stessa. Sulla questione ecologica si veda FAUSTO, R. (2017b), pp.39-45.