Salute mentale e benessere

Immagine: Ekaterina Astakhova
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da ELTON CORBANEZI*

Salute mentale, pandemia, precarietà: soggettività neoliberiste

Il rapporto tra salute mentale, pandemia di Covid-19 e precarietà sembra esplicito. Non c’è dubbio che la salute mentale degli individui sia stata danneggiata nel contesto della pandemia di Covid-19, che devasta il mondo dal 2020; né che i processi di precarietà della vita si siano intensificati nel corso di un simile evento, soprattutto nei paesi in cui il neoliberismo appare come politica economica e forma di organizzazione sociale.

L’evidenza evidente nella relazione tra i termini nasconde questioni sociologiche e storiche più complesse. Lo scopo di questo articolo è proprio quello di sottoporre tali termini ad un’analisi sociologica critica, al fine di metterli in relazione e problematizzare sulla base delle loro costruzioni e implicazioni storiche e sociali e, in particolare, sulla base dei processi contemporanei di soggettivazione neoliberista che essi attraversano.

Per quanto riguarda la salute mentale, l’obiettivo è mostrare come tale terminologia sia diventata comune e quotidiana a partire dall’appropriazione neoliberista della critica alla psichiatria, politicamente percepita fino ad allora come conservatrice dell’ordine sociale.[I]In generale, nella vita di tutti i giorni, l’uso del termine salute mentale ricorre, paradossalmente, per riferirsi all’assenza della stessa. La pandemia di Covid-19, a sua volta, ha intensificato in modo significativo non solo la produzione di sofferenze psicologiche e disturbi mentali, ma anche attributi specifici della soggettivazione neoliberista, come la piena disponibilità al lavoro (per chi lo ha a disposizione), l’iperproduttività, la comunicazione istantanea, competizione e accelerazione sociale, digitale e mentale.

Se la precarietà materiale e oggettiva non è una novità dall’avvento del capitalismo moderno, intensificandosi sempre di più, la precarietà soggettiva è diventata una caratteristica dominante dello stile di vita egemonico nelle società basate sulla razionalità neoliberista.[Ii] Ancora una volta, non siamo di fronte “solo” alla sofferenza psicologica derivante da questa forma di organizzazione della vita sociale, ma anche all’instaurazione normativa di un modo di vivere che viene dall’alto.

Flessibilità, instabilità, assunzione di rischi: una forma di precarietà – intesa non esclusivamente come insufficienza e incertezza, ma come caducità e temporaneità – permea il ethos dominante, per non dire il modo di vivere dei “vincitori”. Karl Marx e Friedrich Engels (2007, p. 47) hanno affermato che “[le] idee della classe dominante sono, in ogni epoca, le idee dominanti, cioè, la classe che è la forza materiale dominante della società è, a allo stesso tempo, la tua forza spirituale dominante”. La considerazione vale anche per lo stile di vita. La precarietà soggettiva costituisce una norma della razionalità neoliberale che, come ogni altra cosa, colpisce in modo diseguale le diverse classi sociali.

Saúde mentale

Nel 2021, il mondo ha visto la ginnasta Simone Biles rinunciare a continuare nella competizione olimpica tenutasi a Tokyo. Il motivo addotto dall'atleta era la sua salute mentale. Due aspetti di questo fatto meritano la nostra attenzione. Il primo di questi è il luogo comune attribuito all'espressione salute mentale, sia per riferirsi alla sua assenza, sia per esprimere il bisogno di cura di sé in relazione ad essa. “Salute mentale” (o “salute mentale ”, nella lingua dominante del mondo) comunica il problema su scala globale.

Derivante dal primo, il secondo aspetto intreccia il significato attuale del concetto di salute mentale con l’immaginario sociale e culturale delle società neoliberiste. Il ritiro dell'atleta rappresenta sia il rifiuto di proseguire nella competizione sia la necessità di gestire la propria salute mentale. Se, da un lato, il rifiuto potesse emergere come resistenza a tale immaginario – il sociologo francese Alain Ehrenberg (2010) ha evidenziato come l’atletica ad alte prestazioni funzioni come paradigma della socialità contemporanea, basata su prestazioni, obiettivi, risultati, superamento[Iii] –, d’altro canto, prendersi cura di sé per la propria salute mentale è l’ennesimo stimolo alla propria immaginazione.

In definitiva, come afferma la dottrina neoliberista, siamo tutti responsabili delle nostre condizioni – compresa la salute, in generale, e la salute mentale, in particolare. Nikolas Rose (2013) ha già richiamato l'attenzione sulla tendenza contemporanea secondo cui siamo diventati economisti della nostra stessa salute (non salvaguardarla, di conseguenza, tende ad intensificare la sofferenza dovuta alla condizione patologica). Ma come, dopo tutto, si è affermato il concetto di salute mentale nel nostro immaginario sociale?

Per comprendere l’emergere del concetto di salute mentale è necessario fare riferimento alla storia dell’altro estremo, la follia.[Iv] Em storia della follia, Michel Foucault (2003) presenta una prospettiva storica ed empiricamente documentata sull'argomento. Non è il caso di affrontare qui la complessità dei concetti relativi alla follia nei periodi medievale, rinascimentale e classico, secondo la periodizzazione esplorata nell'opera. È bene sottolineare che la malattia mentale – simbolo della nascita della psichiatria come scienza nella modernità – nasce dalla trasformazione dell’esperienza classica del ricovero in oggetto medico.

In questo modo l'autore sottolinea che il significato medico attribuito all'ospedale è un'invenzione moderna. Nel periodo medievale l'ospedale assolveva ad una funzione caritativa, come ricovero – “casa per ospiti”, secondo l'etimologia del termine. Nel periodo classico (XVII e XVIII secolo) divenne un istituto di controllo e di ordine sociale e politico. L'appropriazione dell'esperienza classica del ricovero introduce il significato medico consacrato dal termine “malattia mentale”. Procedendo genealogicamente, Foucault (2003) sostiene nella sua tesi che non si tratta di “scoperta” del fatto scientifico, come sottolinea l'agiografia medica della psichiatria nel riportare la propria storia, ma di attribuzione di significato.[V]

La cosiddetta “liberazione degli incatenati” – portata avanti da Philippe Pinel – attribuisce significato medico all’esperienza classica dell’irragionevole reintegrazione della follia nella ragione, come stato della stessa. Concepire l'alienazione mentale come una parte negativa della ragione significa percepirla come uno stato della ragione stessa, che può quindi essere curato e reintegrato. Da Pinel a Hegel questo è ciò che accade nella modernità medica e filosofica: in quanto negazione della ragione, senza cessare di farne parte, la follia può essere dialetticamente superata. In termini medici, la malattia mentale può essere curata.

È il momento in cui l'ospedale psichiatrico emerge come dispositivo di guarigione nelle mani del medico alienista. È noto l’assioma di Jean-Étienne Dominique Esquirol, il primo alienista appunto, se si considera il ruolo di medico enciclopedico svolto da Pinel (Castel, 1978, p. 98): “Una casa per gli alienati è uno strumento di guarigione; nelle mani di un medico esperto è l'agente terapeutico più potente contro le malattie mentali” (Esquirol, 1838, p. 398).

Il potere medico, l’ospedale psichiatrico e la malattia mentale costituiscono quindi lo schema moderno della follia che durò nei secoli XIX e XX. Più che di conoscenza si tratta di esercizio del potere. “Se il carattere del medico può delimitare la follia, non è perché la conosce, è perché la domina” – questa è la tesi di Michel Foucault (2003, p. 498). La giusta volontà del medico deve imporsi sulla volontà disturbata del paziente, così come l'ospedale opera come pedagogia dell'ordine sull'essere del disordine (Birman, 1978). Nonostante la finalità della cura medica, oggi tutti conosciamo la dimensione catastrofica del modello dell’asilo,[Vi] che non è ancora del tutto scomparso dal nostro panorama sociale.[Vii]

È il progetto di decostruire il modello ospedaliero che renderà possibile l’emergere del concetto contemporaneo di salute mentale. Ma il concetto conterrà anche ambivalenza. Da un lato la promozione sociale (è il suo lato progressista, critico nei confronti del modello dell’asilo e in difesa dei diritti umani); un movimento per così dire controrivoluzionario cercherà di catturare il concetto facendolo convergere con l’immaginario sociale e culturale del capitalismo contemporaneo (è il suo lato conservatore, effetto involontario della critica, che finisce per promuovere idee come l’ottimizzazione , performance, produzione di benessere).

Per quanto riguarda la prima accezione, il concetto di salute mentale prende forma dalle reazioni decentralizzate dei diversi movimenti di riforma e di rottura psichiatrica. Si chiama “psichiatria alternativa” o, più in generale, “antipsichiatria”. In parole povere, si tratta di movimenti emersi negli anni ’1960, in Europa e negli Stati Uniti. Tra le esperienze più riformiste spiccano la comunità terapeutica inglese, la psichiatria comunitaria o preventiva nordamericana, la psicoterapia istituzionale e la psichiatria di settore francese.

Disposte a rompere radicalmente con il paradigma psichiatrico ospedaliero, si distinguono l’antipsichiatria inglese e la psichiatria democratica italiana. Non è il caso di esaminare qui contributi, particolarità e leadership di ciascuna di queste esperienze alternative. Ai nostri fini, vale la pena evidenziare che, in quanto sfida al tradizionale dispositivo psichiatrico, tali movimenti hanno contribuito alla deistituzionalizzazione e, seppure in modo meno efficace, alla deistituzionalizzazione della malattia mentale.[Viii]

Anche diversi studi pubblicati negli anni Sessanta – come quelli di Thomas Szasz (1960), Ronald Laing (1979), Michel Foucault (1978), Erving Goffman (2003), David Cooper (2007), Franco Basaglia (1973) – hanno formato un “comunità d’azione” (Foucault, 1985b), anche se non progettata come tale, contro il dispositivo psichiatrico egemonico. Nonostante le sottigliezze e le complessità che tali generalizzazioni comportano, il progresso sociale fornito dalla critica al modello dell’asilo, basato sull’ospedale psichiatrico, proviene da questo contesto.[Ix]

Quasi mezzo secolo dopo, più precisamente nel 2001, il rapporto sulla salute mondiale, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), era dedicato alla salute mentale, con il titolo – alquanto espressivo – Salute mentale: nuova concezione, nuova speranza. In effetti, il documento inizia riconoscendo che lo scopo fondamentale della salute mentale, vale a dire la deistituzionalizzazione della malattia mentale (la sostituzione del modello ospedaliero), non è stato raggiunto a livello globale.

Secondo il documento, l'obiettivo è consolidare il cambiamento di paradigma innescato, nella seconda metà del XX secolo, da tre fattori: lo sviluppo della psicofarmacologia, l'istituzionalizzazione dei diritti umani e l'incorporazione dell'elemento mentale nel concetto di salute dell'OMS. salute (2001, p. 20 e 79). Sostituire il modello ospedaliero con cure per la salute mentale e politiche di comunità, umanizzare e dare priorità alle cure primarie, destigmatizzare e prevenire i disturbi mentali, equiparare la salute mentale a quella fisica e promuoverla: questi sono gli obiettivi fondamentali e indispensabili propagandati dal rapporto.

Infatti, la sua influenza sarà decisiva, come si vede dall’approvazione, in Brasile, della Legge 10.2016 nello stesso anno in cui è stato pubblicato il rapporto (Delgado, 2011). La cosiddetta Legge di Riforma Psichiatrica, vale la pena di notarlo, era già in lavorazione al Congresso Nazionale da 12 anni. Non è nostro scopo qui esaminare i progressi e gli ostacoli che circondano l’attuazione di tale politica, ma evidenziare che il concetto di salute mentale emerge associato al processo di umanizzazione, destigmatizzazione e deistituzionalizzazione della malattia mentale. Si tratta, in definitiva, di superare la nomenclatura che ha coronato la nascita della psichiatria, sostituendola con il suo opposto: la salute mentale. Il disturbo mentale o la sofferenza psicologica, espressioni incluse sotto l'ombrello “salute mentale”, verranno sempre più definiti “problemi di salute mentale”.[X]

In effetti, il concetto di salute mentale diventa sempre più ampio. Coinvolge sia la sofferenza psicologica, che a sua volta spazia dalla psicosi all’ansia, sia il benessere. Vale la pena notare che all'altra estremità dello spettro (il benessere) si trova l'incorporazione dell'elemento mentale nel concetto di salute. Ricordiamo la famosa e controversa definizione di salute, esistente fin dalla fondazione dell’OMS: “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità” (OMS, 1946, pag. 1).

La polemica sulla definizione è dovuta soprattutto all’identificazione della salute con il benessere (nella sua pienezza), equiparandolo e riducendolo così alla felicità. Tale portata e indeterminatezza possono costituire, a nostro avviso, uno degli aspetti fondamentali per l’acquisizione neoliberista del termine, trasmutandone il significato sociale primario. Non più limitata allo spazio ospedaliero, la psichiatria – una scienza reale nel campo interdisciplinare, multidisciplinare e paramedico della salute mentale[Xi] – diventa autorizzato a intervenire nello spazio aperto della società.

Inoltre, tutta la medicina del benessere e i meccanismi supplementari (come la nutrizione, la meditazione e le tecniche psicoterapeutiche) agiranno direttamente nella produzione del benessere, modulando e modellando gli individui. Questo è ciò che chiamiamo “biopolitica della salute mentale”: l’appropriazione del termine che nasce dalla critica al modello psichiatrico tradizionale e l’attribuzione di un nuovo significato. È vero che tale senso non è assolutamente nuovo.

Negli anni ’1980, Robert Castel (1987; 2011) attirò l’attenzione sull’emergente “nuova cultura psicologica”, la cui “terapia del normale” soppiantò la distinzione tra normale e patologico, autorizzando l’intervento medico e tecnico sulla normalità degli individui per valorizzare la propria dimensione relazionale e professionale. Il consolidamento della salute mentale e la sua trasmutazione semantica saranno fondamentali per tale tecnologia di potere tipica della governamentalità neoliberista.[Xii]

L’uso ordinario dell’espressione, come accennato in precedenza, rende esplicita la preoccupazione biopolitica latente. La cura di sé per la salute mentale, che spesso non è altro che la produzione di più salute, è una politica di gestione della condotta che rinuncia a qualsiasi coercizione esterna per massimizzare la forza, il potenziale e le qualità.

Un aspetto fondamentale analizzato da Michel Foucault (2008b) nel suo corso sul neoliberismo tedesco e nordamericano è proprio che tale tecnologia del potere opera a partire dalla razionalità dei governati. In un modello sociale diviso tra “vincitori” e “perdenti”, gli individui stessi sono responsabili del successo o della sconfitta. Questa responsabilità comprende anche la gestione stessa della salute mentale, che opera quindi come una forma di controllo sociale. È necessario mantenere le condizioni produttive, ottimizzandole il più possibile.

La salute mentale è anche una questione di adattamento sociale. Infatti, uno dei criteri fondamentali per diagnosticare un disturbo mentale risiede nella compromissione della capacità funzionale. La “salute” di un dato modello di società dipende dalla specifica salute mentale. A poco a poco, come si vede, il concetto di salute mentale non solo ha acquisito evidenza nella vita sociale quotidiana, ma il suo significato critico iniziale è stato anche in parte catturato e sovvertito dall’immaginario socialmente e culturalmente dominante del neoliberismo.

Pandemia di covid-19

Nel marzo 2020 l’OMS ha dichiarato ufficialmente la pandemia di Covid-19. Di fronte all’improvvisa sospensione delle attività economiche, durata mesi, diverse analisi si sono chieste se fossimo di fronte a una crisi del capitalismo e della socialità attuali. La crisi sanitaria globale, associata alle conseguenti crisi economiche e sociali, nonché alle già consolidate crisi climatiche e ambientali, ha trasformato la società in un vero laboratorio a cielo aperto per sociologi, antropologi, scienziati politici, filosofi, tra gli altri specialisti nel campo della scienza e della scienza. scienze umane e sociali...

La produzione e la circolazione di dati scientifici tra ricercatori di diversi settori coinvolti nella lotta alla malattia (infettologia, virologia, epidemiologia, biologia, fisica, matematica, tra gli altri) nonché eventi sociali, politici, economici, culturali, filosofici, geografici e storici è avvenuto a una velocità simile a quella della diffusione del virus in un mondo altamente globalizzato.[Xiii] Poiché la rottura e il nuovo tendono a instaurarsi in seguito alla crisi, il primo momento è stato quello della speranza sociale in molte delle analisi condotte nel vivo degli eventi, nonostante lo scetticismo di gran parte di esse.

Infatti, mesi dopo, anche senza il ritorno alle attività di persona, era già possibile vedere che tutto non solo stava tornando alla “normalità”, ma anche a un ritmo accelerato. La stessa espressione “nuova normalità”, che inizialmente poteva avere una connotazione trasformativa, finì per significare nient’altro che un cambiamento estetico e igienico della socialità attuale, accelerando il corso del “processo di civilizzazione”, nel senso analizzato dal sociologo Norbert Elias ( 2001; 2011).[Xiv]

Dall’esperienza è emerso un relativo consenso. Da un lato, la pandemia ha funzionato come un “rivelatore fotografico”, secondo l’analogia usata da Peter Pál Pelbart (2021b, p. 14): “ciò che era sotto il nostro naso, ma che non potevamo vedere, è apparso alla luce di giorno – una catastrofe non solo sanitaria, sociale, politica e ambientale, ma anche di civiltà”. In effetti, la pandemia ha lasciato la società cruda. In un certo senso, ha mostrato l'assoluta complessità, interrelazione e interdipendenza che costituiscono la vita umana nelle società moderne, mettendo in luce la tesi di Émile Durkheim (2010, p. 36) secondo cui gli individui sono “funzionari della società”.[Xv]

Nessun lavoro essenziale potrebbe essere svolto senza. Da qui, probabilmente, la speranza sociale attorno ad una società effettivamente basata sulla solidarietà, che, nel senso durkheimiano, non consiste nella generosità, ma nella cooperazione e nelle responsabilità collettive. L’opposto, quindi, dell’individualismo e delle responsabilità esclusivamente individuali intrinseche all’immaginario neoliberista. Ma la pandemia ha mostrato anche, in modo sensibile, le ferite sociali. La convinzione iniziale che il virus sarebbe stato “democratico”, alla stregua del mito della democrazia razziale, è presto crollata.

Sono stati i più vulnerabili i più esposti alla catastrofe, come ha segnalato già dall’inizio la prima morte causata dal virus in Brasile – quella di una collaboratrice domestica – evidenziando, ancora una volta, come ogni disastro “naturale” devasta e degrada ulteriormente persone, classi popolari[Xvi]. I dati hanno dimostrato come le popolazioni povere, nere, indigene e quilombola fossero più vulnerabili al contagio e alla letalità del virus. Anche su scala globale, la disuguaglianza è stata messa a nudo.[Xvii] L’appropriazione selvaggia di mascherine, test, respiratori e vaccini da parte dei paesi ricchi ha compromesso la retorica umanitaria dei leader che esaltavano la guerra contro il virus, contraddicendo allo stesso tempo la premessa di base secondo cui una pandemia è, per definizione, globale.[Xviii]

D’altro canto, anche la constatazione che la pandemia di Covid-19 ha agito da acceleratore di tendenza è diventata relativamente consensuale. Didattica a distanza, lavoro a distanza, iperaccelerazione digitale, comunicativa e mentale, disponibilità al lavoro senza diritto di disconnessione, precarietà, platformizzazione, violenza strutturale (razziale, di genere, molestie sul posto di lavoro). Se da un lato la pandemia ha costituito la condizione di possibilità storica per ciò che era in stato di latenza (lavoro a distanza, didattica e assistenza medica, per esempio), dall’altro ha accelerato ciò che era già in atto.

Non è stato diverso con la “salute mentale”, portando all’estremo il paradosso dell’espressione quando si riferisce all’assenza di ciò che dice.[Xix] I problemi di salute mentale, secondo la terminologia attuale, sono diventati ancora più all’ordine del giorno. Abbiamo infatti assistito ad un aumento esponenziale dell’incidenza di depressione, ansia e stress post-traumatico, sia tra le persone contagiate dal virus[Xx] così come a causa dell’isolamento sociale, della disoccupazione, delle perdite private del dolore, dell’insicurezza diffusa, dell’aumento dell’alcolismo, del superlavoro di coloro che erano in cosiddetta “prima linea” nella lotta alla malattia, ma anche degli “uberizzati” e il “cognitariato” o “lavoratori cognitivi” sottoposto al regime di lavoro totale del capitalismo cognitivo e immateriale (Lazzarato & Negri 2001).[Xxi]

In una parola, la pandemia ha portato all’estremo la metafora della “macchina Jagrená”, utilizzata da Anthony Giddens (1991), per evidenziare la mancanza di controllo e prevedibilità del mondo moderno, nonostante il progetto di razionalizzazione che ne è alla base. Dal punto di vista psicologico, l’effetto della rivelazione della mancanza di controllo è stato un aumento significativo della sofferenza psicologica (o “problemi di salute mentale”).

Diamo un'occhiata ai dati. Secondo il Breve scientifico pubblicato dall’OMS nel marzo 2022, la pandemia di Covid-19 ha innescato un aumento del 25% della prevalenza di ansia e depressione nel mondo (Opas, 2022a). I più colpiti sono i giovani e le donne. Nel caso dei giovani ciò è probabilmente dovuto alla chiusura delle scuole, alla limitazione dell’interazione sociale, alla paura della disoccupazione e alle insicurezze che già caratterizzano e affliggono questa fase della vita. Nel caso delle donne, l’intensificarsi della violenza domestica e il sovraccarico del lavoro domestico e di cura, nonché le disuguaglianze strutturali di genere, si aggiungono alle preoccupazioni comuni dell’umanità nei confronti del virus, nonostante le diverse condizioni di vita per proteggersi dai rischi.[Xxii]

Uno studio della Facoltà di Medicina dell’Università del Queensland, in Australia, ha evidenziato anche un aumento del 28% della depressione (53,2 milioni di nuovi casi) e un aumento del 26% dell’ansia (76,2 milioni di nuovi casi) a seguito della pandemia ( Santomauro et al., 2021). Basandosi sui report di 204 Paesi e considerando il periodo da gennaio 2020 a gennaio 2021, lo studio evidenzia anche la maggiore incidenza dei disturbi nei giovani e nelle donne.

In Brasile, nello specifico, un’indagine congiunta condotta dall’organizzazione globale di sanità pubblica Vital Strategies e dall’Università Federale di Pelotas (UFPel), nel primo trimestre del 2022, ha mostrato che si è registrato un aumento del 41% dei casi di depressione nel Paese (Strategie vitali e UFPel, 2022). Tra le donne l'incremento è stato del 39,3%. Anche la depressione postpartum è cresciuta del 20% durante la pandemia, secondo uno studio dell’Hospital das Clínicas della Facoltà di Medicina dell’Università di San Paolo (Galetta et al., 2022).

Nel marzo 2020 – quindi all’inizio della pandemia – lo pneumologo Victor Tseng, dell’Emory University Hospital, ad Atlanta, negli Stati Uniti, ha pubblicato un grafico che mostra gli impatti del Covid-19 sui sistemi sanitari. La quarta ondata, caratterizzata da un aumento continuo nel corso della pandemia, consisterebbe, secondo le previsioni, in traumi psicologici, malattie mentali, burnout e perdite economiche.[Xxiii] Tali dati e informazioni rivelano l’intensificarsi di ciò che era già in atto. Nel 2017 – quindi prima della pandemia –, l’Oms aveva annunciato l’aumento, tra il 2005 e il 2015, del 18,4% dei casi di depressione e del 14,9% dei disturbi d’ansia nel mondo.

Tuttavia, la pandemia non ha comportato solo un aumento dell’incidenza dei disturbi mentali. Evidenziando ulteriormente l’importanza del problema, la pandemia ha messo in luce lo storico sottoinvestimento, su scala globale, nei servizi di salute mentale secondo Dévora Kestel (Opas, 2022a), direttrice del Dipartimento di salute mentale e uso di sostanze dell’OMS.[Xxiv]

È vero che una percentuale significativa dei problemi di salute mentale ricadono sulle popolazioni più vulnerabili e svantaggiate.[Xxv] Tuttavia, i problemi di salute mentale sono anche il contrario della soggettivazione neoliberista, cioè del modo di produzione dell’esistenza, della soggettività e dello stile di vita nella cultura capitalista contemporanea, prevalentemente neoliberista. Pierre Dardot e Christian Laval (2016, p. 357) hanno concettualizzato questo modo di condurre e governare la vita come “ultrasoggettivazione”. Se il principio vitale del neoliberismo è la concorrenza illimitata, in definitiva la competizione non è solo con gli altri, ma con se stessi.[Xxvi]

Si tratta di un’etica – nel senso weberiano della condotta di vita (Weber, 2004) – della performance prodotta dalla cultura neoliberista e incorporata dagli individui come se fosse naturale. O ethos dell’atleta ad alte prestazioni è diventata la norma: raggiungere, raggiungere e superare gli obiettivi. Ma il principio dell’autosuperamento illimitato implica, paradossalmente, l’autosoppressione. In effetti, già Alain Ehrenberg (1996) ha mostrato come successo e fallimento costituiscano due facce dello stesso autogoverno dell’immaginario neoliberista, caratterizzato dall’autore sulla base di una presunta autonomia come norma sociale.

L'esplosione dei casi di depressione, secondo lo studio del sociologo francese sull'argomento, deriva dall'esaurimento individuale e dal modo di denominare la sofferenza psicologica in questa nuova forma di organizzazione sociale secondo la quale gli individui devono fare, sotto la loro esclusiva responsabilità, le scelte migliori (Ehrenberg, 1998). Infatti, secondo la logica del capitale umano, in ogni scelta individuale risiede un investimento con potenzialità reddituali e rendimenti futuri diversi, proprio come un “portafoglio” o “portafoglio” di investimenti finanziari. Il fallimento è anche individuale, secondo il ragionamento largamente diffuso e incorporato nella cultura capitalistica contemporanea.

L’“ultrasoggettivazione” neoliberale che governa gli individui senza evidenti coercizioni esterne (quindi, sulla base di una presunta libertà) produce il “neosoggetto” con le loro diagnosi cliniche (Dardot & Laval, 2016, p. 361-372). Ciò significa che non siamo più nel campo della nevrosi freudiana, possibile a partire dal paradigma disciplinare dell'interdizione. Nel modello sociale post-disciplinare in cui prevale la concorrenza illimitata e in cui gli individui concepiscono se stessi come un’azienda, le tipologie di sofferenza psicologica sono principalmente depressione (espressione di fallimento), ansia (manifestazione di angoscia derivante dal rischio sempre imminente) e la sindrome di burnout (completamento esaurimento lavoro).[Xxvii]

Non a caso, una parola nuova è emersa al ritorno alle attività “normali” dopo l’avanzamento della vaccinazione e il contenimento della letalità del virus SARS-CoV-2. “Ansia da rientro” ha cominciato a designare non solo l’ansia dovuta al ritorno che richiede protocolli di biosicurezza nel contesto pandemico, ma anche l’angoscia di dover affrontare nuovamente attività considerate normali (Reynolds, 2021). Nella sua genealogia del neoliberalismo fondata sullo scontro tra Walter Lippmann e John Dewey – considerando il modo in cui essi ricorrono all’evoluzionismo darwiniano –, Barbara Stiegler (2019; Corbanezi, 2021b) spiega come la questione fondamentale per il neoliberalismo, sin dalla sua elaborazione, consista nel far sì che l’individuo si adatti alle esigenze sempre più elastiche di questo modello sociale.

Il mantra della flessibilità emerge, in questo senso, come strategia di adattamento. Tuttavia, il crescente numero di sofferenze psicologiche – intensificate nel contesto pandemico – può mostrare la naturale resistenza umana a un simile processo di adattamento, nonostante la produzione psicofarmacologica disponibile per normalizzare e ottimizzare i comportamenti e le capacità individuali.

Precarietà

È noto che la pandemia ha intensificato anche i processi di precarizzazione della vita. Si può dire che la precarietà è praticamente un’istituzione moderna,[Xxviii] ecco perché non c’è stato nulla di nuovo nel contesto pandemico, se non l’accelerazione del corso “normale” delle società capitaliste. La precarietà è presente fin dalla fondazione dell’industrialismo moderno, con lo sfruttamento del lavoro minorile e femminile in lunghe ore di lavoro alienato e senza diritti nelle fabbriche. La società capitalista e lo sfruttamento non possono esistere senza precarietà. Così è avvenuto nelle diverse fasi storiche del capitalismo moderno (liberalismo, taylorismo-fordismo, stato sociale, neoliberalismo), nonostante le loro differenze di grado.

Nelle società neoliberiste, il processo di precarietà è portato all’estremo con la sistematica rimozione delle reti di protezione sociale e la deregolamentazione a favore del mercato e del capitale, svantaggiando ulteriormente – sia oggettivamente che soggettivamente – le classi popolari e lavoratrici. Non si tratta esattamente di una “riduzione” dello Stato, come potrebbe far pensare l’espressione “Stato minimo”. Uno Stato forte è parte della dottrina neoliberista dalla formulazione dell’ordoliberismo tedesco all’eredità di Walter Lippmann, Friedrich Hayek e Milton Friedman nel neoliberismo nordamericano (Foucault, 2008b; Dardot & Laval, 2016).

La questione fondamentale è da che parte sta lo Stato: se agisce – come esprime Pierre Bourdieu (1998, 2008a) – con la “mano destra”, cioè a favore di politiche economiche che favoriscono le classi dominanti, o con la “mano destra” mano sinistra”, in termini di sviluppo delle politiche sociali. Nel neoliberismo, nelle sue varie forme empiriche esistenti, predomina ciò che Loïc Wacquant (2012, p. 512) ha designato come “Stato-Centauro”, con volti distinti che rappresentano la dualità in relazione agli estremi della stratificazione sociale: edificante e liberante al vertice e penalizzante e restrittiva sulla base.

Secondo questa logica, nella forma neoliberista prevalente nelle società capitaliste occidentali c’è una “precarietà di base” istituzionalizzata. Ritiro dei diritti sociali, piattaforma, uberizzazione, deregolamentazione del lavoro, informalità, subappalto, degrado salariale, smantellamento di servizi pubblici essenziali come sanità e istruzione. Tutte queste procedure, che danneggiano soprattutto le classi popolari e svantaggiate, costituiscono la precarietà della base della piramide sociale. La sua dimensione è oggettiva e socialmente strutturata.

Pierre Bourdieu (1998) sottolineava, negli anni Novanta, che la precarietà nelle società neoliberiste non è una fatalità economica, ma una strategia politica: in quanto tale, mentre instaura una guerra generalizzata attraverso la competizione di tutti contro tutti, smobilita collettività come associazioni, unioni e solidarietà tra individui.[Xxix]

Tuttavia, la precarietà non si colloca strettamente alla base della piramide sociale. Per essere efficace, deve circolare come valore anche presso le classi dominanti, costituendosi come norma sociale. Vale la pena notare che anche la teoria economica del capitale umano necessitava di convertirsi in valore sociale per orientare la condotta degli individui, come si vede, ad esempio, nella radicale trasformazione della concezione del consumo come forma di investimenti oggi (López-Ruiz, 2007).

Nonostante le differenze, si può dire che la precarietà è, in un certo senso, la modus operandi (almeno ideologicamente) del modo di vivere degli individui che compongono le classi dominanti. In termini di istituzionalizzazione e di norme sociali e culturali, il processo può somigliare sia alla costituzione dell’immagine di superiorità della civiltà occidentale, come analizzata da Norbert Elias (2011), sia all’istituzione di una cultura “legittima”, secondo la sociologia della cultura di Pierre Bourdieu (2007).

In entrambi i casi, ciò che diventa valore sociale considerato legittimo e superiore, con implicazioni in termini di relazioni e di esercizio del potere, proviene dalle nazioni, dai popoli e dalle classi dominanti. In definitiva, potremmo dire, non senza polemiche, che tali dimostrazioni sociologiche sono variazioni del ragionamento secondo cui le idee dominanti di un’epoca sono le idee delle classi (e dei popoli) dominanti (Marx & Engels, 2007).[Xxx]

In questo senso, secondo l'impostazione di Laval (2017, p. 101), è possibile affermare che esiste una “cultura della precarietà” e perfino una “precarietà del lusso”. È evidente che la dimensione e gli effetti della precarietà sono assolutamente diversi tra le classi sociali, spaziando dalla distinzione alla violenza sociale, economica e culturale. Ma è importante notare che essa deriva anche dallo stile di vita predominante, diffuso tra gli imprenditori e i dirigenti ad alte prestazioni, che promuove l’incertezza, il rischio, la mobilità, la velocità, la flessibilità e la deterritorialità, come attributi del capitale finanziario.

La famosa metafora della “liquidità” elaborata da Zygmunt Bauman (2001) esprime proprio la trasformazione della stabilità moderna (in nome dell’ordine sociale) nell’istituzionalizzazione dell’instabilità contemporanea (in nome della presunta libertà individuale). In questi termini, la produzione di instabilità – caratteristica intrinseca della precarietà – non è limitata ai dominati, nonostante la crescente precarietà della classe operaia promossa dalle classi dominanti. In una società divisa tra “vincitori” e “perdenti”, come le competizioni sportive, è chi si assume rischi e incertezze che può raggiungere il podio sociale, secondo la letteratura. .

In altre parole, sono i “rischiosi” (“dominanti coraggiosi”) i potenziali vincitori, in contrapposizione ai “rischiofobi” (“dominati timorosi”), che hanno solo la responsabilità della loro condizione di falliti, secondo i precetti neoliberisti. (Laval, 2017, pag. 104). Il “capitalismo flessibile” analizzato da Richard Sennett (2019) non risiede solo nella flessibilizzazione produttiva e del lavoro tipica dell’attuale paradigma produttivo. Essere flessibili – e quindi più adattabili – è la norma per uno stile di vita il cui esempio viene dall’alto. La “forza di carattere” del capitalista oggi – dice Sennett – è quella di “qualcuno che ha la sicurezza di resistere nel disordine, qualcuno che prospera nel mezzo della dislocazione. […] I veri vincitori non soffrono di frammentazione” (Sennett, 2019, p. 72).

In senso lato, precarietà significa non solo insufficienza e scarsità, ma anche incertezza, provvisorietà, instabilità, transitorietà. Se questi ultimi significati intensificano i primi quando vengono vissuti dalle classi popolari, sono gli stessi secondi significati ad attestare la vera pedigree dei “rischiosi”. Velocità per molteplici spostamenti (geografici, digitali, interorganizzativi, professionali), versatilità, resilienza, flessibilità, autonomia e ottimismo. Secondo i precetti managerialisti socialmente diffusi, tutte queste caratteristiche costituiscono le vere differenze che rendono possibile il successo nell'attuale fase del capitalismo, quando combinate con intelligenza, creatività, capacità comunicativa, capitale sociale.

A poco a poco, la precarietà, in questo senso allargato, potrà poi costituirsi come cultura, norma e anche distinzione sociale. Per il ethos Imprenditore e dirigente dominante, la stabilità è diventata sinonimo di accomodamento, pigrizia, fallimento. Non sorprende che la stabilità del servizio pubblico sia stata uno degli obiettivi privilegiati del discorso neoliberista a partire dagli anni 1990. Nella “modernità liquida” analizzata da Bauman (2001) – in cui i legami sociali stessi sono provvisori e disponibili, secondo il capriccio di convenienza –, la transitorietà tra diversi lavori e la flessibilità in essi costituiscono una disposizione fondamentale per il successo.

Un esempio della promozione di tale idea risiede nel concetto di “carriere senza frontiere”, secondo il quale gli investimenti permanenti nell’occupabilità e nella mobilità tra le carriere sono vitali per una minoranza di lavoratori altamente qualificati che occupano il vertice della gerarchia sociale (Souza , Lemos & Silva, 2020). È chiaro come la precarietà riguardi il ethos dominante, anche se la sua estensione sociale e la sua forma concreta coinvolgono in modo diseguale classi e gruppi sociali. Così come le idee, lo stile di vita dominante tende ad essere lo stile di vita dei dominanti, che sono individui deterritorializzati, in rapido movimento, promotori di rischio e incertezza – nei termini di Bauman (2001, p. 22), i “padroni assenti”, i cui il prototipo è Bill Gates.[Xxxi]

Nel diagnosticare il passaggio dalla formazione storico-sociale disciplinare al regime di controllo postdisciplinare, in cui operano allo scoperto gli imperativi aziendali della mobilità, della velocità e della formazione permanente, Gilles Deleuze (1992, p. 226) afferma: un serpente sono ancora più complicati dei buchi di una talpa.” Nonostante la considerazione dell'autore secondo cui ogni regime ha le proprie sottomissioni e liberazioni, questo è un modo per dire che la modulazione (adattamento, flessibilità, instabilità) si rivela più dannosa del modellamento istituzionale disciplinare.

Ma la razionalità neoliberista – basata sui principi di illimitatezza, competitività, transitorietà, mobilità, velocità e deterritorialità – non solo “intensifica” la precarietà oggettiva, ma causa anche la precarietà soggettiva come standard. Secondo la sociologa Danièle Linhart (2009), anche tra i dipendenti stabili, la logica manageriale delle società capitaliste contemporanee solleva una diffusa precarietà soggettiva basata sulla richiesta di eccessiva produttività, sulla concorrenza tra pari e istituzioni e sulla conseguente individualizzazione e isolamento sociale.[Xxxii]

L’effetto di questo stile di vita dominante, basato sullo sfruttamento soggettivo, sul rischio e sull’eccesso tipico della cosiddetta “performance society” (Han, 2017), è la produzione di esaurimento, sofferenza psicologica e disturbi mentali (sindrome burnout, depressione, ansia, insonnia), anche se – vale sempre la pena insistere – l’incidenza, la forma e il grado della precarietà sono profondamente diversi tra le classi sociali e le diverse occupazioni.[Xxxiii]

La pandemia di Covid-19 ha inoltre intensificato la precarietà soggettiva. Dopo una breve sospensione delle attività, tutto è tornato ancora più velocemente, seppur in modalità “a distanza”. Tuttavia, non è inappropriato notare che, durante la crisi pandemica, le élite economiche che propugnano flessibilità e nomadismo ultrarapido si sono adattate nel comfort delle loro case allo stile di vita sedentario della solida modernità, a differenza dei lavoratori in prima linea ”. ”, la cui precarietà oggettiva e soggettiva ne degrada ancora una volta le condizioni strutturali e strutturanti, nei termini dello strutturalismo genetico di Pierre Bourdieu (1983).

In questo senso, come certifica l’antropologo João Biehl (2021, p. 243), la pandemia deve essere considerata un evento “cronico aggravato”, poiché ha messo in luce vulnerabilità strutturali e modalità di funzionamento del modello sociale egemonico. La pandemia costituisce quindi un evento sociologico di fondamentale importanza.

Conclusione

Nell’esaminare i processi contemporanei di soggettivazione neoliberista, analizziamo sia isolatamente che in relazione ai concetti-eventi “salute mentale”, “pandemia Covid-19” e “precarietà”. In quanto assoggettamento e modalità di produzione dell'esistenza, i processi di soggettivazione in corso tendono a produrre una forma di soggettività dominante e comune, nonostante l'incitamento alla differenza individuale tipica dell'immaginario neoliberista. Nonostante il principio di ottimizzazione della salute mentale, secondo la trasmutazione semantica di questo concetto basata sulla sua appropriazione neoliberista, le società capitaliste occidentali contemporanee non solo rafforzano la precarietà oggettiva – in particolare nelle società periferiche, come il Brasile – ma provocano anche una precarietà soggettiva.

Tali processi si sono notevolmente intensificati durante il periodo pandemico, accentuando la contraddizione secondo cui una società che incoraggia costantemente la performance e la promozione della salute mentale produce paradossalmente fatica e sofferenza psicologica (Han, 2017), così come l’infelicità cronica come effetto di una società che concepisce la vita esclusivamente come ricerca della felicità (Sahlins, 2004, p. 23).

Insieme, i termini “salute mentale”, “pandemia” e “precarietà” indicano una soggettivazione caratterizzata da esaurimento, un rapporto con la soggettività simile al modo in cui il capitalismo estrattivo e predatorio si relaziona alla natura e all’ambiente. In altri termini, nel contesto della razionalità neoliberista post-pandemica, assistiamo anche all’esaurimento dell’ecologia psichica, che può configurare la nostra contemporaneità come un tempo di esaurimento totale, se considerati insieme il rapporto industriale dell’essere umano con la natura e con se stessi.

Da un lato, una tale affermazione può incoraggiare la necessità di inventare e promuovere nuove forme di soggettività, rifiutando (e resistendo) a quella che ci è stata silenziosamente imposta (Foucault, 1994, p. 239). D’altra parte, poiché non siamo una società contro lo Stato – come i popoli indigeni studiati da Pierre Clastres (2013) –, è necessaria un’organizzazione statale a favore della società, contrariamente al famoso motto neoliberista thatcheriano secondo cui “non esiste alcuna società, solo individui".

L’uscita dalla crisi di esaurimento totale derivante dalla razionalità neoliberista e intensificata nel contesto pandemico richiede l’invenzione di altre forme di socialità non distruttiva, come quella basata sui principi di individualismo, precarietà e concorrenza illimitata.

*Elton Corbanez è professore presso il Dipartimento di Sociologia e Scienze Politiche dell'Università Federale del Mato Grosso (UFMT). Autore di Salute mentale, depressione e capitalismo (Unesp).

Originariamente pubblicato su Magazine Società e Stato (UnB), vol. 38, n. 2, 2023.

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note:


[I] Questa logica è simile all’appropriazione da parte del capitalismo post-disciplinare contemporaneo degli elementi che sostenevano sia la critica del lavoro taylorista sia la produzione artistica (vale a dire: creatività, invenzione, affetti, mobilità, flessibilità), come mostrato da Luc Boltanski e Ève Chiapello ( 2011). Tali caratteristiche, vigenti nell’attuale paradigma produttivo, che valorizza la soggettività, si contrapponevano alla ripetizione meccanica presente nel lavoro nella sua forma disciplinare (Lazzarato & Negri, 2001).

[Ii]Per quanto riguarda l’espressione concettuale “razionalità neoliberale”, si veda, in particolare, Pierre Dardot e Christian Laval (2016), il cui lavoro segue il percorso inaugurato da Michel Foucault (2008b) nella sua analisi della razionalità politica del neoliberalismo. Vedi anche Elton Corbanezi e José Miguel Rasia (2020).

[Iii] Anche Christian Laval (2020, p. 280-281) sottolinea come lo sport competitivo sia “la metafora dell’illimitatezza umana al centro dell’immaginario neoliberista”.

[Iv] L'esposizione che segue, in questa sezione dell'articolo, si basa soprattutto su Corbanezi (2021a).

[V] In effetti, il procedimento genealogico di Friedrich Nietzsche (1998) consiste nel mettere in luce l'appropriazione e l'attribuzione di significato alla conoscenza, ai valori, al linguaggio e alle finalità istituzionali. Interrogato, lo stesso Foucault (1994, v. 4, p. 731) riconosce che la sua Storia della follia potrebbe essere intesa come una «'nuova genealogia della morale' […] senza la solennità del titolo e la grandiosità che Nietzsche imponeva a esso” ..

[Vi] Si veda al riguardo, ad esempio, il libro-relazione di Daniela Arbex (2013).

[Vii] Sul tema si veda il rapporto del Consiglio federale di psicologia (2020). Effettuata nel dicembre 2018, l’ispezione nazionale ha esaminato 40 ospedali psichiatrici in Brasile, situati in 17 stati nelle cinque regioni nazionali. Secondo il rapporto (CFP, 2020, p. 17), il campione corrisponde a circa un terzo del numero totale di ospedali psichiatrici con letti pubblici operativi nel Paese. Il rapporto si conclude con raccomandazioni per un’efficace deistituzionalizzazione, come stabilito dalla legge 10.2016/2001 (Legge di riforma psichiatrica), poiché “gli istituti ispezionati soddisfano diversi requisiti che li caratterizzano come manicomi, violatori dei diritti umani e, in molti dei casi segnalati, autori di reati di pratiche inumane, degradanti e di maltrattamenti” (CFP, 2020, p. 506).

[Viii] La deistituzionalizzazione è un processo di rottura più radicale, che non significa solo deistituzionalizzazione, ma lo smantellamento del dispositivo psichiatrico che istituzionalizzava la malattia mentale e l’implementazione di una solida rete di alternative comunitarie. In questo senso spicca l’esperienza della psichiatria democratica italiana, con l’istituzione della Legge 180, detta anche “Legge Basaglia”, nel 1978 (OMS, 2001, p. 80-81 e 122). Sul concetto di deistituzionalizzazione si veda Denise Dias Barros (1990).

[Ix] Etimologicamente la parola “asilo” è costituita dalla congiunzione del termine greco manía (follia, demenza) e del verbo greco koméó (prendersi cura, prendersi cura) (Houaiss & Villar, 2009).

[X] Nel Rapporto (OMS, 2001), il termine “malattia mentale” appare in forma diminutiva, mentre abbondano le espressioni “problema di salute mentale” e “disturbo mentale”. Allo stesso modo, la presentazione della pubblicazione dell'undicesima edizione della Classificazione internazionale delle malattie dell'OMS (ICD-11) utilizza l'espressione “condizioni di salute mentale” per riferirsi ai disturbi mentali (Opas, 11). È importante notare che il termine “disturbo mentale” è stato utilizzato fin dalla prima edizione del DSM (American Psychiatric Association, 2022) a causa della mancanza di conoscenze fisiopatologiche riguardanti le malattie mentali. La sua definizione appare con sottili variazioni a partire dal DSM III (American Psychiatric Association, 1952). In accordo con il DSM, anche la Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD), dell’OMS (1980) e dell’OPS (1993a), utilizza il termine “disturbo” per le patologie mentali, mentre per le altre specie patologiche, utilizza efficacemente i concetti di “ malattia” o “malattia”.

[Xi] Oltre agli psichiatri, il campo della salute mentale è composto, tra gli altri, da infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori e terapisti occupazionali.

[Xii] Sulla governamentalità neoliberista in relazione alla “nuova cultura psicologica” post-psicoanalitica, che circoscrive la cosiddetta “terapia del normale”, si veda la “Prefazione” (2011) di Castel alla ristampa del suo libro, a 30 anni dalla sua uscita.

[Xiii] Si veda a questo proposito, ad esempio, l’iniziativa Critical Pandemic, dell’Editora N-1, che, per circa cinque mesi, ha pubblicato sul suo sito un testo al giorno di intellettuali, artisti, leader indigeni, tra gli altri analisti e attivisti di tutto il mondo. nel mondo (Pelbart & Fernandes, 2021; 2021a). I testi sono disponibili anche su: . Accesso effettuato il: 1 agosto. 21.

[Xiv] Secondo Elias (2011), disgusto, vergogna e senso di colpa costituiscono tre importanti vettori nella psicogenesi del lungo processo di civilizzazione occidentale. Tutto indica che la cosiddetta “nuova normalità” è diventata un’accelerazione nel corso igienico del processo di civilizzazione analizzato dal sociologo tedesco, considerando il relativo mantenimento dei protocolli di biosicurezza (maschere, gel alcolico, evitamento del contatto umano) dopo il contenimento della pandemia. Secondo Elias (2001), potremmo anche dire che la pandemia ha portato all’estremo la solitudine a cui sono condannati i moribondi, considerando il necessario isolamento all’interno della casa stessa, nell’ospedale e nel rito funebre, circondati da una brutale asepsi. nel contesto della crisi sanitaria. Per quanto riguarda la nostra problematizzazione della “nuova normalità”, si veda Corbanezi (2022).

[Xv] Utilizzando la terminologia kantiana, Durkheim presenta così “l’imperativo categorico della coscienza morale”, che andrà formandosi nelle società moderne: “Mettiti nelle condizioni di svolgere fruttuosamente un ruolo specifico” (Durkheim, 2010, p. 6, corsivo nell'originale).

[Xvi] Sulla prima morte causata dal Covid-19 nel Paese, vedi Cláudia Collucci (2022). Scriviamo “naturale” tra virgolette considerando che le catastrofi classificate come “naturali” sono, in larga misura, conseguenze non intenzionali (e quindi impreviste) dello sviluppo scientifico e tecnologico delle società industriali (Beck, 2011).

[Xvii] Secondo un’analisi di Mike Davis (2020), nel pieno della crisi, la pandemia del nuovo coronavirus – esacerbata dall’austerità fiscale – ha aumentato la disuguaglianza tra e all’interno dei paesi, imponendo un aumento della miseria sulla classe operaia e sui gruppi più vulnerabili e ripetendo , quindi, la storia di altre crisi globali nel/del capitalismo, come la pandemia di influenza spagnola nel 1918 e le crisi economiche del 1929 e del 2008.

[Xviii] Per una comprensione alternativa al paradigma bellico della concezione del virus, vedere Ferreira (2020).

[Xix] L’espressione “sintomi di salute mentale” (Barbosa et al, 2021) per riferirsi a sintomi di ansia, depressione e stress, ad esempio, spiega il paradosso in questione.

[Xx] Ci riferiamo alla condizione post-Covid-19, chiamata anche Covid lungo e neurocovid (sintomi neurologici e psichiatrici derivanti dal Covid-19). La condizione post-Covid-19 ha ricevuto una definizione clinica ufficiale da parte dell’OMS nell’ottobre 2021 (ONU, 2021). Sulla condizione post-Covid cfr . Accesso effettuato il: 19 agosto 19.

[Xxi] La categoria dei “lavoratori cognitivi” coinvolge diversi segmenti, come gli impiegati nelle grandi aziende, gli insegnanti, i ricercatori, tra gli altri professionisti che impegnano nelle loro attività capacità cognitive come l’intelligenza e la creatività. Per questo motivo, secondo Franco “Bifo” Berardi, la categoria non è riducibile a una classe sociale. Secondo il pensatore e attivista politico italiano, ciò che potrebbe unirli in un “processo di autoriflessione, ribellione e unione della soggettività cognitiva è la sofferenza psicologica, il disagio etico ed esistenziale” (Berardi, 2019, sp).

[Xxii] Come avvertito dal leader indigeno Ailton Krenak (2020, p. 6), proprio all’inizio della pandemia, il virus non rappresentava una minaccia per il pianeta Terra, ma solo per l’umanità, motivo per cui il virus metteva in discussione la prospettiva antropocentrica dell’uomo. umanità, civiltà occidentale.

[Xxiii] La grafica originale è visibile al seguente link: . Accesso effettuato il: 1244671755 agosto. 781898241. Basandosi sul concetto di sindemia (interazione sinergica tra due o più malattie, in cui gli effetti si potenziano reciprocamente), una proiezione globale simile può essere vista in José Patrício Bispo Júnior e Djanilson Barbosa dos Santos (25, p. 2022 ). Vale la pena notare, tuttavia, che uno studio dell’UFG in collaborazione con Unifesp, Ufes e l’Università di Zurigo (Svizzera), pubblicato nel giugno 2021, ha mostrato che, in Brasile, i livelli di ansia e depressione erano più bassi nella quarta ondata di Covid-8 (gennaio 2022) rispetto alla prima (giugno 19). Il motivo principale è che, nella quarta ondata, i partecipanti alla ricerca erano meno isolati e più attivi fisicamente rispetto alla prima. Tuttavia, nonostante la riduzione, i livelli di depressione e ansia rimangono elevati, sottolineano gli autori.

[Xxiv] Sulla carenza di servizi di salute mentale in Brasile si veda la serie di resoconti della Folha de S. Paulo dal titolo “Brasil no Divã”, in particolare l’articolo di Júlia Barbon e Adrian Vizoni (2022).

[Xxv] Si veda a questo proposito, ad esempio, lo studio sui gravi impatti della violenza sulla salute mentale dei residenti di Maré, un complesso di favela a Rio de Janeiro (Redes da Maré & Peoples Palace Projects, 2021). La ricerca è stata condotta in collaborazione con la Scuola di Servizio Sociale e l'Istituto di Psichiatria dell'Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ), nonché con il Centro di Studi in Economia della Cultura dell'Università Federale di Rio Grande do Sul (UFRGS).

[Xxvi] Ecco come gli autori caratterizzano l’“ultrasoggettivazione”: “In definitiva, la soggettivazione “contabile” e la soggettivazione “finanziaria” definiscono un soggettivazione per eccesso di sé in sé, o anche da auto-miglioramento indefinito. […] In un certo senso, è un 'ultra"soggettivazione", il cui obiettivo non è uno stato ultimo e stabile di "autopossesso", ma oltre te stesso sempre respinto […].” (Dardot & Laval, 2016, p. 356-357, corsivo nell'originale).

[Xxvii] Per quanto riguarda la fatica come effetto della società della performance, si veda Byung-Chul Han (2017) e Corbanezi (2018).

[Xxviii]  Pensiamo, qui, al modo in cui Giddens intende il concetto di “istituzione” nella sua teoria della strutturazione, vale a dire: come pratiche sociali routinizzate riconosciute dai membri di un collettivo (Giddens, 2009, p. 20; Cohen, 1999, p. 426-427).

[Xxix] Non è nostro scopo qui approfondire lo studio del tema della precarietà nel mondo del lavoro contemporaneo, così come affrontato in modo ampio e notevole dalla sociologia del lavoro. Ci limitiamo quindi ad indicare alcuni riferimenti rilevanti sulla questione. A livello internazionale si possono evidenziare Robert Castel (2010) e Guy Standing (2014); a livello nazionale spiccano gli studi di Ricardo Antunes, Ruy Braga, Tânia Franco, Graça Druck, Cinara Rosenfield, tra gli altri.

[Xxx] È noto che sia Elias (2000) che Bourdieu (1989) criticano il presunto riduzionismo economico a partire dal quale il materialismo storico di Marx ed Engels concepirebbe la disuguaglianza e il conflitto sociale. Le idee, però, si collocano nel campo simbolico, attraverso il quale, secondo gli stessi sociologi contemporanei, si verificano anche rapporti di potere.

[Xxxi] Richard Sennett (2019, p. 71-72) esemplifica lo scontro tra il paradigma fordista e quello cognitivo flessibile attraverso le figure rispettivamente di Rockfeller e Bill Gates, che costituiscono i modelli di modernità solida e modernità liquida, nei termini di Bauman (2001) .

[Xxxii] Riguardo a questa realtà nella politica e nella vita accademica, si veda il nostro breve saggio sul produttivismo accademico e la salute mentale (Corbanezi, 2021c).

[Xxxiii] Per quanto riguarda l’esaurimento mentale derivante dai nuovi rapporti di lavoro e dalla precarietà, vedere Tânia Franco, Graça Druck & Edith Seligmann-Silva (2010).


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