Nessuna linea guida: Parva estetica

Immagine: Wikipedia, Chiesa della Santissima Trinità, meglio conosciuta come Chiesa di Wotruba
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da LUCIANO GATTI*

Presentazione all'edizione brasiliana del libro recentemente pubblicato da Theodor Adorno.

Nell'edizione tedesca delle Opere complete di Adorno, Nessuna linea guida integra i due volumi di saggi che portano il titolo di Critica la cultura della e società. Approfittando del sottotitolo della prima delle quattro raccolte ivi pubblicate, il suo editore, Rolf Tiedemann, ha messo sotto lo stesso segno due decenni di intensa pratica saggistica del dopoguerra.

Contrariamente a quanto osservato in scritti musicali, nos scritti sociologici o dentro note di letteratura, il ritaglio non è tematico. Il curatore si avvale di un'intenzione presente nell'ampio spettro degli oggetti di riflessione di Adorno, qui esposti in un registro condensato. Le analisi di opere letterarie e musicali condividono lo spazio con ponderose riflessioni di critica e filosofia; la valutazione dei fenomeni dell'industria culturale si affianca a considerazioni sul ruolo dell'educazione in una Germania che riemerge dalla catastrofe di Auschwitz. In tutti i temi viene evidenziata la dimensione critica di un pensiero che attraversa i confini tra le discipline accademiche per esporre l'iscrizione storica e sociale dei fenomeni culturali, compreso questo stesso pensiero.

Nessuna linea guida segui quello spirito. Pubblicato nel 1967, Adorno lo vide come una sorta di propedeutica al teoria estetica che poi ha scritto. Il sottotitolo - Stupida Estetica [piccola estetica] - indica un insieme di riflessioni sugli oggetti artistici, ma il titolo pone una domanda sul significato dell'estetica per l'arte moderna. Come pensare a una teoria estetica che non sistematizzi la produzione del suo tempo né offra una guida a chi si sente smarrito di fronte a fenomeni non leggibili alla luce delle categorie ordinate della tradizione?

Questo conflitto si replica nella laboriosa costruzione delle frasi di Adorno, muovendosi tra poli opposti con l'intento di esporre contraddizioni che non sono altro che la questione in questione. Nel saggio che dà il titolo al volume, così come in quello che lo completa riflettendo su “Sulla Tradizione”, Adorno mette in primo piano la problematicità del rapporto tra presente e passato, che può anche essere osservata, da diverse angoli, in ognuno dei saggi di questo volume.raccolta. Se norme e linee guida per la produzione spirituale non sono più estraibili dalle opere d'arte contemporanee, né possono essere fornite dal pensiero, la stessa situazione dell'arte diventa un problema da considerare, oltre che un angolo privilegiato per l'elaborazione di una diagnosi di il tempo presente.

Discutendo del concetto di tradizione, Adorno, che ha avuto il suo pensiero a stretto contatto con l'arte moderna ed è sempre stato critico nei confronti delle idealizzazioni di una Germania preindustriale, cerca di mostrare quanto il ricorso al passato alla ricerca di norme guida abbia diventare se fastidioso. Se la tradizione è da lui pensata soprattutto come un processo di trasmissione, la sua crisi è segno di una rottura dei legami che uniscono l'era presente al passato. L'arte moderna ha dimostrato un'acuta consapevolezza di questa crisi rilevando che i suoi materiali e procedimenti, compresa l'idea stessa di arte, non possedevano più l'evidenza che la tradizione dava loro.

Almeno da Baudelaire, la modernità come coscienza d'epoca implica una riflessione sulle discontinuità tra il momento attuale e quello precedente. Le norme del passato perdono zavorra nell'esperienza concreta attuale e, quindi, non riescono a essere all'altezza del proprio nome. Di fronte a ciò, Adorno rileva una reazione nella Germania del dopoguerra che è, contemporaneamente, un rifiuto dell'arte moderna e una nostalgia per i tempi passati, fenomeno analizzato anche nel saggio “Proposta costruttiva”. Se Adorno si rese infatti ben presto conto che le promesse di liberazione individuale generate sulla scia dell'ascesa borghese si accompagnavano anche a meccanismi di dominio, non mancò di rilevare che le comunità precapitaliste, con i loro legami personali più immediati, diverse dall'impersonalità dello scambio mercantile, erano segnate anche da regole imposte alle persone. La nostalgia di una vita comunitaria coesa e sostanziale copriva la cecità nei confronti delle forme di dominio precapitaliste.

Lo stesso è accaduto con le produzioni culturali del passato. La presunta superiorità delle opere d'arte di epoca preborghese per la loro “completezza, coerenza ed evidenza immediata”, in contrasto con la presunta anarchia della produzione contemporanea, presupposti come valori eterni che erano storici ed erano entrati in declino. Adorno, tuttavia, sottolinea che tali modifiche non sono state arbitrarie, ma hanno avuto radici nell'arte stessa, che è stata tecnicamente trasformata da posizioni critiche verso la produzione precedente. La superiorità delle fughe di Bach rispetto ai brani dei suoi predecessori o l'invenzione della prospettiva in pittura sono ricordate come esempi di una caratteristica dinamica delle tecniche artistiche che spinge l'arte oltre la tradizione. Questa difesa antitradizionalista del progresso nell'arte si riassume in una frase lapidaria di Paul Valéry: “nell'arte, il meglio del nuovo corrisponde sempre a un'esigenza antica”. Di qui l'anacronismo di cercare nell'arte del passato e nella sua corrispondente visione del mondo un serbatoio di precetti che fungano da linea guida per la cultura contemporanea.

Una diagnosi che indichi l'obsolescenza delle categorie ordinate dell'estetica della tradizione potrebbe concludere che la considerazione filosofica dell'arte avrebbe i giorni contati, lasciando che la riflessione si dedichi all'analisi delle opere, in particolare alla loro tecnica. In molti sensi, questo è ciò che fa Adorno, come può vedere chiunque legga i suoi saggi di letteratura e musica, attento ai minimi dettagli della costruzione di ogni opera. Accade così che Adorno sostenga che la forza del pensiero lo spinge anche verso l'universale. E ancora: il pensiero non deve rinunciare a separare il vero dal falso quando considera le opere d'arte. Rinunciare all'universale sarebbe un segno di rassegnazione.

La domanda che allora si pone è come giustificare questo giudizio rivolto sia all'oggetto sia a un universale che non è né un insieme di regole astratte né incapace di raggiungere i dettagli della produzione artistica. La questione è simile a quella della persistenza della tradizione: se gli scrittori avanzati non si sentono parte di una tradizione letteraria, il linguaggio che mobilitano non significa che sia privo di storia, con tutta la sofferenza accumulata che comporta. “Ecco perché la tradizione si trova oggi di fronte a una contraddizione insolubile. Nessuna tradizione è attuale o dovrebbe essere invocata; ma se uno si estingue, allora comincia la marcia verso la disumanità”.

Le risposte di Adorno non sono mai semplici, né espresse in frasi trasparenti. Trattandosi della produzione dell'opera d'arte, cerca di evidenziare il contenuto di oggettività del procedimento soggettivo. Pensando all'arte come relazione tra soggetto e oggetto, scarta l'idea che una materia inerte riceva il suo significato dall'artista sovrano. Il materiale, al contrario, porta con sé un'organizzazione, persino un'intenzione che deriva dalla sua storia; la materia, insomma, non è il suono o il colore, per esempio, ma le relazioni di suoni e colori finora prodotte. L'artista, a sua volta, non è il creatore assoluto, il demiurgo che crea qualcosa dal nulla; si costituisce come artista molto di più dal modo in cui affronta i problemi che lo hanno preceduto.

Questo è ciò che fa identificando ciò che è obsoleto nel materiale della tradizione, ciò che dovrebbe essere messo da parte e ciò che può essere rielaborato per far avanzare la produzione. La libertà dell'artista, in questo senso, è inseparabile dalle esigenze del tempo stesso, o dallo stato della tradizione, entrambi oggettivamente configurati nella situazione dei procedimenti materiali e artistici. L'individualizzazione, tra l'altro, si forma in questo contatto con la logica stessa del materiale, che può essere trasformata dall'artista solo a patto che ne rispetti la legalità. Questo processo non è altro che lo sviluppo della tecnica artistica, insieme oggettiva e soggettiva, materiale e spirituale. È in lei, infine, che Adorno rileva la dimensione universale da considerare per la riflessione estetica nella sua ricerca della verità delle opere: ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, è la sfera della tecnica”.

Adorno non sarebbe arrivato a queste formulazioni senza un'attenta attenzione alla riflessione che l'arte moderna ha saputo sviluppare immanentemente nella propria prassi. Suo merito è stato quello di rifiutare norme e linee guida senza ricadere nel caso, pur portando avanti l'idea della costruzione integrale dell'opera d'arte senza sottrarsi alla critica della concezione dell'opera d'arte come manufatto pieno di significato. L'esempio di Beckett, probabilmente il più importante artista del dopoguerra di Adorno, dà la giusta dimensione al problema.

parti come EspeRando Godot e fine del gioco mise in scena quella che Adorno chiamava una parodia del dramma. Beckett ha mobilitato componenti tradizionali del genere, dalla curva drammatica allo sviluppo del personaggio, ma li ha usati in un modo che ha mostrato quanto fossero diventati obsoleti. Il teatro, con la sua enfasi sulla libertà dell'individuo di prendere decisioni e modificare il destino, non era più il genere appropriato per un'epoca segnata dal declino dell'individuo. Allo stesso tempo, il presente non ha saputo superare le vestigia dell'epoca precedente, così si è lasciato leggere nelle rovine di una tradizione in crisi.

Attribuendo nuove funzioni ai procedimenti tradizionali, il teatro beckettiano introduce innovazioni di grande portata tecnica, riflettendo al tempo stesso sulla tradizione senza bisogno di teorizzare su di essa. Come indica Adorno ricordando l'ammirazione di Beckett per Effi Briest di Theodor Fontane, un romanzo che non serve in alcun modo come parametro per la scrittura contemporanea, la tradizione non è più la norma da seguire, ma un modello dell'irrecuperabile. La sua permanenza non sta nel resistere al passare del tempo, ma nel soccombere al suo corso. “Chi non vuole tradire la felicità [Beatitudine] che promette ancora in molte delle sue immagini, la possibilità scossa che si nasconde sotto le sue rovine, deve prendere le distanze dalla tradizione che abusa di possibilità e significato fino a convertirli in menzogna. La tradizione può ritornare solo in ciò che implacabilmente la nega”.

Lo stesso rapporto problematico con il passato motiva la feroce polemica di Adorno contro la distorsione del barocco, fenomeno stimolato anche dalla nostalgia di un'epoca ordinata, precedente al consolidamento della società borghese. Sulla scia di storici come Heinrich Wölfflin e Alois Riegl, Adorno riconosce nel Barocco l'ultimo grande stile artistico dell'architettura e delle arti visive. L'idea di un barocco musicale, capace di racchiudere le più diverse composizioni del Seicento e del Settecento, risveglia però le riserve di Adorno nei confronti dell'applicazione generalizzata del termine, che si accompagna all'impoverimento dell'ascolto musicale. Il problema, che potrebbe essere confinato al mercato fonografico e ai festival musicali, permea anche il lavoro di musicologi seri come Friedrich Blume, che ne difese il concetto attraverso vaghe approssimazioni con le arti visive o basandosi sul concetto riscaldato dello spirito di i tempi.

La moda barocca contemporanea aveva poca somiglianza con la sua forza come stile. È quanto indica Adorno recuperando il concetto di “strutturazione” proposto da Riegl per dimostrare che gli effetti decorativi e illusionistici delle grandi opere barocche non erano superflui oggetti di scena, ma risultavano dalle loro caratteristiche costruttive. L'opera di uno storico come Riegl permise anche di comprendere meglio il concetto stesso di stile, permettendo così di differenziare la produzione attuale dalle grandi opere dell'epoca.

Nella formulazione di Adorno, le opere più significative non sono quelle che recepiscono in pieno tutte le caratteristiche dello stile, ma, al contrario, quelle che lo utilizzano anche per negarlo. La particolare opera si esprime inizialmente nel linguaggio artistico del suo tempo, ma la forza che la spinge verso l'autonomia la costringe anche a confrontarsi con convenzioni oggettive alla ricerca di un proprio linguaggio. È la contraddizione tra autonomia e stile che differenzia le opere di maggiori dimensioni dalla produzione quotidiana, quest'ultima più obbediente allo stile del tempo. È la stessa autonomia, a sua volta, che porterà, soprattutto dal Romanticismo in poi, al declino della nozione stessa di stile come forza formatrice dell'arte di un'epoca. Paradossalmente, l'autonomia sarà anche responsabile di generare nostalgia per un ritorno alla coesione che il suo avanzare ha distrutto. Trattandosi qui del rapporto tra il particolare e l'universale, tra l'opera e la sua adeguatezza o meno alle convenzioni, la descrizione dell'industria culturale come realizzazione di uno stile totale attraverso la perfetta adeguatezza del particolare alla volontà universale non essere così strano.

L'attenzione di Riegl e Wölfflin agli elementi costruttivi del barocco serve anche ad Adorno per mettere a fuoco l'opera di colui che è, contemporaneamente, il più grande compositore dell'epoca e il più inadeguato al concetto di barocco: Bach. Se c'era qualche rilevanza nel riavvicinamento tra musica e arti visive, poteva essere trovata nel rapporto tra l'apparenza illusionistica e la costruzione tecnica, evidenziata dall'idea di un elemento strutturante. Nasce così l'analisi di una fuga a cinque voci Il chiodo di garofano ben temperato rivela la connessione tra l'effetto illusionistico e il sovvertimento della logica più rigorosa della fuga: nella sua parte finale, il stretto, la ripetuta sovrapposizione delle parti iniziali dei temi risulta nella simulazione di una molteplicità di voci che, in realtà, non esistono. Le cinque voci, articolate nella forma rigorosa della fuga, attraverso un artificio nella ripetizione dei temi, apparire come se ci fossero dieci o più voci. Poiché Adorno comprende che questa dimensione illusionistica permea l'intero sistema tonale, il successivo abbandono del tonalismo può anche essere interpretato come una critica all'aspetto dell'opera d'arte.

È la stessa enfasi sulla tecnica costruttiva che giustifica la critica di Adorno di equiparare Bach a una concezione diffusa del barocco musicale oa contemporanei inferiori come Handel. È anche il carattere strutturante della tecnica musicale a fare da argomento contro la forte tendenza delle interpretazioni storiche che si installeranno nella pratica musicale a partire dalla metà del Novecento, dispiegandosi sia nell'uso di strumenti d'epoca sia nel restauro di pratiche esecutive da documenti storici.

Riprendendo argomenti che aveva già esposto nel saggio “In difesa di Bach contro i suoi estimatori”, pubblicato in Prismi, fa riferimento alla varietà degli strumenti dell'epoca, uno degli incantesimi del barocco per i suoi estimatori, alla precaria organizzazione della produzione strumentale e all'ancora incipiente razionalizzazione del timbro musicale. In questo contesto, la mancanza di indicazioni precise di molti brani riguardanti la strumentazione, come il sfuggire all'arte o offerta musicale, entrambi di Bach, è considerato un'indicazione che la musica era più avanzata dei mezzi disponibili per la sua esecuzione all'epoca.

Suonare Bach al pianoforte o con gli strumenti dell'orchestra contemporanea non sarebbe, quindi, un anacronismo, ma la realizzazione di potenzialità musicali non disponibili al momento della sua composizione. L'anacronismo starebbe, invece, nel dare un carattere di necessità ad una strumentazione che, all'epoca, era casuale, proiettando nel barocco una concezione della strumentazione che si sarebbe affermata solo in seguito. Per questi motivi, un'interpretazione “attuale” di Bach sarebbe quella che evidenzia gli elementi “strutturanti” dell'opera compositiva, cioè le connessioni latenti di motivi musicali che arrivano fino ai più piccoli dettagli del brano.

Poiché Adorno individua un processo di razionalizzazione anche nella costruzione degli strumenti, oltre che nell'esecuzione musicale, solo gli strumenti moderni potrebbero spiegare che le opere di Bach erano già completamente strutturate, come Adorno rileverà in Beethoven e nei suoi successori. Mostrando che l'opera non è un mero adattamento a uno stile d'epoca, la performance metterebbe in pratica la critica dell'apparenza sviluppata dalla coscienza musicale più avanzata. Questo sarebbe, in definitiva, l'antidoto contro il “barocco distorto”.

Una delle particolarità di Nessuna linea guida risiede nel fatto che una così intensa riflessione sulla tradizione arriva anche al passato biografico del suo autore. È quanto troviamo in una serie di resoconti di viaggio, generalmente testi brevi e senza pretese, spesso composti da frammenti e frasi sciolte. Nonostante la dimensione personale della riflessione, chiunque sbaglierebbe il punto se individuasse una mera ricaduta soggettiva di un autore che ha utilizzato il saggio per tutta la vita proprio per cercare di rendere giustizia al primato degli oggetti sulle categorie concepite in precedenza dal pensiero . Portano non solo le impressioni immediate del visitatore, ma anche una memoria topografica in cui la memoria personale è alimentata dalla storia del luogo visitato. In questo modo i resoconti si avvicinano al genere del saggio e si prestano alla ricerca di connessioni oggettive al cuore dell'esperienza più personale.

In questo senso "Amorbach" è esemplare: la cittadina a meno di cento chilometri da Francoforte dove ha trascorso le vacanze dell'infanzia è, con i suoi tanti echi proustiani, la Combray di Adorno. Gli ha dato l'immagine di una felicità protetta che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Nonostante abbia continuato a visitare il villaggio anche dopo il ritorno dagli Stati Uniti, qui non c'è nostalgia, ma ricerca della convergenza di coordinate spaziali e temporali. La topografia della regione è associata all'immaginazione del bambino e alla conoscenza acquisita successivamente dall'adulto.

Associazioni locali con il remoto passato di Canti dei Nibelunghi unisciti alla scoperta delle opere di Wagner incontrando artisti che hanno lavorato al festival di Bayreuth. In queste connessioni, la memoria decifra eventi del passato come segni premonitori di un futuro ancora sconosciuto, sia nell'ascolto di dissonanze di nuova musica su una chitarra danneggiata, sia nello spaventoso confronto con il movimento giovanile che culminerà nel nazionalismo tedesco.

Queste associazioni tra presente e passato si ripetono in una visita a Vienna, la città dove Adorno visse negli anni Venti quando, sotto la guida di Alban Berg, pensò di intraprendere la carriera di compositore. Le visite all'opera e ad amici aristocratici servirono ad Adorno non solo per discutere le difficoltà di mantenimento del repertorio operistico, ma anche il fascino reciproco tra intellettuali e aristocratici, un connubio con la possibilità di criticare la dialettica della personalizzazione che prevale nella società borghese: il meno i processi sociali sono influenzati dagli individui, maggiore è la tendenza ad attribuirli a figure di spicco.

Tanto estranea al mondo borghese quanto Vienna sembra essere Sils Maria, un villaggio delle Alpi svizzere dove Adorno, così come molti altri intellettuali, trascorrevano le vacanze estive. Il luogo era stato anche la residenza di Nietzsche, la cui modesta stanza, in netto contrasto con l'opulenza degli hotel della regione, visita Adorno. Se ciò che conta qui nella descrizione del viaggiatore è il carattere storico del richiamo alla natura, in altri resoconti Adorno si dedicherà ad appunti sulle arti di cui ha parlato poco nei suoi saggi, in particolare l'architettura e la pittura.

Da una visita in Toscana estrae elementi nuovi dall'antica contrapposizione, celebre nella riflessione tedesca, tra i paesi del nord e quelli del sud. Il celebre senso formale che segnerà i popoli latini è guidato da una riflessione sulla dimensione costruttiva delle opere d'arte: quanto più accentuata è questa dimensione, tanto più forte è l'arte come dominio della natura; ma se questa natura è più calda, esuberante come il paesaggio toscano, si indebolisce la necessità di costruire, che conferisce un carattere più disteso, anche docile alla forma architettonica, nonché un altro rapporto tra la costruzione e gli aspetti decorativi delle facciate. In forma condensata, nella scheda personale del visitatore, vi riconosciamo le sue riflessioni sviluppate riguardo al barocco.

Una visita al Jeu de Paume di Parigi, a sua volta, dà vita alla serie di “scarabocchi” sulla pittura impressionista e sui suoi posteri. Adorno differenzia gli impressionisti francesi dai loro successori tedeschi perché i primi si sono concentrati soprattutto sugli oggetti della vita moderna invece di scappare da essi per cercare, lontano dallo spazio urbano, l'osservazione pacifica dell'incidenza della luce naturale nel paesaggio. L'impressionismo emerge in pieno vigore quando l'intenzione di salvare ancora come esperienza gli elementi degradati della grande città e dell'industrializzazione diventa un modo di dipingere. Associazioni con i loro antecedenti e discendenti nella stessa pittura francese, nel confronto delle mele di Manet con quelle di Cézanne, danno luogo a considerazioni sulla dialettica del progresso artistico. Se Manet è inferiore al progresso materiale prodotto dagli impressionisti, appare tuttavia più strano e moderno di coloro che avevano portato avanti la tecnica in modo più coerente e risoluto. Nella sua associazione con il carattere distruttivo della modernità, registra in prima persona i suoi shock più forti e si pone così accanto a Baudelaire nel presentare l'epoca.

Come si vede, la modernità nell'arte non può essere ridotta al progresso tecnico. D'altra parte, come suggerisce Adorno sottolineando la superiorità delle canzoni di Ravel rispetto ai mezzi artistici più avanzati di un quartetto di Bartók, la qualità dell'antecedente non prevarrebbe se il materiale non si evolvesse. Infine, in un ennesimo capovolgimento dialettico del discorso, Adorno, con un occhio a Picasso, si chiede se questa idea che il meglio dell'arte sia ciò che sopravvive nel tempo non possa nascondere un desiderio metafisico – e conservatore – che le opere sopravvivano finalmente al momento che li ha resi moderni. Altrettanto dialettico è il suo deprezzamento dei manifesti di Toulousse-Lautrec: l'arte funzionale che si fa grande e quindi trionfa sulla propaganda finisce per mettersi, contro le proprie intenzioni, al servizio della propaganda.

Se ogni sala del museo parigino è capace di far nascere “idee stravaganti” al filosofo che di pittura scrisse ben poco, i riferimenti ad altre arti permeano anche le altre memorie di Adorno, come in “Twice Chaplin”, breve saggio in due parti in cui narra il “privilegio” di essere stato imitato da Chaplin in California, anche durante l'esilio. Le considerazioni sul regista sono qui molto più favorevoli di quelle delineate nelle lettere a Benjamin negli anni Trenta. clown, Adorno identifica la dialettica dell'umorismo e del terrore che ha dettagliato nel suo studio su Beckett.

Inoltre, incorpora una riflessione sul cinema e l'industria culturale che è ragionevolmente diversa da quella presentata nel Dialettica dell'Illuminismo. Riprendendo le tesi centrali di questo libro nel “Riassunto sull'industria culturale” ed esaminandoli alla luce del cinema del dopoguerra in “Film Transparency”, spiccano due temi: la consapevolezza dei consumatori sui prodotti dell'industria culturale e la considerazione del cinema come arte, possibilità esclusa nel libro scritto a quattro mani con Max Horkheimer. Se Adorno offre davvero una rivalutazione delle sue ipotesi precedenti, è stato evidentemente favorito dall'emergere del nuovo cinema tedesco negli anni '1960, che ha avuto un grande impulso nel Manifesto di Oberhausen del 1962. È da lì che emergono Volker Schlöndorf e Rainer Werner Fassbinder, Werner Herzog e Alexander Kluge, quest'ultimo uno dei più articolati cineasti e intellettuali del movimento, amico intimo di Adorno, e probabilmente responsabile di stimolare le riflessioni esposte in “Transparências dofilm”.

Adorno considerava il procedimento fotografico un elemento responsabile dell'arretratezza del cinema rispetto alle arti che avevano saputo superare ogni traccia di realismo costruendo compiutamente il suo oggetto. L'idea di un'opera d'arte costruita nella sua interezza, ricorrente nelle sue citazioni di musica, letteratura o pittura, inizialmente non si applica al film. Il cinema più avanzato, però, ha saputo sviluppare tecniche di montaggio in grado di dissolvere l'aderenza del negativo fotografico all'oggetto rappresentato.

Ma la sua lode per il montaggio non arriva senza riserve. O meglio: cerca di confrontarsi con le concezioni oggettiviste del montaggio che sosterrebbero che il materiale montato sarebbe in grado di esprimersi, indipendentemente dalle intenzioni soggettive di un autore. Il suo bersaglio è, ancora una volta, Benjamin, almeno secondo il modo in cui Adorno legge il saggio su “L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica”. Egli fa notare che il montaggio nel cinema si presta anche alla soggettivazione di processi oggettivi: “[…] il rifiuto di dare senso, all'addizione soggettiva, è anche soggettivamente organizzato e, in questo senso, è qualcosa che a priori dà senso”.

Sebbene il montaggio possa essere considerato una tecnica con specificità cinematografica, Adorno tende ad apprezzarla per la sua portata in altre arti, in particolare nella letteratura. In una riflessione che anticipa l'“intreccio delle arti” di cui parlerà nel saggio “L'arte e le arti”, pensa al montaggio letterario sottolineando le affinità tra il cinema e la successione discontinua delle immagini nel monologo interiore. Il montaggio quindi assomiglia a una forma di scrittura, nello stesso modo in cui beneficia anche della portata più avanzata della musica contemporanea, come nel film per la televisione. Antitesi del compositore Mauricio Kagel, del 1965, un esperimento lontano dal buon senso del cinema. Sarebbero, insomma, queste “imbricazioni” con le arti autonome nella loro fase più avanzata a liberare il cinema dalla falsa immediatezza che caratterizza la stragrande maggioranza dei prodotti dell'industria.

Questo “momento tardivo” implicito nella tecnica fotografica del cinema comporta, a sua volta, un altro rapporto con il progresso artistico, in questo caso favorevole al cinema. Se nelle arti autonome Adorno non considera adeguato tutto ciò che è inferiore alla tecnica più avanzata, in un'arte industriale come il cinema, in cui lo sviluppo tecnico è servito soprattutto alla standardizzazione, le precarie condizioni di produzione e il dilettantismo dei giovani registi diventano qualità liberatorie. Chiunque confronti i film Cinema Novo realizzati in Germania, Francia o Brasile negli anni '1960 con i loro contemporanei di Hollywood noterà facilmente la disparità
bussola tecnica indicata da Adorno. Sarebbe proprio lì, quando la trasformazione del medium richiede l'allontanamento da uno standard raggiunto, che ha anche costi altissimi, che il cinema si apre all'imprevedibilità dell'arte autonoma e prende una strada che non è quella dell'industria culturale.

La consapevolezza dei consumatori dell'industria, esposta in questi saggi, consente inoltre di individuare alterazioni nella valutazione di Adorno rispetto alle sue precedenti considerazioni in materia. Tenendo conto dei sondaggi empirici, la cui importanza è evidenziata anche nelle “Tesi di sociologia dell'arte”, nonché degli studi sui programmi televisivi realizzati durante un soggiorno negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, indica che l'ideologia propagata dai film non è pienamente e necessariamente riprodotto nella coscienza dei suoi spettatori. Di più: lo scarto tra il prodotto e il suo effetto sarebbe preformato nel prodotto stesso. Queste ipotesi non sembravano trovare posto nel Dialettica dell'Illuminismo, densa di formulazioni come la seguente: “Nell'industria, l'individuo […] è tollerato solo nella misura in cui la sua identità incondizionata con l'universale è fuori discussione”. Qui la coscienza individuale si identifica con il mondo prodotto dall'industria.

In questi saggi di Senza orientamento, Adorno interpreta il fenomeno da una "coscienza divisa" tra l'intrattenimento pianificato offerto dall'industria e il dubbio sul vantaggio di ciò che offre loro. In altre parole, le persone “vogliono un'esca che loro stesse sfatano; chiudono gli occhi strettamente e acconsentono a ciò che accade loro in una sorta di disgusto di sé, sapendo perché è stato fabbricato. Senza ammetterlo, si rendono conto che le loro vite diventerebbero assolutamente insopportabili non appena smettessero di aggrapparsi a soddisfazioni che non sono affatto soddisfazioni. Se i consumatori non credono del tutto nel settore, ma non vi rinunciano, se aderiscono ma sono sospettosi, allora abbiamo una forma di dominio un po' diversa da quel quadro distopico di individui soddisfatti e anestetizzati individuato negli Stati Uniti degli anni '1940.

Ma ciò che Adorno presenta qui, basato sulla non identità tra coscienza individuale e ideologia corrente, non è necessariamente un indebolimento dell'industria culturale nella sua tendenza all'integrazione. Se l'industria è in grado di incorporare questo momento di non identità nel suo funzionamento, può sviluppare mezzi per neutralizzare ogni critica che gli viene rivolta e rafforzare il suo bisogno di consumatore. Nello stesso movimento, però, l'antagonismo, novità della diagnosi Adorniana, è una forza contraria alla chiusura del sistema: “Volendo catturare le masse, l'ideologia stessa dell'industria culturale diventa in sé tanto antagonista quanto intende raggiungere. Contiene l'antidoto alla tua stessa bugia. Nessun altro argomento potrebbe essere usato per la loro salvezza”.

Come i lavori sul cinema e l'industria culturale, anche il lungo saggio sul “Funzionalismo oggi”.
Implica anche una riflessione sul concetto di opera d'arte autonoma, qui sviluppato dall'esigenza di funzionalità inizialmente posta dall'opera di Adolf Loos e riverberata dall'architettura moderna, dal progetto e urbanistica. Adorno non si preoccupa solo di dibattere i confini tra l'autonomo e il funzionale, ma anche di pensare alla posterità del moderno progetto funzionalista sulla base di due problemi molto concreti, derivanti dal suo momento storico.

Il primo di questi è dato dalla ricostruzione urbanistica e architettonica tedesca nell'immediato dopoguerra. In particolare nella città in cui visse, a Francoforte, Adorno poté assistere a uno dei più rapidi processi di riurbanizzazione della Germania del dopoguerra. Il secondo problema, a sua volta, si poneva nella consapevolezza data dalla distanza storica rispetto all'estremo oggettivismo dell'architettura moderna, problema che si traduceva nella scala scomoda, inospitale, persino disumana di molti suoi edifici, oppure nella mancanza di praticità di oggetti considerati funzionali. Entrambi i processi convergono nell'interesse di Adorno per gli individui che il funzionalismo dovrebbe servire.

Adorno individua l'origine di questi problemi nella rigida separazione proposta da Adolf Loos tra il funzionale e l'autonomo, che ha un esempio paradigmatico nella polemica contro l'ornamento. Se vale per l'ornamento la tesi che “ciò che ieri era funzionale può volgersi al suo contrario”, Adorno porrà la stessa domanda al funzionalismo. Loos infatti, seguendo le argomentazioni di storici come Alois Riegl, sostenne che l'ornamento era diventato superfluo quando perdeva il suo fondamento nelle caratteristiche costruttive dell'opera. È lo stesso argomento usato da Adorno nel suo saggio sul barocco. Per effetto del venir meno della forza formativa dei grandi stili, l'ornamento funzionale non sarebbe ripristinabile, né sarebbe possibile inventare nuovi ornamenti. Loos si scaglia allora contro l'ornamento non funzionale di oggetti di uso pratico, contro i tentativi di conciliare l'utile e l'autonomo, l'industria e l'arte, messi in pratica da una serie di movimenti come il Art Nouveauo Art Nouveau e Arti e Mestieri.

Contro le cosiddette arti decorative, la proposta pratica di Loos, riconoscibile nell'organizzazione dei corsi del Bauhaus, va nella direzione di una manifattura “che si avvalga delle innovazioni tecniche senza che le sue forme siano mutuate dall'arte”. È questa campagna contro l'ornamento che lo porterebbe a un'assoluta esclusione reciproca tra il funzionale e l'autonomo che, secondo Adorno, non terrebbe sufficientemente conto dell'intreccio storico tra i due. Proponendo una trattazione più dialettica di ciascuno di questi poli, Adorno sostiene che le arti che acquistarono autonomia erano legate nella loro origine a finalità sociali quali la socialità, la danza e lo spettacolo, da cui si allontanavano, superandole nella loro costituzione formale interna.

La formulazione dello “scopo infinito” da parte del recensione universitaria giudicare L'opera di Kant viene quindi letta come una sublimazione dei fini e non come il suo sradicamento dal dominio dell'arte, che rimane in tensione con i fini sociali che essa nega nel suo movimento autonomo. Allo stesso modo, l'oggetto strettamente funzionale, per soddisfare il suo scopo, si avvale di idee come la semplicità formale, frutto dell'esperienza artistica. La connessione tra forma e funzione conferisce una dimensione estetica all'oggetto d'uso. L'invecchiamento stesso di questi oggetti, la loro forma antiquata, è in grado di conferire loro il carattere simbolico dell'immagine collettiva di un'epoca.

Oltre a queste correzioni, ciò che veramente interessa ad Adorno è pensare al posto del soggetto nell'ambito della funzionalità, che si mostra in modo esemplare nell'apparente contrapposizione tra lavoro manuale e fantasia, che Adorno sottoporrà anche al prova della dialettica. Se l'adeguata conoscenza dei materiali e delle tecniche è una dimensione notevole della valorizzazione del lavoro manuale, con conseguenze importanti anche per le arti autonome, la sua apologia si presta anche ad arcaismi, come nella trasfigurazione di modi rudimentali di produzione superati dall'avanzamento della tecnica. Analoga posizione vale per la fantasia, rifiutata da Loos nel campo delle arti applicate, ma recuperata da Adorno come una sorta di “senso spaziale” proprio dell'architettura, capace di convertire lo spazio in funzione, non semplicemente per concepire qualcosa nello spazio, ma costruire qualcosa secondo lo spazio, così come un compositore organizza il tempo inventando melodie. Il ruolo della fantasia – la soggettività come senso spaziale – sarebbe quello di promuovere questa mediazione reciproca di costruzione formale e funzione.

Con ciò, Adorno cerca di correggere la rigida separazione proposta da Loos tra l'estetico e l'applicato e, contemporaneamente, di ridimensionare la posizione del soggetto nel funzionalismo come funzione per il soggetto. A prima vista, è lo stesso programma Loos per soddisfare esigenze oggettive. Tuttavia, Adorno sottolinea che, paradossalmente, il funzionalismo è portato a una contraddizione tra il possibile e il reale che è caratteristica dell'arte autonoma. Quando si pensa all'obiettivo da raggiungere, la coscienza più avanzata si rivolge anzitutto alla possibile umanità a partire dallo stadio raggiunto dalle forze produttive più sviluppate.

Accade così che l'umanità reale, le persone concrete, sebbene molto al di sotto del possibile, abbiano anche bisogni immediati che meritano di essere soddisfatti, anche se sono falsi bisogni prodotti da un sistema sociale che li mantiene in uno stato di minoranza. Se la funzionalità razionale si rivela disfunzionale per le persone esistenti, diventa oppressione. È questa contraddizione che inscrive l'architettura moderna negli attuali rapporti di dominio e aiuterebbe a spiegare perché solo una piccola parte dei progetti di grandi architetti come Loos o Le Corbusier sarebbe uscita dal tavolo da disegno.

La contraddizione non è esclusiva dell'architettura, ma è inscritta nella situazione stessa dell'arte, la cui autonomia la porta a negare, in nome di un ordine possibile, quello stesso in vigore a cui resta legata in quanto prodotto di lavoro. umano. “Nel falso stato totale, nulla placa la contraddizione. Un'utopia concepita liberamente al di là delle relazioni funzionali dell'ordine imperante sarebbe impotente perché deve estrarre i suoi elementi e la sua struttura proprio dall'ordine imperante”. Se l'arte si uniformasse al funzionale, sancirebbe il mondo che c'è, negandone così un altro possibile, ma, se si rifugiasse nella pura autonomia, si avvicinerebbe al feticcio irrilevante. La questione del funzionalismo, la sua “subordinazione all'utilità”, si traduce nella sfida di come rendere umane le cose rispondendo ai loro scopi; questa sarebbe la figura della riconciliazione con gli oggetti implicita nell'idea di utilità.

La questione collega la riflessione estetica alla teoria sociale e giustifica la comprensione filosofica dell'arte sostenuta da Adorno in numerosi saggi e nel teoria estetica. Rivolgendosi agli architetti, insiste sul fatto che l'artista, nel suo lavoro pratico, si confronta con elementi che richiedono una riflessione, siano essi limiti sociali alla sua attività, siano categorie estetiche a cui l'opera non deve semplicemente adattarsi per giustificarsi teoricamente. Le categorie, insiste Adorno, hanno una loro forza capace di illuminare le contraddizioni della pratica artistica. Ecco che il suo superamento richiederebbe non solo il superamento dell'opposizione tra funzionale e autonomo, ma anche il concetto stesso di arte. La collocazione è enigmatica. Se l'opposizione di cui parla Adorno nasce dai rapporti prevalenti di dominio, anche l'arte stessa ha la sua origine nell'oppressione sociale. In una situazione di libertà, forse si ritroverebbe obsoleto.

 

Il superamento dell'arte è in gioco anche in quello che è il saggio più direttamente legato ai problemi posti dall'arte contemporanea, “A arte e as artes”, nato come convegno al Akademie der Künste [Academia das Artes], a Berlino, nel 1966. Adorno osservava che i confini tra arti particolari diventavano più permeabili in una parte significativa della produzione artistica del dopoguerra, caratterizzando quelli che chiamava “fenomeni di imbricazione”. Trae esempi da tutte le arti, dall'effetto delle costruzioni pittoriche di Mondrian sullo sviluppo delle tecniche musicali ai mobiles di Alexander Calder come temporalizzazione della scultura, ma la maggior parte dei suoi riferimenti contemporanei non sono familiari al pubblico brasiliano: le composizioni di Sylvano Bussotti sono citato come esempio di una forma di notazione musicale capace di concedere autonomia alla dimensione grafica della musica; nelle arti grafiche di Rolf Nesch e nella pittura informale di Bernhard Schultze individua la tendenza della pittura alla tridimensionalità; Le sculture di Fritz Wotruba, a loro volta, sono più vicine alle costruzioni architettoniche; infine, la prosa di Hans G. Helms trasforma le tecniche musicali caratteristiche del serialismo in un principio costruttivo per la letteratura.

Il saggio di Adorno è ricettivo a queste tendenze, ma salvaguarda la sua rilevanza nell'ambito esclusivo dello sviluppo autonomo degli ambienti artistici. L'“imbricazione” quindi non indica alcun prestito di procedure o approssimazione arbitraria tra le arti particolari, tanto meno sintesi sospette delle arti nel solco dell'opera d'arte wagneriana totale. Il fenomeno è certamente un attraversamento di confini, ma solo come conseguenza della logica interna di mezzi particolari. In altri termini, appropriarsi del serialismo musicale come principio di costruzione letteraria è legittimo nel contesto di una riflessione immanente al romanzo stesso sul declino del racconto e dell'azione, mentre il nesso tra pittura e spazio tridimensionale è significativo come considerazione critica sul rapporto tra la superficie e l'illusionismo fornito dalle tecniche prospettiche.

Gli esempi di Adorno vanno in questa direzione. In questo contesto, l'imbricazione non è un passo indietro rispetto all'autonomia conquistata dai media, né un reindirizzamento della riflessione di Adorn verso opere ibride, intermedie o ai margini dello sviluppo storico dei media, come il accadendo. Sebbene il saggio sia già stato letto come una flessibilizzazione da parte dell'estetica tarda di Adorno dell'autonomia dei mezzi artistici da lui tanto difesi, i fenomeni di sovrapposizione non indicano alcuna rottura con la logica dell'autonomia; al contrario, le intende come possibile conseguenza delle dinamiche interne che portano le arti alla decisa negazione di posizioni precedentemente conquistate.

Se i mutamenti delle condizioni della produzione artistica esigevano nuove considerazioni sull'arte moderna, è notevole che Adorno vi abbia reagito con una radicalizzazione della sua concezione dell'autonomia, inscritta nella situazione stessa delle arti. Lo sviluppo della musica elettronica nel dopoguerra, ad esempio, in particolare con Stockhausen, nasce da una posizione nei confronti della Seconda Scuola Viennese e genera una modalità di produzione che un compositore da solo non potrebbe permettersi. La disponibilità di mezzi di produzione elettronici collettivi potrebbe essere intesa come discontinuità rispetto alla precedente, ma contemporaneamente come conseguenza estratta dalle problematiche lasciate in eredità da Schönberg.

Allo stesso modo, le nuove condizioni di produzione hanno conferito un ruolo inedito all'organizzatore della produzione, come ben descrive Adorno nel commovente necrologio di Wolfgang Steinecke, responsabile di riunire figure chiave dell'avanguardia musicale del dopoguerra di Stockhausen nell'estate di Kranichstein corsi a Pierre Boulez e Luigi Nono. Adorno non esita ad affermare che l'unità della Scuola di Darmstadt fu merito del suo organizzatore.

Sebbene Adorno associ "fenomeni di imbricazione" allo sviluppo immanente dei mezzi artistici, non sostiene in alcun modo che ci sarebbe arte solo nel dominio circoscritto di arti particolari. Questo è ciò che differenzia Adorno dai difensori dell'autonomia dei circoli artistici come il critico americano Clement Greenberg. Adorno si attiene ai mezzi perché non sarebbe possibile tornare a uno stato di indifferenziazione tra loro, precedente alla specializzazione delle arti. Allo stesso tempo, il suo sviluppo implica una dialettica del progresso artistico in cui un medium può essere spinto ad oltrepassare i suoi confini, ribellandosi al significato costituito nei territori ben delimitati di ogni arte. Il possibile risultato non è solo una connessione con dimensioni di altre arti, ma anche opere in cui non si riconosce più cosa le collocasse in un determinato campo. In questa direzione, Adorno cita il atmosfere di Georg Ligeti, che non hanno più suoni particolari che possano essere distinti secondo criteri tradizionali; o altro il senza nome di Beckett, un testo in prosa che, per l'indistinzione tra narrazione e riflessione sulla narrazione, non poteva che polemicamente definirsi romanzo.

Poiché la storia dell'autonomia dell'arte è anche la storia della specializzazione delle arti, quando un'opera sfida i confini stabiliti tra di esse, spinge anche i limiti che la differenziano dalla realtà. Nelle parole di Adorno: “L'intreccio delle arti è nemico di un ideale di armonia che presuppone, per così dire, che le relazioni preordinate all'interno dei generi siano garanzie di senso; intende rompere con la prigionia ideologica dell'arte che la condiziona anche nella sua costituzione come arte, come sfera autonoma dello spirito. È come se i generi artistici, negando i loro confini rigidamente tracciati, corrodessero il concetto stesso di arte”.

♦ Non è solo nelle tecniche di montaggio, dal dadaismo al cinema, con l'intenzione di introdurre la realtà empirica nel modo più diretto nell'arte, che Adorno osserva un tale scuotimento dei confini tra arte e vita, ma soprattutto – e in modo modo più coerente per lui – nella critica dell'apparenza dell'arte, portata avanti dall'arte autonoma più avanzata, da scrittori come Beckett ai rappresentanti della nuova musica. Ma anche lì, nella dissoluzione del senso costituito nella tradizione, l'arte non rinuncia alla produzione propria del senso. La critica dell'apparenza, in fondo, è una conquista con senso estetico.

♦ Nell'ultimo movimento del saggio, Adorno sostiene che la soppressione del senso nell'ambito dell'arte sarebbe possibile solo con l'estinzione dell'arte stessa, situazione limite davanti alla quale l'arte stessa assume una posizione dialettica. Con la sua mera esistenza polemizza già contro la sua abolizione, ma la sua aspirazione utopica sarebbe in definitiva quella di superare le condizioni che la rendono necessaria come coscienza di Come prodotto della divisione sociale del lavoro, l'arte ha sempre camminato di pari passo con la barbarie : “è come se la fine dell'arte minacciasse la fine di un'umanità la cui sofferenza richiede l'arte, un'arte che non la addolcisce né la mitiga. L'arte presenta all'umanità il sogno della sua caduta affinché possa svegliarsi, diventare padrona di se stessa e sopravvivere”.

♦ Difensore instancabile dell'autonomia dell'arte, Adorno non è legato all'arte, la intende come il prodotto di una società non riconciliata che potrebbe benissimo scomparire, o assumere altre funzioni, se quella società fosse emancipata. L'autonomia dell'arte avrebbe telos l'estinzione congiunta dell'arte e della sofferenza che la genera. Poiché l'ordine prevalente vieta questa soppressione, l'intreccio delle arti non è solo l'espressione avanzata dell'autonomia. È anche un indice del blocco sociale al superamento della differenza tra arte e non arte.

*Luciano Gatti È docente presso il Dipartimento di Filosofia dell'Unifesp. Autore, tra gli altri libri, di Costellazioni: critica e verità in Benjamin e Adorno (Loyola).

Riferimento


Theodor W. Adorno. Nessuna linea guida: Parva estetica. Traduzione, presentazione e note: Luciano Gatti. San Paolo, Unesp, 2021, 272 pagine.

 

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