da EUGENIO BUCCI*
I fatti ci mettono di fronte all’esaurimento non degli imperi, non dell’umanità, ma del pianeta Terra
Sulla copertina del giornale Lo Stato di San Paolo di martedì scorso, una foto mostra Brasilia sommersa da un fumo denso, quasi opaco. In TV, muri di fuoco si alzano e marciano. A occhio nudo, la fuliggine si riversa sulla città; filamenti di carbone che arrivano dal vento si posano come libellule sul cofano di un’auto da un milione di dollari.
Il disastro climatico è un disastro sociale, che punisce chi sta in basso, ma quando si impone davvero, non rispetta la segregazione tra le classi. Non rispetta nulla, copre perfino le stelle del cielo. La luna diventa rossa, come se obbedisse al Apocalisse (6,12): “intero come sangue”.
Sole d'argento, pioggia nera (quando piove). Aumentano i ricoveri ospedalieri. Aumentano i decessi dovuti a problemi respiratori. La notizia riporta che un territorio equivalente allo stato di Roraima è già ridotto in cenere. La realtà si rivela peggiore delle previsioni della teoria.
Il libro La Terra Inabitabile, del giornalista americano David Wallace-Wells, Sembrava pessimistico quando è stato rilasciato nel 2017, ma ora sembra insipido. Il suo avvertimento secondo cui lo scongelamento del suolo in Alaska e Siberia avrebbe rilasciato gas serra e resuscitato microrganismi in grado di innescare epidemie sconosciute è stato superato da scenari ancora più spaventosi.
Lo scienziato Carlos Nobre si è dichiarato “terrorizzato”. In un articolo pubblicato sul portale UOL, è tornato sull'aggettivo che dava il titolo al libro di Wallace-Wells e ha dichiarato: “se la temperatura globale aumentasse di 4ºC entro il 2100, gran parte del pianeta, compreso il Brasile, potrebbe diventare inabitabile”. Il fiume Solimões è ridotto a un ruscello fantasma, inabitabile per i pesci. Le metropoli lottano tra due estremi: nel primo, le inondazioni infettive inondano le case di malattie e fango; nel secondo, la siccità minaccia di uccidere di sete i residenti.
Una sensazione di cataclisma invade le teste di tutti. È una premonizione totalizzante, che non si limita alle condizioni atmosferiche, ai furiosi temporali e alle esplosioni di caldo che ci arrostiscono in pieno inverno. Il catastrofismo contamina tutti gli ambiti, dalla strada alla cucina, dal bar alla sagrestia.
Si forma l'impressione gassosa che siamo sull'orlo dell'Armageddon, come se l'esistenza dovesse crollare la prossima settimana. Il soggetto cede alla negatività depressiva. Non c'era elettricità? “Sintomo della crisi ambientale senza ritorno”. Il fatalismo dilaga e il moralismo impazza. Vedendo due uomini camminare mano nella mano sul marciapiede, la smorfia guarda a terra, immaginando Sodoma e Gomorra reincarnate.
La coppia accende la televisione per seguire il dibattito tra i candidati sindaco e testimonia, in diretta, uno dei candidati che lancia una sedia al suo avversario. Una sedia a rotelle! Il marito sbuffa: “La politica è marcia”. La moglie se ne va, senza dire nulla.
Ovunque si guardi, proliferano segni di distruzione diffusa. Il telemarketing non dà tranquillità: in gran parte è una truffa. I bambini diventano dipendenti dal gioco d’azzardo sui cellulari. Il vaccino non è arrivato. La criminalità organizzata controlla i mercati e le posizioni pubbliche. Mezzo secolo fa i punk londinesi gridavano “senza futuro”. Vedi, avevano ragione.
Non che la sorda premonizione che il mondo finirà dopodomani sia una novità. Viene da molto lontano. “O tempora! O costumi!”, lamentava Cicerone duemila anni fa, convinto che il degrado dei costumi nella Roma di Giulio Cesare prefigurasse l'agonia dell'impero. Cicerone esagerava? In breve: l’impero durò più a lungo di lui, ma alcuni sarebbero presto crollati. Tutti i poteri, anche i più colossali, prima o poi muoiono.
Anche le civiltà. All’inizio del XX secolo, il filosofo e poeta Paul Valéry scriveva: “Noi civiltà sappiamo di essere mortali”. Ovviamente aveva ragione, ma col tempo la situazione divenne sempre più esasperante: cominciammo a dover convivere con l'idea che, oltre alle civiltà, anche l'umanità potesse scomparire.
Nel XVIII secolo, durante l'Illuminismo, il marchese de Sade si preoccupò di mettere in risalto la finitezza della nostra specie. In Filosofia in camera da letto, sospira sensuale e perfida l'aristocratica libertina Madame Sain-Ange: "L'estinzione totale della razza umana sarebbe un servizio reso alla natura".
Alla fine del XIX secolo Tolstoj disse più o meno la stessa cosa in Sonate a Kreutzer. “La specie umana si estinguerà?” si chiede il narratore, che subito risponde con una nuova domanda: “Ma è possibile che qualcuno, qualunque sia il suo modo di vedere il mondo, dubiti di ciò?”
Adesso la situazione è peggiorata. I fatti ci mettono di fronte all’esaurimento non degli imperi, non dell’umanità, ma del pianeta Terra. Assistiamo alla fatica del materiale e dell’immateriale: fatica della natura e delle narrazioni sulla natura, fatica dei tetti dei templi e delle religioni, fatica dei vigili del fuoco e dei metodi incorporei di lotta agli incendi. Affaticamento da fatica.
Intorno a Brasilia, le sorgenti mormoranti evaporano, le foreste verdi bruciano e l'altopiano crepita. Mentre il Congresso discute di amnistie, il nebbia di fuoco avvolge la capitale federale. È una metafora? Sarà la fine?
* Eugenio Bucci È professore presso la School of Communications and Arts dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'incertezza, un saggio: come pensiamo all'idea che ci disorienta (e orienta il mondo digitale) (autentico). [https://amzn.to/3SytDKl]
Originariamente pubblicato sul giornale Lo Stato di San Paolo.
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