da ANTÔNIO DAVIDE*
Elementi per una diagnosi d'epoca basata sull'accusa di molestie sessuali nei confronti di Silvio Almeida
Una volta resa pubblica l'accusa di molestie sessuali nei confronti dell'ormai ex ministro Silvio Almeida, quello che si è visto nelle ore successive ha fatto diventare il caso uno spettacolo. Come spesso accade in situazioni simili, sui social si sono moltiplicate le dichiarazioni di sostegno a lui e al denunciante, ciascuna delle quali portava la bandiera della propria inequivocabile certezza: colpevole e innocente.
Il pubblico era diviso, non necessariamente a metà. Entrambe le posizioni hanno avuto eco sulla stampa, soprattutto la prima. Al di sopra delle presunte molestie si è verificato un evento nuovo: un evento discorsivo. Qual è il suo significato? E a quali pratiche non discorsive è legato in modo sostanziale questo evento?
Il passaggio (non così) sottile dalla presunzione alla certezza
È inevitabile non pensare a casi, altrettanto noti, in cui chi è stato accusato non era colpevole, come alla fine è stato dimostrato. Uno di questi casi, quello che viene sempre ricordato, è quello della Base Escola, avvenuto nel 1994. Non c'è dubbio che l'agitazione attorno a questo episodio fosse legata al fatto che le presunte vittime erano bambini. Come al solito in casi come questi, tutti – autorità, giornalisti e pubblico – erano assolutamente certi della colpevolezza dell’imputato. Perché i bambini dovrebbero mentire?
L'accusa di stupro contro Neymar nel 2019 può essere inclusa in questo elenco: da subito il pubblico si divise tra sostenitori dell'innocenza e sostenitori della colpevolezza del giocatore. Tra un tira e l'altro, è stata proprio la denunciante a finire incriminata per calunnia ed estorsione dopo la diffusione di un video che mostrava un nuovo incontro tra loro la notte dopo il presunto stupro, e in cui è possibile sentirla dire a lui (mentre gli dà uno schiaffo): “Mi hai aggredito ieri! Mi hai lasciato qui da solo."
Al di fuori del mondo delle celebrità, un caso recente ha attirato la mia attenzione: quello di un uomo dichiarato innocente dopo aver trascorso 12 anni in prigione accusato di stupro. A parte il banale errore giudiziario e il dramma personale coinvolto, ciò che più sorprende di questa storia è il fatto che Carlos Edmilson da Silva fu accusato non da una, non da due, non da tre donne, ma da dieci donne. Com'è possibile che dieci donne si sbaglino riguardo all'uomo che le ha violentate?
Una delle lezioni che si possono trarre da questi e innumerevoli altri casi è che la memoria è imperfetta e interessata, quindi è una trappola considerarla un veicolo che darebbe accesso diretto a una verità fattuale trasparente. Lo sanno bene gli psicologi, gli psicoanalisti e gli storici che lavorano con la Storia orale.
Non si tratta solo di riconoscere che le persone mentono, il che sarebbe una banalità. Quando pensiamo alla testimonianza, dobbiamo andare oltre la semplice dicotomia tra dire la verità e mentire. Non è plausibile che i bambini, nel caso di Escola Base, e che le dieci donne nel caso citato abbiano agito con dolo o malafede, con l'intenzione consapevole e deliberata di accusare persone innocenti. Non hanno detto la verità, è vero; né hanno mentito (con l’eccezione che, nel caso delle dieci testimonianze contro Carlos Edmilson, è noto che il riconoscimento delle persone non bianche da parte dei bianchi comporta un filtro razziale).
Forse si potrebbe dire lo stesso anche della modella Najila: se l’affermazione “Mi hai lasciato qui da sola” è un’indicazione che non c’è stato stupro – la vittima dello stupro si è risentita con l’uomo che l’ha violentata perché l’ha “lasciata sola”?! –, è possibile che l’esperienza di restare sola sia stata così spiacevole da portarla a dare un nuovo significato a ciò che aveva vissuto la notte prima. Questa è solo una congettura: cosa ha pensato, cosa ha provato, quali erano le sue intenzioni, lo sa solo lei, o forse nemmeno lei.
Da un punto di vista giuridico, che è anche il punto di vista sociale e individuale nelle società democratiche, il principio della presunzione di innocenza stabilisce che nessuno sarà giudicato colpevole se non attraverso un giusto processo legale – la parola “dovuto” non è un abbellimento – e solo dopo che il caso sarà diventato definitivo.
Cosa succede, però, quando le accuse diventano uno spettacolo? Il principio della presunzione di innocenza, che non viene più preso sul serio nei tribunali brasiliani, viene distrutto una volta per tutte e si sta instaurando una disputa mediatica tra la certezza di innocenza e la certezza di colpevolezza, che gli “operatori del diritto” (non solo avvocati, ma anche pubblici ministeri e pubblici ministeri e persino giudici) alimentano e retroagiscono maliziosamente.
Chi non ricorda un innominabile pubblico ministero che nel 2016 scrisse a un altrettanto innominabile giudice federale: “E congratulazioni per l'immenso sostegno pubblico oggi. Oggi non sei più solo un giudice, ma un grande leader brasiliano (anche se questo non era ricercato)”.
Dal luogo dello spettacolo...
Il destino di Silvio Almeida è stato segnato quando, lo stesso giorno in cui l'accusa è stata resa pubblica, ha utilizzato i canali istituzionali del dipartimento da lui comandato per difendersi – cosa di per sé inaccettabile – e, peggio, per accusare con illazioni. Così facendo, oltre a dare un chiaro segnale che non se ne sarebbe andato, si è difeso nella disputa sulla narrazione nell’opinione pubblica, cioè nel campo dello spettacolo.
Il risultato non avrebbe potuto essere diverso: oltre a dare ancora più slancio e a legittimare le narrazioni contro se stesso, ha fatto arrabbiare Lula, che nel 2005 si è rattristato nel vedere il suo braccio destro lasciare volontariamente il governo perché non poteva essere primo ministro del alla Casa Civile e, allo stesso tempo, difendersi dalle accuse subite: colpevole o innocente, ogni minuto trascorso in carica da Zé Dirceu avrebbe contaminato l’intero governo – e lui, politico esperto, lo sapeva Questo.
Allo stesso tempo, non si può non notare che chi ha accusato ha anche scelto, immediatamente (cioè prima che l'imputato rispondesse), di portare l'accusa sul campo dello spettacolo. Il fatto che ci siano quattro presunte vittime e che una di loro – nientemeno che la ministra Anielle Franco – si presenti pubblicamente è una componente di una strategia (riflessiva o meno) di contestazione narrativa: non c’è dubbio che il suo discorso conferisca legittimità e credibilità alla denuncia. Ma non è tutto. Si tratta di prestare molta attenzione al tipo di dichiarazioni che sono circolate in maniera ostentata nel corso dello spettacolo.
Dopo il licenziamento di Silvio Almeida, Anielle Franco ha dichiarato: “Anche i tentativi di incolpare, squalificare, mettere in imbarazzo o spingere le vittime a parlare in momenti di dolore e vulnerabilità sono inappropriati, poiché non fanno altro che alimentare il ciclo della violenza.”. L'affermazione si giustifica alla luce di quanto detto e scritto nelle ore precedenti, da anonimi e personaggi famosi sui social e dallo stesso imputato, con ripercussioni sulla stampa. Gli ha fatto eco Lula: pur avendo espresso la riserva che solo loro due erano coinvolti e Dio sapeva cosa fosse realmente accaduto, il presidente ha dichiarato: “È dovere dello Stato proteggere le vittime".
Viste in una prospettiva critica, queste affermazioni – e una moltitudine di altre dal contenuto simile – fanno eco al ripetuto oblio di una certa implicazione semantica del principio di presunzione di innocenza: prima che il processo penale diventi definitivo, non c’è né “vittima” né “ aggressore”, ma solo “presunta vittima” e “presunto aggressore”, anche quando l’imputato “confessa”, anche nei paesi dove la tortura non è comune.
La differenza non è piccola. Parlare ora di “vittime” (non di “presunte vittime”) alimenta la certezza che c’è stato un reato e che l’imputato non è il “presunto aggressore” (che di per sé basta a stigmatizzare), ma l’“aggressore”; pertanto, ciò che deve essere dimostrato, e può essere dimostrato solo attraverso e al termine di un giusto processo legale, è presupposto, il che equivale a condannare in anticipo. Il semplice uso (apparente e mediatizzato) di una parola ha questo potere.
Torniamo alla denuncia contro Neymar del 2019: nel corso delle indagini, quando già la denuncia mostrava segni di incoerenza, due pubblici ministeri incaricati di seguire il caso hanno tenuto una conferenza stampa per, dalla porta della stazione di polizia, difendere con la forza (forse anticipando il fallimento della denuncia) che “La parola della vittima conta molto”. Qualche settimana dopo, però, la “vittima” non era più “vittima”.
Di qui, nel caso di specie che coinvolge Silvio Almeida, Anielle Franco e altre persone, come in tanti altri casi – del resto, come quasi sempre accade – il fatto che l’aggettivo “supposto”/”presunto” sparisca sulla stampa e sui social media fa la differenza. È questa differenza che, ad esempio, ha permesso a Lula di dichiarare, quando ha deciso di dimettersi: “Qualcuno che pratica le molestie non resterà al governo”. Un discorso che non lascia dubbi sulla colpevolezza dell'ormai ex ministro. Affermazioni come questa, con la loro pretesa di produrre verità, non sono una componente della spettacolarizzazione; sono lo spettacolo stesso.
Qualcuno ribatterà: ma ad accusare non sono bambini, né donne che sono state violentate una volta ciascuna da uno sconosciuto in un ambiente probabilmente buio e non favorevole al riconoscimento dell'aggressore; è un collega che conosceva il presunto aggressore, viveva con lui ed è stato presumibilmente vittima di molestie sul posto di lavoro.
Ma basterà questo a neutralizzare la presunzione di innocenza degli imputati? Perché è così difficile che, in questo caso, la risposta alla domanda se Silvio Almeida sia colpevole o innocente non possa essere semplicemente “non lo so”? Del resto, è proprio per arrivare a risposte come questa che esiste il giusto procedimento legale. Ho il sospetto che questa difficoltà sia basata sul posto che la testimonianza ha finito per occupare nella produzione della verità nelle società contemporanee.
In una società democratica (nel senso forte del termine, non nel senso banale che il termine assume), accadrebbe che, fino alla conclusione definitiva del giusto processo, il presunto aggressore sarebbe trattato come se fosse innocente, e la presunta vittima veniva trattata come se fosse una vittima, senza che ciò implichi, però, l'uso della parola “vittima”: in esatto contrasto, quindi, con il luogo comune che non è solo l'uso, ma quello conclamato e mediatico copertura di questa parola e dei suoi opposti: “l’aggressore”, “lo stupratore”, “il molestatore”, ecc. (parole che, nelle società democratiche, non vengono usate nemmeno dopo la condanna definitiva).
A tal fine sarebbe necessario che le denunce e i procedimenti giudiziari fossero trattati in un contesto strettamente giudiziario, smettendo di essere spettacolarizzati. E se, nel caso in questione, l’unico modo per Silvio Almeida di lasciare l’incarico – nel caso di quello di ministro, solo la denuncia era motivo sufficiente per dimettersi, anche nel caso in cui fosse innocente – era gettare la denuncia sul terreno dello spettacolo (il linciaggio pubblico essendo un effetto collaterale, un male necessario), o se questa fosse vista non come l’unica, ma come la migliore (il linciaggio pubblico, in questo caso, visto come desiderabile) ), in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un sintomo: che l'unica grammatica sociale che conosciamo e siamo capaci di utilizzare è la grammatica della violenza, anche quando lottiamo per il riconoscimento e l'emancipazione.
…sul terreno dell’esperienza
Sotto lo spettacolo c'è il terreno dei vissuti, delle persone che sono in carne e ossa e che hanno un nome e un cognome. A prima vista, lo spettacolo sembra vivere di vita propria, essendo indifferente a ciò che viene vissuto: però, al di là del fatto che le persone coinvolte sono anche persone in carne ed ossa, che hanno sofferto e soffriranno le conseguenze di quanto accaduto e della spettacolarizzazione di quanto accaduto, tra questi due ambiti esiste un’altra sovrapposizione, di maggiore spessore sociale e durata storica, ed è necessario ricercarla.
È istruttivo prenderlo come riferimento La lettura della scrittrice americana Toni Morrison del caso OJ Simpson, registrato nel libro Nascita di una nazione. Garza, sceneggiatura e spettacolo nel caso OJ Simpson (1997). Toni Morrison vede questo processo ultra-spettacolare, trasmesso in televisione e che ha polarizzato la società americana, come il punto di svolta che ha dato inizio a quella che lei chiama l’era post-diritti civili, in cui i vecchi discorsi suprematisti sono tornati in vigore negli Stati Uniti - un'era che da allora si è solo approfondita.
Più che il caso in sé, l'interesse di Toni Morrison è quello di catturare, nei discorsi prodotti e diffusi nel contesto del processo, un quadro culturale, che riecheggia affetti, percezioni, paure e aspettative durature. E questo ha ricadute pratiche nella vita di tutti i giorni.
Che l’ex giocatore di football americano OJ Simpson fosse colpevole o meno del duplice omicidio di cui era accusato – non era questo il suo interesse – era importante comprendere le radici sociali dell’emergere di una brutale (e crescente) ostilità nei confronti degli afroamericani, che si materializzò in quel contesto nell’ostilità verso OJ Simpson, e nella risposta della comunità afroamericana – che lo sostenne fortemente – a quella stessa ostilità.
Toni Morrison ha poi esaminato i discorsi prodotti e diffusi nel contesto del processo, con la preoccupazione di collegarli a pratiche non discorsive, in particolare alla condotta della polizia nei casi penali che coinvolgono afroamericani.
Un esercizio simile merita di essere svolto tra noi. Nel caso della denuncia contro Silvio Almeida, nonostante lui e una delle presunte vittime – l’unica conosciuta – siano neri, è essenziale riconoscere che la sua spettacolarizzazione risuona di pratiche discorsive e di tipologie di affermazioni comuni nella lingua brasiliana. tribunali (soprattutto in diritto penale), dove, però, lo è la maggior parte dei detenuti persone di colore, e gli accusatori e i giudici sono per lo più bianchi, facoltosi (chi non era ricco prima di intraprendere la carriera lo diventa grazie alla posizione, che già entrando offre un “stipendio scarso” equivalente allo stipendio dei professori universitari presso istituzioni pubbliche nell'ultima fase della loro carriera, oltre a premi e benefici indecenti, la cui indecenza non basta, però, a impedire che si trasformino in stipendi quando vanno male all’opinione pubblica), e che esercitano il loro potere e autorità da due ex enti chiamati rispettivamente Pubblico Ministero e Corte di Giustizia.
Ora, se lo spettacolo della scorsa settimana ha funzionato con la percezione che la testimonianza ha un valore assoluto e che è sufficiente per stabilire la verità, è necessario vedere ed esaminare seriamente il fatto che è proprio questo stesso discorso che ha avuto luogo ogni giorno nei tribunali in tutti i tipi di casi nell’ambito del diritto penale.
Si scopre che – e questo non è un semplice dettaglio –, per ogni Silvio Almeida (o altra persona che abbia fama e notorietà) che cade di tanto in tanto in disgrazia, centinaia di Carlos Edmilson da Silva cadono in disgrazia ogni settimana nel tribunali penali delle Corti. di giustizia presso la Procura della Repubblica, per traffico di droga (la cui criminalizzazione non è altro che un dispositivo di controllo sociale e razziale), rapina, furto, stupro, ecc., siano essi colpevoli o non. Molti non lo sono, e se non lo sono, vengono comunque condannati con pompa e circostanza, in processi che spesso sono mini-spettacoli, un vero festival di tormentoni: “così e così è un pericolo per la società”, “la società non può non ce la facciamo più”, “dobbiamo difendere la società”…
E anche coloro che hanno effettivamente commesso i reati di cui sono accusati subiscono una punizione assurdamente sproporzionata, con ogni tipo di privazione e maltrattamento, non solo fisico, ma anche psicologico. Nei tribunali brasiliani, come in molti altri paesi, la testimonianza delle presunte vittime (o degli agenti di polizia) è sacralizzata, al punto che spesso basta condannare.
Sono consapevole che la legge, e gli “indottrinatori”, stabiliscono che la sola testimonianza non è sufficiente per condannare; ma non mi interessa qui ciò che è scritto nella legge o nei trattati degli studiosi, ma ciò che effettivamente accade nei tribunali.
Non è un caso: proprio come il pubblico condanna liberamente sui social media, in tribunale i pubblici ministeri accusano come vogliono accusare e i giudici condannano come vogliono condannare, con tutti – pubblico, pubblico ministero e giudici – che utilizzano gli stessi dispositivi discorsivi, con il differenza che il pubblico enuncia solo ciò che gli “operatori legali” convertono in dottrina: è tutta una litania pseudoscientifica sul “valore della testimonianza”, che nei tribunali trova giustificazione – quando lo è – sulla base di precetti contenuti nella normativa -la cosiddetta “argomentazione giuridica” (eufemismo per un modo di ragionare rozzo e volgare), praticata nei tribunali con tutti i rituali rococò e ridicoli che sembrano usciti direttamente dall'Antico Regime e che mal dissimulano l'inclinazione spesso protofascista del i suoi operatori.
Il caso del giudice che ha scritto in una sentenza l'inno della sua squadra di calcio È solo un lato estremamente strano, tanto strano da risultare addirittura divertente, di una pratica sistematica e regolare, ma che ha il pregio di smascherare, senza mezzi termini, cosa sono i tribunali: il terreno dell'eccezione totale.
Se non è il caso di generalizzare, se ci sono pubblici ministeri e giudici seri, se alcuni sono addirittura antifascisti, il punto è che la dinamica dei tribunali è tale che pubblici ministeri e giudici possono, se lo desiderano, agire in modo arbitrario e arbitrario. modo offensivo fino all’estremo – e molti lo fanno. I meccanismi di controllo falliscono, soprattutto perché ciò che dovrebbe essere oggetto di controllo è comunemente accettato da chi ha il compito di controllarlo, cioè ciò che è arbitrario e abusivo non è quasi mai visto come tale, ma come parte del panorama. Al centro dell’arbitrarietà e dell’abuso si trova la dannosa valutazione “discrezionale” (eufemismo per “faccio quello che voglio”) della testimonianza.
Ciò che suggerisco qui è l’esistenza non di una semplice correlazione, ma di una connessione sostanziale, di natura sia sociale che epistemica, e che ha radici storiche: il posto che la testimonianza occupa nella produzione della verità nel mondo contemporaneo, e che ha guadagnato rafforzamento straordinario a partire dagli anni Sessanta con la crisi delle nozioni di referenzialità, ha come matrice il diritto, in particolare il diritto penale. Non sorprende che il discorso emancipativo dei nostri giorni condivida la stessa semantica del diritto penale, al quale ritorna sempre più nel suo sforzo di attuazione pratica, né che alcuni dei suoi enunciatori provengano oggi da questo ambiente o si muovano in esso con imperturbabile tranquillità. e facilità, cosa che trent’anni fa sarebbe stata impensabile.
Pertanto, i pubblici ministeri che hanno lavorato sul caso che coinvolge il giocatore Neymar – per gli ingenui di turno, vale la pena ricordare che non è necessario essere di sinistra per occupare questa posizione – non hanno inventato la tesi secondo cui “la parola della vittima conta molto”; piuttosto, hanno semplicemente applicato all'ambito di lavoro ciò che hanno imparato all'università quando studiavano giurisprudenza, e che è sempre stato applicato nel diritto penale, per tutti i tipi di casi.
Qui è necessaria una distinzione: se la testimonianza assume un peso simile a livello globale, anche in Paesi dove, grazie alla lotta di generazioni di subalterni (e all’impegno nella Seconda Guerra Mondiale), condizioni materiali e immateriali di esistenza che non hanno Parallelamente alla periferia del capitalismo, dobbiamo chiederci cosa succede quando questo stesso modello si verifica in un paese come il Brasile, attraversato da profonde disuguaglianze e segnato da pratiche patrimoniali, eredità della schiavitù e dell’Antico Regime.
Punizione occasionale
Tornando alla denuncia contro l'ex ministro Silvio Almeida, e soffermandosi sul rapporto tra spettacolare e vissuto, è ironico, e allo stesso tempo tragico, cogliere lo stesso discorso che si usa nei tribunali essere replicato e attualizzato in maniera caso che ha al centro, tra le presunte vittime, il capo del Ministero per l'Uguaglianza Razziale.
Forse possiamo vedere qui, con particolare chiarezza, il tipo di lotta per l'uguaglianza e la conquista dei diritti che abbiamo conosciuto negli ultimi vent'anni, con tutte le sue contraddizioni, per cui la possibile uguaglianza si accompagna al rafforzamento delle strutture di sudditanza, privilegio e dominio: nel caso in questione, la contraddizione che si palesa è quella secondo cui la lotta per l’uguaglianza – e non c’è dubbio che il discorso di Anielle Franco ha a che fare con la lotta per l’uguaglianza e l’emancipazione – si accompagna ad una rafforzamento straordinario del punitivismo, lo stesso punitivismo che, attraverso una pratica discorsiva identica a quella che abbiamo osservato negli ultimi giorni sulla stampa e sui social media, produce l’incarcerazione di massa di persone che, per la maggior parte, sono di colore.
Sappiamo tutti che la destra brasiliana è, è sempre stata e sarà sempre punitiva. Ma è una coincidenza che negli ultimi decenni l’agenda antipunitiva, e il discorso che l’accompagna e la incoraggia, abbiano perso terreno a sinistra? Oppure sarà l'oblio dell'antipunitivismo pari passu al rafforzamento del suo rovescio sono necessari cambiamenti più profondi e duraturi, abbastanza profondi e forti da dare una nuova forma alle idee di emancipazione, al punto che smettiamo di sentire e pensare come prima e iniziamo a sentire e pensare sempre di più con i capi delle procure?
In fondo forse è proprio questo: forse stiamo semplicemente attraversando il periodo in cui le contraddizioni cominciano ad assumere contorni netti. E forse non è un caso che proprio in questo momento il salvatore della Patria ed eroe del giorno non sia altro che un ex procuratore ed ex segretario della Pubblica Sicurezza di San Paolo, entusiasta delle operazioni di polizia nelle comunità di Rio, per chi”La grande sfida istituzionale brasiliana oggi è quella di sviluppare modalità di lotta alla criminalità”. Tutto è connesso. Questo è il momento in cui possiamo iniziare a vedere l’abissale profondità della nostra storica sconfitta: questo è un vantaggio.
*Antonio Davide Ha un dottorato di ricerca in Filosofia presso l'USP e attualmente sta conseguendo un dottorato in Storia sociale presso la stessa istituzione..
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