da RONALD LEÓN NÚÑEZ*
L'albero che copre la foresta – una risposta a Mário Maestri
Nonostante tutti i tentativi di condannarne l’obsolescenza, lo studio e il dibattito sulla natura e le dinamiche della colonizzazione europea e sulle formazioni sociali che essa diede origine nelle Americhe mantengono per i marxisti la loro importanza decisiva.
E niente di meno. Dalle sue conclusioni scaturiscono non solo premesse scientifiche, ma, soprattutto, conseguenze programmatiche che orientano l'azione politica contemporanea. La fecondità di questa controversia è dovuta al fatto che, come poche altre, essa presuppone la comprensione di una totalità contraddittoria che esprime l'unità indissolubile di passato e presente, della concezione materialistica della storia e della politica.
Ciò lo rende sia un punto di partenza inevitabile per approcci teorici alle origini del capitalismo nell’America iberica e alle tendenze storiche che hanno modellato strutturalmente le nostre società, sia il fondamento per definire il carattere dell’attuale rivoluzione: la sua strategia e il ruolo delle classi in questo processi.
Mário Maestri, un accademico brasiliano che sostiene di aver “finalizzato”, con “pregiudizio marxista”, un “vasto progetto di ricerca sulla Guerra della Triplice Alleanza”, ha scritto un recensione del primo capitolo del mio ultimo libro,[I] dedicato proprio al problema della colonizzazione europea delle Americhe. L'articolo di Mário Maestri, qualunque sia il suo contenuto, dimostra la vitalità della controversia.
La critica, in termini generali, è uno strumento indispensabile per l’avanzamento della conoscenza scientifica. Tuttavia, affinché possa svolgere questa funzione, deve essere supportato da argomenti solidi e coerenti non solo con la logica del critico, ma anche con la realtà in questione, il contenuto e il metodo criticato.
Non è il caso dell'articolo di Mário Maestri, un testo scolastico, pieno di artifici retorici e provocazioni puerili. Ma non è questo il suo principale difetto. Il problema centrale risiede nel metodo utilizzato dal mio critico. Maestri ricorre spudoratamente a falsificare le posizioni altrui, distorcendole per adattarle meglio allo stampo delle sue obiezioni.
Tuttavia, data l'importanza della questione, prendo in mano la discussione. Non con l’intento di “concludere” la controversia, ma con l’obiettivo – dopo aver sgombrato il terreno dagli artifici confusionisti di Mário Maestri – di chiarire ulteriormente l’analisi, il metodo e le conclusioni teorico-politiche che compongono, finora, il mio approccio alla questione. un problema estremamente intricato, nella cui comprensione non è possibile avanzare attraverso la competizione delle etichette o con le “parole magiche”. Così, come nelle “note” che presento nel libro,[Ii] Lo affronterò senza aspettare l'ancora di salvezza di una “categoria” indiscutibile, ma sforzandomi di comprendere il contenuto contraddittorio dell'intero processo e le sue principali tendenze.
Tre posizioni fondamentali
Si può dire che il dibattito marxista sul carattere della colonizzazione iberica ha dato origine a tre interpretazioni centrali, da cui sono derivate profonde differenze programmatiche, principalmente intorno alla questione se l’obiettivo della rivoluzione latinoamericana dovesse essere democratico-borghese o socialista.
Non potendo dilungarmi su ciascuno di essi, mi limiterò a schematizzarne il contenuto.
Lo stalinismo, secondo la visione unilineare delle “cinque fasi” (comunismo primitivo, schiavitù, feudalesimo, capitalismo, socialismo), che presuppone una successione obbligata di modi di produzione applicati arbitrariamente alla storia di tutti i popoli, difendeva un presunto “passato” feudale” dell’America Latina. Questa tesi, in realtà, è servita a giustificare storicamente il programma di tappe che Mosca ha promosso nei paesi coloniali o semicoloniali: in primo luogo, la rivoluzione democratico-borghese “antifeudale”, concepita come una tappa inevitabile nella quale il proletariato avrebbe dovuto subordinarsi stesso alla borghesia progressista” per aprire le porte al capitalismo e rafforzare così il peso sociale del proletariato industriale; solo “dopo” che questa fase borghese fosse stata superata il programma socialista avrebbe potuto essere attuato.
Questa teoria del programma, che ancora oggi esercita una notevole influenza negli ambienti di sinistra, si è concretizzata in una collaborazione permanente con presunti settori “democratici, patriottici e antimperialisti” delle borghesie nazionali, attraverso innumerevoli “fronti popolari”, presentati come progressisti. opzioni di fronte alle frazioni “più reazionarie” dei capitalisti locali e all’imperialismo.
André Gunder Frank e altri teorici della dipendenza risposero alla tesi feudale e alle sue conseguenze pratiche con una posizione altrettanto unilaterale ed errata: che l’America iberica era stata “capitalista” fin dal XVI secolo.[Iii] Questa analisi ha certamente ignorato il problema dei rapporti di produzione e ha distorto il concetto di capitalismo, collegandolo ad un maggiore o minore rapporto con il mercato, cioè con il processo di circolazione delle merci. L’errore di fondo è consistito nel confondere l’economia mercantile con il modo di produzione capitalistico. In opposizione al programma di conciliazione di classe dello stalinismo, Frank propose un programma “puramente” socialista, ignorando i numerosi compiti democratici pendenti nelle società latinoamericane.
Come sappiamo, il cuore del dibattito è stato stabilire il contenuto della colonizzazione, un problema complesso – soprattutto perché si trattava di un periodo storico di transizione su scala globale, in cui l’arcaico non aveva finito di morire e il nuovo non aveva ancora finito di morire. finito per emergere e imporsi – e pieno di pericoli metodologici, principalmente quello dell’unilateralità. Ciò spiega le molteplici interpretazioni che o universalizzano elementi particolari del fenomeno, oppure commettono l'errore opposto: negare o omettere le particolarità di una presunta totalità monocromatica.
In questo “campo minato” è emersa nel dibattito una terza posizione. Nahuel Moreno[Iv] scrisse il testo nel 1948 Quattro tesi sulla colonizzazione spagnola e portoghese in America,[V] in cui propone un insieme contraddittorio: “La colonizzazione ha obiettivi capitalistici, ottenere profitto, ma si combina con rapporti di produzione non capitalistici”.[Vi] Formulata diversamente: questa impresa europea, nonostante facesse appello a una combinazione ineguale di diversi rapporti di produzione, con una predominanza di quelli precapitalisti, aveva un significato storico dettato dalle tendenze generali dell’accumulazione primitiva di capitale in Europa.[Vii]
La posizione di Moreno
Sviluppiamo la posizione del trotskista argentino partendo dalla sua tesi principale: “La colonizzazione spagnola, portoghese, inglese, francese e olandese dell'America è stata essenzialmente capitalista. I suoi obiettivi erano capitalisti piuttosto che feudali: organizzare la produzione e la scoperta per produrre profitti prodigiosi e collocare beni sul mercato mondiale. Non inaugurarono un sistema di produzione capitalistico perché in America non esisteva un esercito di lavoratori liberi sul mercato. È così che i colonizzatori, per sfruttare l’America in modo capitalistico, sono costretti a ricorrere a rapporti di produzione non capitalisti: la schiavitù o semischiavitù dei popoli indigeni. Produzione e scoperta con obiettivi capitalistici; rapporti di schiavitù o semischiavitù; Forme e terminologie feudali (come nel capitalismo mediterraneo), sono i tre pilastri su cui si è fondata la colonizzazione dell’America”.[Viii]
Questa tesi contiene il contenuto della sua interpretazione. Nonostante alcune imprecisioni, che tanto infastidiscono Mário Maestri e che, come vedremo, lo stesso Moreno riconoscerà più tardi alla luce delle formulazioni dell'intellettuale trotskista George Novack, notiamo che il primo successo di Moreno è, soprattutto, metodologico. Non perse di vista il fatto che è la totalità a condizionare le parti e non il contrario e, di conseguenza, propose che, dall’avvento del mercato mondiale nel XVI secolo, “non c’è nessun paese al mondo – tanto meno i paesi europei e americani – la cui storia può essere interpretata in altro modo che riferendosi, minuto per minuto, secondo per secondo, alla storia dell’umanità nel suo insieme”. Pertanto, lo studio della storia di un dato Paese o di una regione deve sempre considerare le sue peculiarità, ma intendendole sempre “come parte di quell'insieme che è l'economia e la politica mondiale”.[Ix]
Credo che questo approccio divida le acque. Gli scolastici come Mário Maestri, come vedremo, non capiscono questa logica e, in disaccordo con il marxismo, finiscono per “mettere il carro davanti ai buoi” cercando di spiegare la totalità di un problema attraverso la somma delle sue parti.
Maestri falsifica la posizione di Moreno
In ogni caso, la critica alle opzioni metodologiche e alle conclusioni è sempre stata parte di un sano dibattito teorico. La questione è complessa ed è normale che dia adito a molteplici interpretazioni. Un'altra cosa, come dicevo all'inizio, sono le manovre di Mário Maestri.
Il professore del Rio Grande do Sul attribuisce a Moreno e, di conseguenza, al mio lavoro, la cruda analisi di Frank e della dipendenza, in cui si afferma che “il capitalismo è sempre esistito nelle Americhe”.
Secondo Mário Maestri, sia pure con “forme più o meno raffinate”, Moreno “generalizzò e radicalizzò quella tesi per tutti i tempi e per le tre Americhe”. Con ciò avrebbe abbandonato il metodo marxista, che parte dallo “…sviluppo delle forze produttive materiali e, soprattutto, dei loro rapporti sociali dominanti di produzione”.
Questo è falso, signor Maestri. In primo luogo, Moreno non ha proposto che il carattere della colonizzazione fosse “capitalista”, ma “essenzialmente” capitalista. Può sembrare una differenza sottile, ma questa precisione è importante perché indica contenuto e movimento. L’idea centrale è che le dinamiche del colonialismo iberico, oltre alle forme arcaiche presenti nella struttura e sovrastruttura degli spazi colonizzati, fossero intrinsecamente legate all’espansione del mercato mondiale dominato dal capitale commerciale che, in ultima analisi, creerebbe le condizioni per egemonia del modo di produzione capitalistico.
In questo contesto storico, le esigenze di questo “mercato internazionale in espansione” – a cui Maestri fa riferimento più volte senza attribuirgli contenuto storico, come se fosse un’entelechia – saranno l’insieme che condizionerà gli elementi costitutivi delle nostre società.
È ammissibile, senza stravolgere quanto scritto, interpretare il “carattere essenzialmente capitalista” come “capitalista da sempre”, come propone Maestri? No, poiché non vi è alcuna omissione o ambiguità su questo tema nella tesi criticata dal commentatore brasiliano. Non forzare le cose, signor Maestri. Basta leggere il testo per capire che Moreno non ha mai definito “capitalisti” i rapporti di produzione coloniali.
Egli afferma, inequivocabilmente, che i colonizzatori “non inaugurarono un sistema di produzione capitalistico”, dato che, data la mancanza di un mercato del lavoro “libero”, furono “costretti a ricorrere a rapporti di produzione non capitalisti”. E' molto chiaro. In questo caso, su cosa si basa Maestri per sostenere che Moreno ignorava la particolarità delle formazioni sociali della colonia, trascurando così la predominanza delle forze produttive e dei rapporti di produzione, tipica dell'analisi marxista?
Piuttosto il contrario. Ciò che Moreno e gli altri marxisti fecero fu uno sforzo per comprendere e stabilire l’obiettivo di questa produzione in senso storico e su scala globale.
Questa lettura si basa sul fatto che le colonie americane non furono mai unità economiche naturali, di stretta sussistenza. Fin dal suo arrivo, il conquistatore europeo cercò di organizzarli come produttori su larga scala di valori di scambio, orientati verso un vorace mercato globale o, almeno, regionale. Questo fu il motore della colonizzazione. La produzione per il mercato interno e altri fenomeni endogeni emergeranno, come proposto da Caio Prado Jr., subordinati alle dinamiche del commercio estero, guidate dalla domanda del mercato europeo e dalle fluttuazioni dei prezzi internazionali dei prodotti tropicali.[X]
Nonostante la contraddizione che le relazioni sociali non capitaliste implicavano, il “mercato internazionale in espansione” – anche se il nostro critico astrae questo elemento dalle sue conclusioni – era, a sua volta, un tassello fondamentale dell’ampio processo di accumulazione primitiva, “un’accumulazione – secondo Marx – che non è il risultato del modo di produzione capitalistico, ma il suo punto di partenza”[Xi], dato che, come sappiamo, essa agì per dissolvere i resti del feudalesimo in Europa e ogni sorta di rapporti sociali arcaici nel mondo. Nel caso americano, sicuramente, il fatto decisivo per determinare il significato essenzialmente capitalistico della colonizzazione europea sarà il rapporto coloniale, inseparabile da questo processo di genesi del capitalismo, e non questo o quel modo di produzione nativo.
Pertanto, la discussione non è se ci fossero o meno delle particolarità o se le formazioni sociali emerse nelle Americhe fossero “originali” o meno. Naturalmente lo erano. Nessuno ha messo in dubbio il “primato” della produzione nell’analisi o il fatto che il lavoro legalmente “gratuito” fosse probabilmente marginale fino all’inizio del XX secolo. Questa è una delle trappole tese da Mário Maestri.
La questione fondamentale è capire quale fosse l’obiettivo della produzione coloniale – per cosa era organizzata – e trarre tutte le conclusioni; se il regime di ordine o la riduzione in schiavitù delle popolazioni indigene o africane, tra le altre forme non capitaliste di sfruttamento del lavoro, fossero o meno subordinati al processo di accumulazione primitiva di capitale controllato dalle metropoli.
In questo quadro, il capitale commerciale penetrerà nei pori delle società coloniali e, attraverso i piantatori schiavisti, gli encomenderos, i commercianti, ecc. – che erano essenzialmente capitalisti e, in molti casi, non solo partecipavano al processo di circolazione delle merci, ma investevano anche nella produzione governata dalla domanda del mercato mondiale – domineranno i produttori diretti – popolazioni indigene, meticci, neri schiavizzati – da cui estrarranno il surplus sociale, ricorrendo soprattutto alla coercizione extraeconomica, cioè ricorrendo alla violenza aperta.
Mário Maestri non individua questa sovrapposizione dialettica. Come Ciro Cardoso, Gorender e altri “modoproduttivisti”, indipendentemente dalle sue intenzioni politiche, fissa lo sguardo su un albero, certamente frondoso, e perde di vista la foresta.
Mário Maestri scrive: “Non ha senso proporre la colonizzazione capitalistica dell’America, a partire dal XV secolo, senza produzione capitalistica, senza borghesia industriale, senza lavoratori salariati, senza libero mercato del lavoro, con un livello molto basso di sviluppo delle forze produttive materiali”. .
Sì, questa è una sciocchezza, perché, in effetti, il capitalismo presuppone un mercato del lavoro “libero”, basato sull’espropriazione totale dei mezzi di produzione della classe operaia e sulla trasformazione della stessa forza lavoro in merce. Moreno ha commesso degli errori, ma questo no. Non ha mai proposto una cosa del genere. Anche se è anche vero, anche se contraddice gli schemi del nostro critico, che il capitalismo non è emerso da un giorno all'altro, con l'apparizione improvvisa del primo operaio industriale.
È stata imposta dopo un processo lungo, disomogeneo e combinato, i cui principali impulsi erano l’orientamento della produzione verso il mercato mondiale e il colonialismo. Ciò implica che è necessario uno sforzo teorico per identificare l’essenza, i contenuti fondamentali e le dinamiche di questo periodo di transizione.
Mentre Jacob Gorender e i suoi discepoli credono di aver risolto questo problema, nel caso brasiliano, con l’etichetta di “schiavitù coloniale”, vale la pena rivedere brevemente il modo in cui Marx ed Engels l’hanno affrontato.
Marx ed Engels contro Maestri
La cosiddetta “accumulazione primitiva di capitale” non consisteva soltanto nell’espropriazione violenta, con metodi sanguinari, dei produttori diretti. Il mercato mondiale capitalista e lo sfruttamento coloniale, come affermato in Manifesto, non furono solo una parte importante di questo processo, ma costituirono anche “l’elemento rivoluzionario della società feudale in decomposizione”[Xii], aprendo la strada – sotto forma di “sterminio, riduzione in schiavitù e sottomissione della popolazione autoctona nelle miniere”[Xiii] – per l’egemonia del modo di produzione capitalistico in Europa.
La manifattura e, in generale, il movimento della produzione conobbero un enorme impulso grazie all’espansione dei commerci avvenuta con la scoperta dell’America e della rotta marittima verso le Indie Orientali […], la colonizzazione e soprattutto l’espansione dei mercati fino alla formazione di un mondo – l’espansione che poi divenne possibile e si andava realizzando sempre più, giorno dopo giorno – risvegliò una nuova fase dello sviluppo storico […][Xiv].
Nel 1848 Marx ed Engels svilupparono questa idea: “Il mercato mondiale ha accelerato enormemente lo sviluppo del commercio, della navigazione e dei mezzi di comunicazione. Questo sviluppo reagì, a sua volta, all'espansione dell'industria; e, con lo sviluppo dell’industria, del commercio, della navigazione e delle ferrovie, la borghesia crebbe, moltiplicando i suoi capitali e mettendo in secondo piano tutte le classi lasciate in eredità dal Medioevo”.[Xv]
Engels, a sua volta, fu categorico nel definire lo scopo borghese della colonizzazione europea in America. Sosteneva che l’epoca del “(…) giovane attratto dalle ricchezze delle Indie, dalle miniere d’oro e d’argento del Messico e di Potosí (…) era l’epoca del cavaliere errante della borghesia (…), ma su un piano base borghese e con obiettivi, in definitiva, borghesi”[Xvi].
[…] questo desiderio di andare lontano in cerca di avventure per trovare l’oro, anche se si realizzava in linea di principio sotto forme feudali e semifeudali, era già essenzialmente incompatibile con il feudalesimo, che si basava sull’agricoltura e le cui spedizioni di conquista erano essenzialmente finalizzato all’acquisizione di terreni. La navigazione, inoltre, era un'impresa decisamente borghese, che imprimeva il suo carattere antifeudale anche a tutte le moderne flotte da guerra.[Xvii]
È chiaro come il marxismo affronti la questione nella sua interezza e in movimento, senza perdersi nei labirinti delle “forme”. I fondatori del socialismo scientifico, come possiamo leggere, definirono una prima e decisiva collocazione del problema: la scoperta e la colonizzazione dell’America furono parti fondamentali dell’accumulazione primitiva del capitale e giocarono un ruolo nel dissolvere, non nello stimolare, il feudalesimo in Europa. D'altro canto, essi affermano che, sebbene lo sfruttamento coloniale fosse attuato “in linea di principio” sotto “forme feudali”, il suo contenuto “era già essenzialmente incompatibile con il feudalesimo”.
Ciò dimostra che l'attenzione principale di Marx ed Engels era rivolta al movimento della cosa e alle sue mutazioni – “era già essenzialmente incompatibile con…” – e non alle forme. La conquista e lo sfruttamento coloniale, in breve, erano imprese con “obiettivi in definitiva borghesi”. Questa è, diciamocelo, sostanzialmente la stessa premessa che Moreno proporrà: colonizzazione europea “essenzialmente capitalista”, nonostante “rapporti di produzione non capitalisti”. È chiaro che, secondo la teoria marxista, la critica di Mário Maestri è infondata. Certo, ha il diritto di non essere d’accordo con Moreno – e con Marx ed Engels –, ma ciò non lo autorizza a distorcere le loro posizioni.
L'approccio dialettico di Marx a questo problema diventa chiaro in un altro passaggio, in cui si riferisce alle colonie che producevano su larga scala per il mercato mondiale.
Nel secondo tipo di colonie – le grandi fattorie (piantagioni) – destinata fin dall'inizio alla speculazione commerciale e con la produzione finalizzata al mercato mondiale, esiste la produzione capitalistica, anche se solo formalmente, poiché la schiavitù nera esclude i salariati liberi, fondamento quindi della produzione capitalistica. Ma sono i capitalisti che portano avanti la tratta degli schiavi. Il modo di produzione che introducono non deriva dalla schiavitù, ma si innesta su di essa. In questo caso, capitalista e proprietario terriero sono la stessa persona.[Xviii]
Sebbene Marx definisca correttamente la schiavitù e il lavoro salariato come cose diverse, è chiaro che egli non concepisce la schiavitù moderna come qualcosa in sé, ma come una parte anomala di un movimento generale di transizione al capitalismo. Sulla base di questa logica, egli classifica il commerciante di schiavi come “capitalista” e afferma che il sistema di produzione introdotto da questi capitalisti non è “schiavitù”, ma che la schiavitù è “innestata” in un insieme più ampio. Pertanto afferma: “il capitalista e il proprietario terriero sono la stessa persona”.
Il fatto che il rapporto di produzione mondiale basato sui modi di mercato, benché contraddittorio, fosse controllato da un processo con “obiettivi in definitiva borghesi” o “essenzialmente capitalisti”, come si preferisce, diventa ancora più chiaro in questo breve passaggio scritto da Marx nel 1858: “ (…) Se oggi non solo chiamiamo capitalisti i proprietari delle piantagioni in America, ma se essi effettivamente lo sono, ciò si basa sul fatto che essi esistono come un'anomalia all'interno di un mercato mondiale fondato sul lavoro libero".[Xix]
Notiamo che, per definire le piantagioni di schiavi, il criterio decisivo era il loro inserimento nel mercato mondiale, e non il “modo” in cui venivano prodotte. Quest’ultima è stata importante, ma non decisiva. Per questo Marx chiamava i piantatori capitalisti, anche se producevano attraverso il lavoro schiavo e non con il lavoro salariato “libero”.
Intrappolato nel suo stesso schema, Mário Maestri accusa questa visione di essere “teleologica”. Dice: “La produzione di schiavi americana non è stata stimolata dalla produzione capitalistica, né è stata organizzata per sostenerla, come propongono visioni dal chiaro significato teleologico”. Altrove afferma: “senza il commercio universale non ci sarebbe alcuna 'grande industria'. Ciò non significa che sia stato costruito per supportare la grande industria!” Vede, signor Maestri, nessuno qui ha una macchina del tempo che gli permetta di scrivere dal XVI secolo e nessuno sostiene che ci fosse una specie di disegno divino per cui fosse scritto che dal processo sarebbe derivata l'egemonia della produzione dell’espansione commerciale e coloniale.
Evidentemente, nel mezzo di questo processo, una cosa del genere era solo un’alternativa storica. Quello che stiamo dicendo è che, nel 21° secolo, siamo pienamente in grado di analizzare ciò che è successo. Questa non è teleologia, signor Maestri, ma una valutazione storica che anche Marx ed Engels, a metà del XIX secolo, consideravano possibile e necessaria. La conclusione fondamentale era che, nel contesto del lungo, contraddittorio e ineguale processo di accumulazione primitiva del capitale, il “commercio universale” e la “produzione di schiavi americani”, tra le altre forme di sfruttamento precapitalista, erano prerequisiti indispensabili, erano “punti di partenza ” per la successiva imposizione della “produzione capitalistica e della grande industria”. Questa non è “teleologia capitalista”, Maestri, è un bilancio storico supportato dai fatti!
Tuttavia, ossessionato dalla particolarità di ogni colonia, Mário Maestri ripete: “È la 'struttura interna delle economie coloniali' che precede il dominio del capitalismo (…)”. Sì, è ovvio. Ma la struttura interna delle colonie non precede il capitale commerciale o il mercato mondiale, il cui carattere e la cui dinamica hanno condizionato la costituzione delle nostre formazioni sociali, né la schiavitù nelle Americhe è emersa dal nulla o germogliata dagli alberi, in modo estraneo al processo generale di emergenza dell’economia mondiale?
Credo che sia Mário Maestri a dover prestare attenzione all'ordine dei fattori nell'analisi storica. Secondo il marxismo, la genesi del processo di cui stiamo discutendo non sta nelle “strutture coloniali interne”, ma, come abbiamo accennato, nell’”espansione dei commerci avvenuta con la scoperta dell’America e della rotta marittima verso le Indie Orientali ( …premesso che) la colonizzazione e soprattutto l’espansione dei mercati fino alla formazione di un mercato mondiale (…) risvegliarono una nuova fase dello sviluppo storico […]”.[Xx] Fu questa “nuova fase” a dare un enorme impulso alla “manifattura e, in generale, al movimento della produzione”[Xxi]. Il marxismo è chiaro. Fu il mercato mondiale a rivoluzionare il commercio, la navigazione e le comunicazioni terrestri, progresso che, a lungo termine, portò all’espansione dell’industria e alla crescita della borghesia.[Xxii]
Il nocciolo della questione è che, per un lungo periodo, fino al trionfo definitivo del capitalismo e della grande industria, il capitale commerciale ha sfruttato senza scrupoli tutti i tipi di relazioni sociali non capitaliste, compresa la schiavitù africana. Mário Maestri non intende questo movimento contraddittorio, ma in senso “decisamente borghese”. Riferendosi alle caratteristiche del capitalismo e all'importanza dei rapporti sociali di produzione nell'analisi, il nostro critico scrive che: “per il metodo interpretativo marxista, non è importante ciò che viene fatto, ma come viene fatto”.[Xxiii]
Noti, signor Maestri, che, in termini storici, la logica del capitale non ha mai espresso grande preoccupazione per il “come” e ha utilizzato a proprio vantaggio, senza pietà, tutte le possibili forme di sfruttamento, arcaiche e non, per produrre su larga scala. ed estrarre surplus sociale dagli sfruttati. Da nessuna parte sono esistite e non esisteranno formazioni sociali “pure”. L’unità contraddittoria tra il vecchio e il nuovo è permanente. Tra le altre cose, questo spiega perché, nel 21° secolo e sotto il dominio indiscusso del capitalismo imperialista, ci sono più persone schiavizzate nel mondo che in qualsiasi altro momento della storia.[Xxiv]. I fatti non corroborano l’idea di un capitalismo attento al “come” e alle “forme”, come suggerisce lo schema di Mário Maestri.
Moreno e Frank: due programmi diversi
Speriamo di aver dimostrato che il tentativo di associare la nostra posizione con la visione e la posizione di Gunder Frank e con il dipendentismo è puerile. Mário Maestri omette opportunamente che lo stesso Moreno non esitò a criticare Frank e la sua corrente, affermando che il suo progetto, benché contrario alla tesi stalinista, era politicamente “tanto pericoloso quanto il precedente [la tesi feudale]”.[Xxv]
George Novack, un intellettuale del SWP statunitense, organizzazione che allora manteneva stretti rapporti con la corrente morenista, fece la stessa critica: “La Spagna e il Portogallo crearono nel Nuovo Mondo forme economiche che avevano un carattere combinato. Hanno unito le relazioni precapitaliste con le relazioni commerciali, subordinandole quindi alle richieste e ai movimenti del capitale mercantile”.[Xxvi]
Moreno rivendica questa formulazione, riconoscendola ancora più precisa della sua, elemento che Mário Maestri semplicemente “dimentica”: “dà un nome più preciso – scrive Moreno – a quelli che nella mia analisi chiamo 'obiettivi capitalistici', capitale mercantile , ma insiste sulla stessa mia tesi, sul carattere non capitalista dei rapporti di produzione”.[Xxvii]
Tuttavia, da una prospettiva marxista piuttosto che da commentatore o contemplativa, la differenza insormontabile tra Moreno e Frank è sempre stata nel programma derivato dall’una o dall’altra visione del passato coloniale americano. Frank, seguendo la sua tesi di un’America “sempre capitalista”, stabilì un programma “puramente” socialista, omettendo o sminuendo i compiti democratici. Moreno contrappose lo schema di Frank al programma di rivoluzione permanente, conclusione decisiva del suo studio sulla colonizzazione europea:
Le tesi della rivoluzione permanente non sono le tesi della semplice rivoluzione socialista, ma della combinazione delle due rivoluzioni, quella democratica borghese e quella socialista. La necessità di questa combinazione nasce inesorabilmente dalle strutture socioeconomiche dei nostri paesi arretrati, che combinano segmenti, forme, rapporti di produzione e classi diversi. Se la colonizzazione è stata capitalista fin dall’inizio, non c’è altro da fare che la rivoluzione socialista in America Latina e non una combinazione e subordinazione della rivoluzione democratica borghese alla rivoluzione socialista.[Xxviii]
Questa differenza, la più importante di tutte, viene omessa anche da Mário Maestri.
Spero di aver dimostrato che Moreno, senza negare la particolarità delle formazioni sociali emerse dalla conquista europea, ha evidenziato l'esistenza di una combinazione diseguale dei rapporti di produzione, pur con una predominanza di quelli precapitalisti, e, nello stesso atto , proponevano che queste strutture fossero, contraddittoriamente, al servizio del lungo e ineguale processo di formazione del capitalismo su scala globale, l’elemento totalizzante che “in definitiva” ha condizionato il contenuto delle particolarità regionali.
Quindi quello che Mário Maestri chiama “ibridismo” e un presunto contraddizione in terminis, rivela in definitiva un malinteso della logica dialettica, che concepisce la realtà in perpetuo movimento, in cui ogni fenomeno, intrinsecamente contraddittorio, contiene in sé la propria negazione – motivo per cui è stato possibile che le relazioni sociali non capitaliste fungessero da motore per la successiva egemonia dei rapporti capitalistici – ed è permeato da una lotta permanente tra il nuovo e il vecchio, il nascente e l’obsoleto, fino alla sua trasformazione in qualcosa di distinto attraverso salti qualitativi.
In questa prospettiva, come propongo nel mio libro, il disgiuntivo, inteso in senso estremo e puro, tra colonizzazione “feudale” (liberalismo e stalinismo) o direttamente “capitalista” (Frank e altri) è falso e, quindi, fuorviante.
Ammettendo che si tratti di un dibattito aperto e permanente, ritengo che l’approccio migliore sia avvicinarsi al contenuto essenziale e al movimento dialettico di questo processo storico, senza cercare di incapsularlo in un’etichetta. Le definizioni sono sempre un “male necessario”. Sebbene siano indispensabili per sistematizzare lo studio di un oggetto, allo stesso tempo esprimono la parte più povera dell'analisi, poiché necessariamente comprimono e “congelano” in una o due parole innumerevoli elementi della realtà, concetti e discussioni che hanno una loro propria ricchezza. Ci sono intellettuali che, innamorati di una categoria “multiuso”, inciampano e trasformano lo strumento in un fine a se stesso. Mario Maestri è uno di questi.
Moreno ha cercato di avvicinarsi al contenuto invece di rivendicare la “paternità” di un concetto “nuovo”. La sintesi da lui proposta spiega sia il carattere contraddittorio dei rapporti di produzione nell’America coloniale, sia il loro nesso e ruolo nella nascente economia mondiale. La sua logica, lo ripeto, si basa essenzialmente su quella di Marx ed Engels.
Povero Copernico!
Mário Maestri è scioccato dalla mia critica al concetto di “modo di produzione schiavistico coloniale” sviluppato da Jacob Gorender nel 1978[Xxix], anche se precedentemente proposto da Ciro Cardoso.
Sostiene che Gorender avrebbe risolto il problema della definizione dei rapporti sociali di produzione che hanno avuto origine nel Brasile coloniale e, così facendo, avrebbe “superato” il tradizionale “impasse tra feudalesimo e capitalismo” che ha diviso il marxismo latinoamericano per decenni. La sua ammirazione per Gorender lo porta ad affermare, senza troppa cautela, che “l’interpretazione strutturale della formazione sociale brasiliana” da parte dell’ex leader del Partito Comunista Brasiliano (PCB) ha rappresentato, attenzione, niente di meno che una “rivoluzione copernicana nelle scienze sociali brasiliane”. ”.[Xxx]
Lo storico britannico EH Carr ha fatto una raccomandazione metodologica che considero estremamente necessaria: “Studia lo storico (…) Quando leggi un’opera di storia, cerchi di sapere cosa succede nella testa dello storico”[Xxxi]. Con questo in mente, chiediamoci chi è quel genio incompreso a cui Maestri attribuisce una simile impresa intellettuale.
Lo stesso Maestri risponde: “Militante comunista fin dalla giovinezza, Jacob Gorender aveva rotto con il PCB e aveva partecipato alla fondazione del PCBR nel 1968. Pensatore erudito e profondo conoscitore del marxismo, insoddisfatto delle analisi del passato brasiliano e della rottura con il riformismo-stalinismo, al quale partecipò senza una reale critica politico-metodologica, intraprese un'indagine strutturale della formazione sociale brasiliana, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta”.
È deplorevole che qualcuno che ad un certo punto è stato attivo nelle file del trotskismo si riferisca in modo così complimentoso e consideri un leader storico dello stalinismo che, tra le altre funzioni, era un professore dei “Corsi di Stalin” come un “comunista”. e “profonda conoscenza del marxismo” del PCB negli anni '1950, un programma di deformazione politica che, secondo le parole di Gorender, “consisteva nel trasmettere un canone dottrinale uniforme, proveniente da Mosca e dal Cominform”, ammettendo che “(…) per noi, a quel tempo, fu l’ultima parola del più grande genio dell’umanità. Si trattava di rafforzare la lealtà dei militanti alla madrepatria socialista, la cui difesa costituiva un principio incondizionato, incompatibile con la minima critica”[Xxxii]. Mário Maestri rivela di non aver imparato qualcosa di fondamentale nei suoi anni nel trotskismo: il marxismo e lo stalinismo sono opposti.
Negli anni novanta, Jacob Gorender finì per unirsi al PT brasiliano. Il doppio processo di restaurazione capitalista da parte della burocrazia sovietica e il successivo rovesciamento, per mano del proletariato e delle masse dell’ex Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est, dell’apparato globale dello stalinismo tra il 1989 e il 1991[Xxxiii], lasciò la nostra “profonda conoscenza del marxismo” in un tale stato di orfanità e scetticismo che finì per rompere apertamente con il socialismo scientifico.
Nella sua ultima importante opera, Marxismo senza utopia, pubblicato nel 1999, Gorender si proponeva di “esaminare il nucleo del lavoro di Marx ed Engels” con l’obiettivo di svelare il “carattere utopico dell’intera costruzione marxiana o, almeno, alcuni suoi aspetti”[Xxxiv] e, da lì, rivederne i postulati essenziali. In effetti, la base del “fallimento delle costruzioni sociali di ispirazione marxista”[Xxxv] nel XX secolo risiederebbe, secondo l'autore baiano, nei presunti elementi utopici e teleologici del progetto marxista, che avrebbe idealizzato, in particolare, la natura del soggetto sociale capace di superare il capitalismo. “L’influenza della propensione utopica su Marx ed Engels può essere vista nel loro approccio al proletariato”[Xxxvi], ha affermato Gorender, poiché la realtà avrebbe dimostrato che si trattava di una classe “ontologicamente riformista”.[Xxxvii] e, quindi, incapace di guidare la lotta per il socialismo. Al suo posto, ha proposto un nuovo “soggetto rivoluzionario”, nientemeno che la “classe salariata intellettuale”. Lungi dal rompere con il “riformismo-stalinismo al quale aveva partecipato…”, come propone Maestri, Gorender rinunciò definitivamente al marxismo.
In un altro testo, Mário Maestri riconosce che sia la “resa tardiva” di Gorender sia la sua rottura con “…alcune strutture profonde del credo stalinista – la rivoluzione in un paese [sic]…” era “parziale”. Tuttavia non esita a considerarlo “il marxista rivoluzionario brasiliano più creativo”[Xxxviii]. Questa enorme confusione teorico-politica dimostra, a dir poco, l'eclettismo di Maestri, il quale dimostra ancora una volta di non aver compreso appieno il carattere assolutamente e irreversibilmente controrivoluzionario dello stalinismo.
Tuttavia, pur essendo lontano dalla presunta rivoluzione del pensiero sociale proposta da Maestri, non ne ho dubbi schiavitù coloniale Si tratta di un contributo profondo e coerente che non può essere ignorato nel dibattito. È per questo motivo che dedico “alcune pagine” del mio libro alla critica, cosa che infastidisce Mário Maestri, a cui piace anche esigere dai suoi critici l'esatta bibliografia con cui interrogarlo. La mia intenzione, tuttavia, non è mai stata quella di intraprendere una sorta di “anti-Gorender” o qualcosa di simile, ma di metterne in discussione la logica e le tesi essenziali.
Mário Maestri mi accusa sostanzialmente di disprezzare lo studio dei modi di produzione coloniali, che io vorrei dissolvere in una semplificazione circolazionista. Contro il metodo che mi attribuisce, rivendica il metodo e il concetto difesi da Gorender: “In schiavitù coloniale, Jacob Gorender spiega che, in Brasile, nelle isole dei Caraibi, ecc., il confronto di due diverse formazioni sociali, quella iberica feudale-mercantilista, dominante, con quella autoctona, dominata, non ha prodotto una trasposizione della prima o una semplice fusione tra i due. Ma, al contrario, ha lasciato il posto a una realtà singolare – un modo di produrre caratteristiche “nuove”, “prima sconosciute nella storia umana”. Da qui la proposta di un “modo di produzione storicamente nuovo”.
Evitiamo false polemiche. Non ho mai messo in discussione il carattere originario né sottovalutato le particolarità delle formazioni economico-sociali dell’America coloniale, che erano incomprensibili con la logica meccanicistica ed eurocentrica delle “cinque fasi” proposta dallo stalinismo. Se Mário Maestri avesse letto attentamente – o in buona fede – il primo capitolo del mio libro, si sarebbe imbattuto in questa affermazione categorica: “È il rapporto coloniale – e il grado di sviluppo delle forze produttive della metropoli, che in questo caso della penisola iberica è passata dal feudalesimo decadente al capitalismo che, a sua volta, non è riuscito a imporsi definitivamente – che si imporrà in uno spazio particolare. Di conseguenza, i rapporti di produzione che hanno origine in quello spazio coloniale – con determinate condizioni climatiche e geografiche, forza lavoro più o meno disponibile, modi di produzione preesistenti, cultura e costumi specifici, ecc. – acquisterà i caratteri più diversi, ibridi e combinati, ma inseriti nel generale processo di accumulazione primitiva del capitale in Europa”.[Xxxix]
Né è in discussione il fatto che “(…) in questa combinazione di forme di produzione, quella predominante, in Brasile, nelle Antille, nella Guyana, nel Sud degli Stati Uniti, ecc., era la schiavitù”.[Xl] C'è scritto anche questo, signor Maestri.
Insomma, la rilevanza della preoccupazione di Ciro Cardoso di riconoscere “la specificità dei modi di produzione coloniali in America (…)” non è in discussione.[Xli]
Ciò di cui sto discutendo è la logica, la proposta e le conseguenze politiche, sempre con un approccio marxista, di conferire a queste specificità una falsa autonomia rispetto al “processo generale di accumulazione primitiva del capitale in Europa” o, in altri termini, in relazione al processo ineguale di sviluppo del capitalismo mondiale. L'universalizzazione del particolare è opposta al metodo di analisi marxista.
È giusto riconoscere il successo di Cardoso e, seppur tardivamente, di Gorender, nella critica al dogma stalinista delle “cinque fasi”. Sostenevano, correttamente, che sia lo sviluppo delle forze produttive che dei modi di produzione in America non seguivano – e non potevano seguire – la “scala” europea. Tuttavia, Gorender, nella fretta di negare la dicotomia “passato feudale-passato capitalista”, si sforzò di elaborare una “teoria generale”[Xlii] costruito a partire da una comprensione frammentata della totalità e, con ciò, ha stabilito una relazione formale e non dialettica tra lo sviluppo del capitalismo europeo e il carattere delle formazioni sociali nei paesi di origine coloniale.
Jaco Gorender ha esposto il suo ragionamento in modo inequivocabile. La schiavitù, per lui, è la categoria centrale, il “punto di partenza” per comprendere il Brasile coloniale: “Questa differenza consiste nel fatto che [Fernando] Novais e [João Manuel] Cardoso de Mello si allontanano dal sistema coloniale globale come una totalità che determina il contenuto della formazione sociale in Brasile, mentre inizio la mia analisi con il modo di produzione schiavista coloniale, alle cui dinamiche attribuisco una determinazione fondamentale”.[Xliii]
In opposizione alla nota definizione di Caio Prado Jr., egli propose che la colonia avesse un “significato” intrinseco. Gorender capovolse così la logica marxista e sostenne, tra gli applausi di Mário Maestri, che “i rapporti di produzione dell’economia coloniale devono essere studiati dall’interno”[Xliv].
Questa logica lo ha portato a interpretare che la struttura economica interna dell’attuale Brasile aveva raggiunto una tale autonomia, da generare un modo di produzione originale, qualitativamente diverso da quelli emersi prima:
È quindi necessario concludere che il modo di produzione coloniale schiavista è inspiegabile come sintesi di modi di produzione preesistenti, nel caso del Brasile […] La schiavitù coloniale è emersa come un modo di produzione con nuove caratteristiche, precedentemente sconosciute all’uomo storia[Xlv].
Mário Maestri usa un gioco di parole per contrapporre “caratteristiche nuove” a “completamente nuovo”, evitando di entrare nel contenuto del problema. Non intendo giocare a questo gioco sterile. Basti dire che, se il contenuto dell’idea è che la “schiavitù coloniale” era un modo di produzione specifico con caratteristiche “prima sconosciute nella storia umana”, non è abusivo concludere che l’autore propone l’apparenza di qualcosa di completamente nuovo per l'umanità.
L'accademico del Rio Grande do Sul si difende dicendo che studiare i rapporti di produzione “dall'interno verso l'esterno” significherebbe “partire dal concreto – mezzi di produzione, rapporti di produzione, modi di produzione, formazione sociale”. Ovviamente quanto sopra è qualcosa di “concreto”. Non è questa la discussione. Il punto è che si tratta della concretizzazione di una particolarità inserita e condizionata dall'universalità del processo di genesi, sviluppo e successiva imposizione egemonica del modo di produzione capitalistico in Europa, ma anche negli spazi coloniali. Il problema non sta nel considerare “il concreto”, ma nel voler trasformare la parte in una totalità, attribuendole, come ammette lo stesso Gorender, “una determinazione fondamentale”.
Per dimostrare la specificità della “schiavitù coloniale”, Mário Maestri prosegue spiegando le diverse forme di schiavitù nella storia, per concludere che: “Il modo di “produzione di schiavi coloniali” aveva grandi identità con quelli in vigore nelle società greco-romane, poiché era uno “schiavista”. Ma presentava anche diversità sostanziali, o tendenze di “leggi specifiche”, che determinavano che si trattasse di un modo di produzione “storicamente nuovo”, dipendente dal mercato coloniale – da qui il suo aggettivo “coloniale”.
Questa parentesi è superflua, poiché le differenze tra la schiavitù antica e quella moderna sono evidenti, fondamentalmente perché entrambe si basavano su diversi gradi di sviluppo delle forze produttive.
Tuttavia, considerate nel loro insieme, entrambe le forme di lavoro forzato conservavano una caratteristica principale, comune a ogni società schiavista: lo schiavo era allo stesso tempo capitale fisso e merce; il mercato del lavoro veniva rifornito da rapine che “costituiscono puramente e semplicemente atti di appropriazione di forza lavoro attraverso palese violenza fisica”.[Xlvi]
Da questo punto di vista, è abusivo presentarlo come “sconosciuto” all’umanità. Tale affermazione non è altro che un tentativo forzato di giustificare un grado di autonomia tale che la “determinazione fondamentale” sarebbe data dall’originalità della schiavitù coloniale, e non dall’economia mondiale.
Il grossolano errore metodologico di Cardoso-Gorender-Maestri sta nell'esagerare il fenomeno, perdendo di vista la totalità e la particolarità universalizzante, cosa che non ha nulla in comune con il marxismo e, al contrario, si avvicina pericolosamente al metodo postmoderno.
Sebbene sottolineino che la “schiavitù coloniale” fosse “dipendente” dal “mercato internazionale”, o che il “mercato coloniale” costituisse il “presupposto” di questo modo di produzione, questi elementi vengono presto astratti dalle loro conclusioni. Il problema sta nel fatto che, come abbiamo criticato sopra, il contenuto e la dinamica di questo cosiddetto “mercato internazionale” non sono mai definiti e, in breve, appaiono come qualcosa di separato dal processo di accumulazione capitalistica globale.
Ciò è talmente vero che Mário Maestri arriva al punto di respingere la mia affermazione secondo cui “(…) la 'struttura interna' delle economie coloniali americane non può essere spiegata al di fuori di questo processo di espansione del sistema capitalista”.
Gorender-Maestri finiscono per sottovalutare il complesso rapporto metropoli-colonia e il legame con il mercato mondiale dominato dal capitale commerciale. Essi non sanno che il grosso della produzione estratta dalle colonie americane, con tutte le sue particolarità, non veniva realizzato per lo più nelle colonie, ma al di fuori di esse, poiché soggette alle metropoli e, quindi, alla mercé di sviluppo.
La schiavitù moderna – con la sua odiosa brutalità –, in questo contesto, era una necessità economica derivata sia dall’interesse ad espandere la produzione verso un mercato che aveva cessato di essere semplicemente “europeo”, sia dalla scarsità di manodopera nativa nelle Americhe. Si trattava di un processo simile alla “seconda servitù europea” di cui parlava Engels.[Xlvii]. Il lavoro forzato, in forme diverse, divenne qualcosa di imperativo nel processo di accumulazione primitiva del capitale.
Marx sottolinea questo ruolo economico della schiavitù moderna come base dell’industria moderna: “La schiavitù è una categoria economica come tutte le altre. Pertanto, ha anche i suoi due lati. Lasciamo il lato negativo e parliamo del lato positivo della schiavitù. Inutile dire che si tratta solo di schiavitù diretta, quella dei neri in Suriname, in Brasile, negli stati meridionali del Nord America. La schiavitù diretta è il fondamento dell’industria borghese, come lo sono le macchine, il credito, ecc. Senza la schiavitù non avremmo il cotone; Senza il cotone non avremmo l’industria moderna. Era la schiavitù a rendere le colonie più preziose; furono le colonie a creare il commercio universale; e il commercio universale è la precondizione della grande industria. Per questo motivo la schiavitù è una categoria economica della massima importanza. […] Gli uomini moderni sono riusciti solo a mascherare la schiavitù nei propri paesi, ma l’hanno imposta senza mascherarla nel Nuovo Mondo.”[Xlviii]
Come abbiamo visto, è ovvio che “…la produzione di schiavi americana non è stata stimolata dalla produzione capitalista, né è stata organizzata per sostenerla…”, seguendo una sorta di “piano generale”, ma questa è una visione statica del processo. La storia non si è fermata al XVI o XVII secolo. In altre parole, ciò che Marx mette dentro miseria della filosofia è che l’Europa occidentale ha imposto la schiavitù moderna per stimolare la produzione su larga scala di valori di scambio per alimentare il commercio universale e, così facendo, ha finito per incoraggiare lo sviluppo dell’industria e del capitalismo nei loro paesi.
Mário Maestri, perso nel regno delle particolarità, non capisce che l’espansione commerciale e coloniale europea sarà il punto di svolta storico, il “punto di partenza”, il momento cruciale in cui il modo di produzione capitalistico, ancora in uno stato germinale, ma rappresentante del “nuovo”, troverà il contesto favorevole in cui tenderà ad ampliare le proprie condizioni di esistenza, penetrando nei pori delle società conquistate e, progressivamente, distruggendo arcaici rapporti di produzione, indipendentemente dal fatto che li abbia utilizzati a proprio vantaggio per un periodo più o meno prolungato.
Marx enuncia esplicitamente le condizioni che segnarono “l’alba dell’era della produzione capitalistica”: “La scoperta delle terre d’oro e d’argento in America, lo sterminio, la riduzione in schiavitù e il seppellimento della popolazione indigena nelle miniere, l’inizio della conquista e del saccheggio dei paesi Le Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in riserva per la caccia commerciale delle pellicce nere caratterizzano l'alba dell'era della produzione capitalistica. Questi processi idilliaci costituiscono momenti fondamentali dell'accumulazione primitiva. Seguono immediatamente la guerra commerciale tra le nazioni europee, con il globo come palcoscenico. Essa fu inaugurata dall’insurrezione dei Paesi Bassi contro la dominazione spagnola, assunse proporzioni gigantesche nella guerra inglese antigiacobina e continua oggi nelle guerre dell’oppio contro la Cina, ecc.”.[Xlix]
Se Maestri abbandonasse il suo metodo e analizzasse l’intero movimento “dall’esterno verso l’interno”, si renderebbe conto che “la trasformazione dell’Africa in una riserva per la caccia commerciale delle pelli nere” e la stessa schiavitù moderna in Brasile e in altre parti del mondo sono state non affatto “determinazione fondamentale”, ma piuttosto che esistevano, come propone Marx, “come un’anomalia all’interno di un mercato mondiale fondato sul lavoro libero”.
La logica di Gorender-Maestri ci porta a un vicolo cieco. Se fossimo coerenti con l’analisi “dall’interno verso l’esterno” e con l’attribuzione di una “determinazione fondamentale” alla struttura interna di ogni spazio coloniale, arriveremmo ad una frammentazione analitica talmente assurda che dovremmo parlare di una “determinazione fondamentale” regime degli ordini coloniali”, “mita potosina coloniale”, “yanaconazgo coloniale”, “sistema di aggancio delle dita coloniale”, “modo di produzione coloniale dispotico-tributario”, “modo di produzione coloniale dispotico-villaggio” e così via, fino ad “esaurire” le più svariate particolarità e le loro sfumature.
Per quanto dispiaccia a Mário Maestri, Jacob Gorender non è riuscito a “superare” alcuna impasse né a risolvere alcuna controversia. Purtroppo il problema è troppo complesso per poter essere risolto con un “aggettivo”, per quanto “creativo” possa essere.
Una “rivoluzione sociale” in Brasile?
Intrappolato nel suo schema secondo cui il modo di produzione “schiavo coloniale” determinava di per sé le dinamiche sociopolitiche brasiliane, Jacob Gorender propone che “l’abolizione sia stata l’unica rivoluzione sociale mai avvenuta nella storia del nostro paese”,[L] poiché pose fine alla formazione sociale basata sugli schiavi e rappresentò una “profonda trasformazione della struttura economica”.[Li]
Tuttavia, lo stesso Gorender ammette che il latifondo è rimasto intatto e che “la forma più alta di lotta degli schiavi consisteva nella fuga dalle fattorie, avvenuta soprattutto a San Paolo (…)”, fatto che li “ha resi incapaci” alla “lotta per proprietà fondiaria, pur esprimendo aspirazioni al riguardo”[Lii].
Non metto in dubbio che l’abolizione legale della schiavitù nera nel 1888 “districò” la “diffusione dei rapporti di produzione capitalistici”[Liii], come sottolinea Gorender, e anche se, nelle parole di Maestri, ha dato “(…) il colpo finale alla produzione dominante per più di tre secoli, dando il via a diversi rapporti di produzione sostenuti dal lavoratore libero”. Sebbene estremamente tardivo, si è trattato di un cambiamento molto progressivo. Questo è chiaro.
Il problema è stabilire se il modo in cui questo cambiamento è avvenuto abbia realmente comportato “…l’unica rivoluzione sociale mai avvenuta nella Storia…” del Brasile, come propone Gorender e ripete Mário Maestri.
Bene, mettiamo alla prova questa tesi.
Sapendo che la definizione di “rivoluzione” è controversa, il mio riferimento sarà quello di Trotsky: “La caratteristica più indubbia di una rivoluzione è l’ingerenza diretta delle masse negli eventi storici. […] in quei momenti cruciali, quando il vecchio ordine non diventa più resistente alle masse, esse rompono le barriere che le escludevano dall’arena politica, rovesciano i loro rappresentanti tradizionali e creano di propria iniziativa il punto di partenza di un nuovo regime [ ...] ] La storia di una rivoluzione è per noi, innanzitutto, la storia dell'ingresso violento delle masse nel campo della decisione sul proprio destino."[Liv]
D’altra parte, presumo che ogni “rivoluzione sociale” abbia un carattere di classe, determinato dall’epoca storica e dalla natura dei suoi compiti, nonché un soggetto sociale rivoluzionario. Suppongo che il signor Maestri sia d'accordo con questa premessa.
Nel Brasile del 1888, “allora un paese prenazionale”, come descrive Mário Maestri, non potevamo concepire l’idea di una rivoluzione proletaria. Non ho dubbi che il mio critico la pensi allo stesso modo.
In questo caso, la “rivoluzione sociale” abolizionista di cui parla Gorender potrebbe essere solo una rivoluzione democratico-borghese, abbastanza potente da realizzare una “profonda trasformazione della struttura economica”.[Lv].
Alla fine del XIX secolo, la storia aveva già dimostrato che una rivoluzione democratica borghese contro la schiavitù ammetteva la possibilità che gli stessi schiavi, il principale settore sociale sfruttato e oppresso, assurgessero allo status di soggetti rivoluzionari. La domanda è: è stato questo il caso nel processo che ha portato alla stesura del brief? Legge n. 3.353 del 13 maggio 1888, firmato dalla principessa Isabel, e che ha abolito legalmente la schiavitù in Brasile?
È accaduto qualcosa di paragonabile all’“ingresso violento delle masse nel campo delle decisioni sul proprio destino”? Si può dire, signor Maestri, che il 13 maggio sia stato il prodotto di qualcosa almeno di simile ad una rivoluzione nera, sociale e radicale, come il caso haitiano? O forse c’è stato, a nostra insaputa, qualcosa di più piccolo, ma simile alla guerra civile americana, in cui gli schiavi, pur confinati nei limiti dell’esercito dell’Unione, hanno partecipato in massa ad una sanguinosa lotta armata che, ad un tratto certo punto, è diventato abolizionista?
I fatti, purtroppo, non consentono una simile affermazione. Né Gorender né Maestri arrivano a questi estremi. Il primo, come abbiamo accennato, riconosce che “la forma più alta di lotta degli schiavi era la fuga dalle fattorie…”, un movimento audace e importante, ma limitato, se ciò che vuole dimostrare è una “rivoluzione sociale” guidata dagli schiavi loro stessi. . La seconda afferma che: “…la classe dei lavoratori schiavi, principale agente di questa trasformazione, era in forte regressione da decenni”.
Propongono, insomma, una “rivoluzione sociale” mai vista nella storia brasiliana, ma che semplicemente non ha affrontato il problema della terra né ha avuto gli schiavi – che secondo lo stesso Mário Maestri erano “da decenni, in forte regressione” – come soggetto sociale.
In questo scenario, resta la questione su quale classe sociale abbia guidato la “rivoluzione sociale” di Gorender.
Se ogni rivoluzione ha bisogno di un soggetto sociale e, come siamo d’accordo, gli stessi schiavi non lo erano, questo ruolo non poteva che spettare alla borghesia abolizionista, o, almeno, a un settore di essa.
Anche se un Maestri infuriato, quasi senza argomenti, ricorre ad una provocazione così bassa come associarmi alle tesi degli schiavisti e di Gilberto Freyre, che difendono l’idea di una presunta “passività storica dei neri” in Brasile, è È necessario riaffermare: la fissazione sulla “schiavitù coloniale” come “determinazione fondamentale” ha indotto Gorender ad abbandonare l’idea che la borghesia abolizionista brasiliana avesse svolto un ruolo rivoluzionario nella storia nazionale. Mário Maestri, inciampando, cerca di chiarire la questione dicendo che Gorender ha parlato di “transizione rivoluzionaria” o di “transizioni intermodali”, quando, testualmente, afferma l’esistenza di una “rivoluzione sociale”.
Maestri non sembra però disposto a mettere in discussione l'affermazione di Gorender. Al contrario, nel suo immaginario, chiunque indichi i “limiti” del processo istituzionale di abolizione o si rifiuti di accettare la “rivoluzione sociale” dell’ex leader del PCB abbraccerebbe “visioni fuori dalla storia” e aderirebbe alla filosofia razzista tesi di Gilberto Freyre e di altri schiavisti.
Quanto al soggetto sociale, lo stesso Gorender si chiede: “che ruolo ha giocato la borghesia in trasformazioni di così grande portata?”, per poi evidenziare il ruolo della “…militanza abolizionista di commercianti e industriali”. Successivamente, egli ipotizza che, sebbene la borghesia bancaria fosse stata ostile o timorosa nei confronti dell’abolizione, “si può presumere, secondo la logica degli interessi di classe, che la borghesia industriale dovrebbe assumere un atteggiamento opposto”.[Lvi], cioè favorevole alla “rivoluzione sociale” da lui proposta.
È ovvio che, come scrive Mário Maestri, “se una fazione della borghesia industriale-produttiva ha sostenuto l'abolizionismo, ha avuto un 'ruolo progressista', anche se insignificante”. Il problema è che il soggetto sociale di una “rivoluzione sociale”, la proposta di Gorender, non gioca “solo” un ruolo progressista, tanto meno “insignificante”; gioca un ruolo rivoluzionario. Non giochiamo a nascondino, Maestri: un conto è svolgere un ruolo progressista, un'altra è svolgere il ruolo di soggetto rivoluzionario.
Ma i problemi con la tesi della “rivoluzione sociale” del 1888, almeno nei termini proposti da Gorender-Maestri, non si fermano qui. Se ci fosse stata davvero una rivoluzione sociale di natura democratico-borghese-abolizionista, che avesse sradicato la schiavitù, ci si aspetterebbe che il capitalismo emerso da questo processo portasse poche o nessuna traccia del “modo di produzione schiavista coloniale” o , come scrive Gorender, di altre “forme di esplorazione già esaurite”[Lvii].
Se accettassimo per qualche minuto la tesi dell’ex leader stalinista, dovremmo chiederci: se nel XIX secolo fosse effettivamente avvenuta una rivoluzione democratico-borghese di carattere sociale, quali sarebbero i compiti democratici pendenti o incompiuti che dovrebbero essere incorporati? nel programma della rivoluzione socialista brasiliana? Secondo lo schema di Gorender sarebbe legittimo supporre che pochi o nessuno. Questa conclusione, coerente con l’idea (falsa) di una “rivoluzione sociale” mai vista in Brasile, contiene il pericolo di un profondo errore programmatico e politico nel presente.
D’altra parte, se si parte dal presupposto che il Brasile fu scosso, nel 1888, da una rivoluzione sociale abolizionista, è molto difficile spiegare il contesto disastroso, per gli ex prigionieri, del periodo post-abolizionista, in cui furono abbandonati alla loro fortuna, senza terra, lavoro, alloggi dignitosi, istruzione formale, ecc. È chiaro che nessuna rivoluzione borghese, nemmeno la più radicale, è stata condotta in nome dei diseredati e degli oppressi. Tuttavia, se si fosse verificata una sorta di rivoluzione nera vittoriosa, non sarebbe irragionevole aspettarsi che ciò implicherebbe un livello più elevato di conquiste materiali e democratiche che, sebbene effimere, lascerebbero il segno nella società brasiliana.
La tesi di Gorender, nonostante la buona intenzione di attribuire “centralità” agli schiavi nella storia, non è coerente con i fatti ed è, quindi, incoerente, incoerente e falsa.
Perché uno dei motivi della pesante eredità di razzismo che corrode la società brasiliana e giustifica la politica permanente di sterminio della popolazione nera affonda le sue radici nel modo in cui è avvenuta l’abolizione, che purtroppo non ha significato alcuna rivoluzione.
Signor Maestri, questo non vuol dire negare l'enorme importanza delle lotte degli schiavi per la loro libertà. Non cercare di risolvere le divergenze con prese in giro infantili. Il ruolo della resistenza nera a partire dal XVI secolo è indiscutibile: fughe, sabotaggi, suicidi, ribellioni armate, ecc. Pertanto, il mito razzista secondo cui l’abolizione sarebbe stata “pacifica” e sarebbe avvenuta grazie alla benevolenza di una principessa bianca è inaccettabile. Come affermo in un altro lavoro: “[intorno al 1888…] la schiavitù era in via di disintegrazione a causa di una combinazione di fattori: la pressione internazionale per porre fine alla tratta degli schiavi e le innumerevoli lotte degli schiavi stessi, che la corrodevano dall’interno… ”.[Lviii]
Il timore che l’abolizione risvegliasse il “demone della rivoluzione”, cioè che portasse a una messa in discussione popolare non solo della schiavitù in sé, ma anche della struttura latifondista e delle difficoltà derivanti dalla società di classe, mobilitò importanti settori immobiliari. Ad un certo punto, di fronte alla crisi profonda della schiavitù, buona parte delle classi dominanti si sono spostate e hanno cominciato a difendere l’abolizione con il criterio pragmatico del “facciamolo da soli, prima che lo facciano loro”… Proprio a causa della resistenza nera, il sig. .
Fu proprio il timore dei “disagi economici che le Antille inglesi e francesi sperimentarono (…gli) orrori di São Domingos…”, come scrisse Joaquim Nabuco, a conferire al tardo abolizionismo brasiliano un carattere non solo conservatore e conciliante, ma anche preventivo.
La borghesia brasiliana, come tante volte nella storia nazionale, ha saputo anticipare una potenziale rivoluzione sociale nera e, con maggiori o minori sorprese, ha garantito una transizione istituzionale graduale, lontana da qualsiasi turbolenza sociale dalle conseguenze imprevedibili. “È così – scrive Nabuco – che in Parlamento e non nelle fattorie o nei quilombos dell'interno, né nelle strade e nelle piazze delle città, la causa della libertà sarà vinta, o perduta”.[Lix] Questa è stata la strada, riformista e catpardista, che ci è stata imposta. Una soluzione che ebbe anche la benedizione dell’imperialismo britannico. Non una “rivoluzione sociale”, come romanticizza Gorender alla luce dell’esaltazione di Maestri.
In breve, la forza crescente della lotta degli schiavi e il pericolo che l’abolizione avvenisse “nelle fattorie o nei quilombos dell’interno” hanno portato i settori abolizionisti borghesi più forti a raddoppiare preventivamente i loro sforzi alla ricerca di un’abolizione “controllata” dall’alto. Queste frazioni proprietarie, a loro modo, giocarono un ruolo progressista nel contesto del XIX secolo, ma non rivoluzionario. In altre parole, ci furono resistenze e lotte eroiche di ogni tipo da parte dei prigionieri, ma sfortunatamente queste non sfociarono in un processo di rivoluzione sociale e tanto meno con un protagonismo nero e metodi violenti.
Pertanto, il modo estremamente tardivo e “controllato” con cui è avvenuta l’abolizione ha impedito qualsiasi riparazione e limitato i diritti democratici fondamentali. Non garantiva assolutamente nulla agli schiavi liberati nel 1888. Non esisteva una politica di concessione di terre, lavoro o alloggi. Nulla. La borghesia riuscì a controllare il processo e a indirizzarlo verso una transizione graduale, sempre con il sostegno dell’imperialismo britannico.
L’ipotesi che, nel caso di una “rivoluzione sociale”, l’inserimento degli ex prigionieri nel capitalismo semicoloniale brasiliano sarebbe stato, almeno quantitativamente diverso, non è “demagogia”, come scrive Maestri. La demagogia predica l’esistenza di una rivoluzione sociale mai avvenuta. La lotta ideologica contro la tesi della “passività” dei neri nella storia brasiliana, per quanto giusta e necessaria, non autorizza a distorcere i fatti. Qualcosa di simile, oltre a impedirci di trarre accuratamente le lezioni della storia, distorce il programma e la politica del presente.
Sviluppata fino alle sue ultime conseguenze, in termini programmatici, l’idea di una rivoluzione sociale inesistente porta a importanti omissioni o disattenzioni. Proprio perché l'abolizione è avvenuta gradualmente e sotto il controllo dell'oligarchia, cioè attraverso l'istituzionalità dei proprietari, la realtà impone una serie di compiti democratici e antirazzisti che il programma operaio e socialista deve incorporare.
Dalle “quote”, alle quali lo stesso Mário Maestri si oppone,[Lx] passando attraverso riparazioni efficaci in termini di uguaglianza razziale e sociale. Compiti democratici che, in piena epoca imperialista, solo una rivoluzione socialista, con il proletariato alla testa degli altri settori sfruttati e oppressi, può realizzare.
*Ronald Leon Núñez ha conseguito un dottorato in storia presso l'USP. Autore, tra gli altri libri, di La guerra contro il Paraguay in discussione (Sundermann). [https://amzn.to/48sUSvJ]
Traduzione: Diego Russo.
note:
[I] MAESTRI, Mario. La colonizzazione delle Americhe in discussione. Disponibile in: https://dpp.cce.myftpupload.com/a-colonizacao-das-americas-em-debate/. Tutti i riferimenti a Maestri, se non diversamente indicato, fanno riferimento a questo testo.
[Ii] NÚÑEZ, Ronald L. La guerra contro il Paraguay in discussione. San Paolo: Sundermann, 2021, pp. 27-77.
[Iii] FRANK, André G. Capitalismo e sottosviluppo in America Latina. Messico: Siglo XXI, 1970, pp. 3, 5, 10.
[Iv] Nahuel Moreno [1924-1987]: leader e teorico trotskista argentino, fondatore dell'attuale Lega Internazionale dei Lavoratori (LIT-QI).
[V] MORENO, Nahuel [1948]. Quattro tesi sulla colonizzazione spagnola e portoghese in America. Disponibile in:https://www.marxists.org/espanol/moreno/obras/01_nm.htm>.
[Vi] Ibid.
[Vii] Per quanto riguarda la dinamica del processo, si può dire che l'analisi di Moreno si avvicina alle note definizioni di Caio Prado Jr. e Fernando Novais.
[Viii] Ibid. Se non diversamente specificato, tutti i punti salienti sono nostri.
[Ix] MORENO, Nahuel [1975]. Metodo di interpretazione della storia argentina. Buenos Aires: El Socialista, 2012, pp. 31-32.
[X] PRADO jr., Caio. Formazione del Brasile contemporaneo. San Paolo: Brasiliense, 2000, pp. 20-21.
[Xi] MARX, Carlo. La capitale. Volume I. San Paolo: Boitempo, 2013, p. 960.
[Xii] MARX, Carlo; ENGELS, Federico [1848]. Manifesto comunista. San Paolo: Boitempo, 2010, p. 41.
[Xiii] MARX, Carlo. La capitale. Volume I…, op. cit., pag. 988.
[Xiv] MARX, Carlo; ENGELS, Federico. l'ideologia tedesca: critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi diversi profeti. San Paolo: Boitempo, 2007, p. 57.
[Xv] MARX, Carlo; ENGELS, Federico [1848]. Manifesto comunista…, operazione. cit., pag. 41.
[Xvi] ENGELS, Federico. L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. San Paolo: Boitempo, 2019, p. 80.
[Xvii] MARX, Carlo; ENGELS, Federico. Materiali per la storia dell'America…, operazione. cit., pag. 46.
[Xviii] MARX, Carlo. Teorie del plusvalore. Volume II. San Paolo: Difel, 1983, p. 730.
[Xix] MARX, Carlo. planimetrie. Manoscritti economici del 1857-1858. Lineamenti di critica dell'economia politica. San Paolo: Boitempo, 2011, p. 684.
[Xx] MARX, Carlo; ENGELS, Federico. l'ideologia tedesca…, operazione. cit., pag. 57.
[Xxi] Ibid.
[Xxii] MARX, Carlo; ENGELS, Federico [1848]. Manifesto comunista…, operazione. cit., pag. 41.
[Xxiii] MAESTRI, Mario. Alla ricerca del Brasile feudale perduto. Disponibile in:https://dpp.cce.myftpupload.com/em-busca-de-um-brasil-feudal-perdido/>.
[Xxiv] VALIDO, Dharv. 50 milioni di persone intrappolate nella schiavitù moderna. Disponibile in:https://www.dw.com/es/50-millones-de-personas-atrapadas-en-la-esclavitud-moderna/a-65831282>.
[Xxv] MORENO, Nahuel [1948]. Quattro tesi sulla colonizzazione..., operazione. cit.
[Xxvi] NEWACK, Giorgio. Sviluppo disomogeneo e combinato nella storia. San Paolo: Editora Sundermann, 2008, p. 90.
[Xxvii] MORENO, Nahuel [1948]. Quattro tesi sulla colonizzazione..., operazione. cit.
[Xxviii] Ibid.
[Xxix] GORENDER, Jacob [1978]. schiavitù coloniale. 6a ed. San Paolo: Expressão Popular-Perseu Abramo, 2016.
[Xxx] MAESTRI, Mario. schiavitù coloniale: La rivoluzione copernicana di Jacob Gorender. Genesi, riconoscimento, delegittimazione. Quaderni IHU. Anno 3, n. 13, 2005, pag. 9.
[Xxxi] TRACCIA EH Cos'è la storia. Rio de Janeiro: Pace e Terra, 1987, p. 24.
[Xxxii] FREIRE, Alipio; VENCESLAU, Paulo de Tarso. Jacob Gorender. Disponibile in:https://teoriaedebate.org.br/1990/07/01/jacob-gorender/>.
[Xxxiii] A quanto pare, Maestri si rammarica anche della “distruzione dell’URSS stalinizzata”, dato che avrebbe innescato la “vittoria dell’ondata controrivoluzionaria globale degli anni ’1990”.
[Xxxiv] GORENDER, Giacobbe. Marxismo senza utopia. San Paolo: Ática, 1999, p. 9.
[Xxxv] Ibid.
[Xxxvi] Idem, pag. 33.
[Xxxvii] Idem, pag. 37-38.
[Xxxviii] MAESTRI, Mario. Centenario della nascita di Jacob Gorender. Disponibile in:https://dpp.cce.myftpupload.com/centenario-do-nascimento-de-jacob-gorender/.
[Xxxix] NÚÑEZ, Ronald L. La guerra contro il Paraguay…, operazione. cit., p.75.
[Xl] Idem, p.63.
[Xli] CARDOSO, Ciro F. Severo Martínez Peláez e il carattere del regime coloniale. In: ASSADOURIAN, Carlos, et al. Modi di produzione in America Latina. Cordoba: Cuadernos Pasado y Presente, 1974, p. 102.
[Xlii] GORENDER, Jacob [1978]. schiavitù coloniale…, operazione. cit., pag. 22.
[Xliii] GORENDER, Jacob [1981]. La borghesia brasiliana. 3a ed. 2a ristampa. San Paolo: Brasiliense, 2004, p. 7.
[Xliv] Idem, pag. 21.
[Xlv] GORENDER, Jacob [1978]. schiavitù coloniale. 3a ed. San Paolo: Atica, 1980, p. 54. Evidenziato nell'originale.
[Xlvi] MARX, Carlo [1859]. Contributo alla critica dell'economia politica. Buenos Aires: Studio, 1970, p. 210.
[Xlvii] Engels spiegò che nel XVI secolo ci fu una “nuova ondata” del feudalesimo in gran parte dell’Europa orientale, con l’obiettivo di produrre lana e altre materie prime per lo sviluppo manifatturiero dell’Europa occidentale. Il servo della gleba vedeva così rafforzata con la forza la sua sottomissione alla terra, per produrre su larga scala per il mercato occidentale. Questo processo sarebbe una prefigurazione di ciò che accadrebbe, in modo espanso, nel Nuovo Mondo. Consultare: MAZZEO, Antonio. Schiavitù coloniale: modo di produzione o formazione sociale? Rivista di storia brasiliana. San Paolo, vol. 6, n. 12, 1986, pag. 211.
[Xlviii] MARX, Carlo. Miseria della filosofia. Disponibile in:https://www.marxists.org/espanol/m-e/1847/miseria/005.htm>
[Xlix] MARX, Carlo. La capitale. Volume I…, op. cit., p.988.
[L] GORENDER, Jacob [1981]. La borghesia brasiliana…, operazione. cit., pag. 21.
[Li] Ibid.
[Lii] Idem, pag. 22.
[Liii] Ibid.
[Liv] TROTSKY, Leon. Storia della rivoluzione russa. San Paolo: Sundermann, 2007, p. 9.
[Lv] GORENDER, Jacob [1981]. La borghesia brasiliana…, operazione. cit., pag. 21.
[Lvi] Idem, pag. 23.
[Lvii] Idem, pag. 22.
[Lviii] NÚÑEZ, Ronald L. 13 maggio 1888: una narrazione razzista sull'abolizione della schiavitù in Brasile. Disponibile in:https://www.abc.com.py/edicion-impresa/suplementos/cultural/2020/05/17/13-de-mayo-de-1888-una-narrativa-racista-sobre-la-abolicion-de-la-esclavitud-en-brasil/>
[Lix] NABUCO, Gioacchino. Oh, l'abolizionismo. San Paolo: Publifolha, 2000, pp. 12-29.
[Lx] PARTITO COMUNISTA BRASILIANO. Il programma razziale di capitale e lavoro per la società brasiliana. Disponibile in:https://pcb.org.br/portal2/628>.
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