da FREDRIC JAMESON*
Jean-Luc Godard è stato il più grande regista di tutti i tempi?
Dopo decenni in cui titoli impenetrabili firmati da Jean-Luc Godard spuntavano regolarmente ai festival cinematografici, mentre l'immagine del loro creatore si deteriorava da ribelle a vecchio, se non a savant tecnologicamente ossessionato, fa impressione, sfogliando le filmografie, ricordare cosa hanno significato per noi molti di questi film come eventi, come ci aspettavamo, negli anni '1960, per ogni film nuovo e inaspettato, con quanta intensità abbiamo analizzato gli impegni politici del gruppo Dziga Vertov, con quale genuina e impegnata curiosità ci siamo chiesti quale fosse il la fine del periodo politico porterebbe, e, successivamente, cosa faremmo con le ultime opere del periodo “umanista”, da dove provenissero, e se significassero un crollo o un autentico rinnovamento.
In tutto questo, siamo stati o intrattenuti o presi in giro da "pensieri" o paradossi sempre più ignobili, che invitavano alla meditazione o ispiravano un lieve disprezzo, temperato dal costante richiamo che la visualità, se è capace di pensare, lo fa in modo non- modo esistente necessariamente accessibile a tutti noi; mentre i suoi film continuavano a "pensare" per immagini chiasmatiche: Belmondo che imita Bogart, Piccoli che invita Bardot a usare la sua acqua da bagno ("Non sono sporco"), conquistatori del mondo che espongono le loro cartoline, prende forma la Rivoluzione Culturale di Mao. musica, il mondo che finisce in un ingorgo, un personaggio in un bagno che divora yogurt con un dito, due netturbini africani che recitano Lenin, le nostre star del cinema preferite sconcertate dai loro nuovi ruoli, una serie interpolata di interviste-interrogatori in cui dieci- ai bambini di un anno viene chiesto della lotta di classe, e simpatici modelli sulle ultime decisioni sindacali,'la musique, c'est mon Antigone!” – la narrazione si deteriora costantemente solo per finire in immagini 3D o dense come farfalle davanti a un volto.
Tutto questo inesorabilmente consolidandosi verso l'impertinenza finale, in una voce inconfondibile, oggi inscindibile dalla sua idea di pedagogia: nello specifico, che la storia è (niente di più, niente di meno) la storia del cinema. Perché no? Se tutto è racconto, sempre mediato da questa o da quella del manifesto, come nelle scene di battaglia nella sequenza infernale di La nostra musica (2004), le immagini stesse devono competere per questo, come persone che si rincorrono, urlando e saltando sulle macchine – insieme ai loro distinti stili storici – mute o sonore, in bianco e nero o in technicolor; questo potrebbe essere tutto ciò che sa della storia, quello che chiama cinema.
In tutta la storia del cinema c'è la storia di un film, da dove viene? Dalle stesse immagini, così come le estraeva dal più sublime dei suoi ultimi film, Passione (1982), dispiegandosi nel lignaggio ancora più sublime di Scena del film "Passione" (1982), che, dalla pagina bianca mallarmiana (or spiaggiao sciopero), appare una giovane donna che cerca di iniziare uno sciopero. In questo caso, deve seguire la fabbrica contro cui protesta, insieme al suo proprietario, e poi a sua moglie, e poi all'albergo che gestisce. E infine, un misterioso ospite da qualche parte al di là del cinema, che cerca di realizzare lui stesso un film con una narrazione, tormentato da immagini, i più grandi dipinti del mondo, tableaux vivants dei più grandi dipinti del mondo, ricostruzioni in miniatura della sua architettura – Gerusalemme attraverso la quale hanno attraversato le crociate, spronate dall'implacabile concerto per pianoforte di Antonín Dvořák, proprio mentre il potenziale produttore del film è assediato da banchieri e finanzieri riluttanti.
Il cosiddetto regista straniero è deficiente come gli altri personaggi (balbuzie, tosse), non può ricambiare l'amore di nessuna donna, non può trasformare queste immagini in scenari narrativi, alla fine si arrende e torna a casa sua (il Polonia e Solidarność).
Il film diventa ora un'allegoria della nuova Europa e dei suoi “realtà peu”: attori grandiosi rappresentano Francia, Germania, Ungheria, Polonia (le grandi tradizioni), con un presunto regista svizzero; temi fondamentali come l'amore e il lavoro non possono mai essere rappresentati; i dipinti grandiosi sono muti come il Voci del silenzio che Belmondo legge nella vasca da bagno; ma Jean-Luc Godard ha la sua sceneggiatura, ora può iniziare a registrare il suo film di finzione.
Scenario ora riavvolge il nastro, riproduce tutto al contrario, scomponendo la finzione nelle sue parti, distendendo le immagini, sovrapponendole, tornando alle origini, individuando le proprie origini. Quindi ora: due film sulla stessa cosa, due film che condividono lo stesso corpo: il cinema. Cinema, il palcoscenico dello specchio cinematografico.
Cinema significa visualità, suoni, parole (con scorci di denaro). È la vita stessa o il vivere in quanto tale, tutto è cinema. Gli ultimi film forse cercano di andare in discesa dall'altra parte, iniziano con la narrazione, l'ambientazione, e poi li fanno a pezzi, ci danno con gioia rauca i pezzi in una collisione festosa, punteggiata da inquadrature crude, film muti con sonoro, la storia che va indietro.
Ha vissuto, mangiato, respirato, dormito film. È stato il più grande regista di tutti i tempi? Semmai era il Cinema stesso, il cinema ritrovato nel suo momento di scomparsa. Se il cinema sta davvero morendo, allora è morto con esso; o, meglio ancora, morì con lui.
* Fredric Jameson è direttore del Center for Critical Theory della Duke University (USA). Autore, tra gli altri libri, di Archeologie del futuro: il desiderio chiamato utopia e altre fantascienza (autentico).
Traduzione: Daniele Pavan.
Originariamente pubblicato sul blog Sidecar.
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