da RENATO DAGNINO*
Le sfide che affliggono la società, la cui intensità cognitiva è notoriamente in aumento, possono essere affrontate dall’attuale governo solo mobilitando il nostro potenziale tecno-scientifico
Apresentação
Di questo testo si è discusso in questo Convegno Libero, tenutosi il 17 aprile per inserire questi due temi finora assenti nell'agenda della V Conferenza Nazionale della ST&I, per la loro incisività nel nostro ambiente e il loro carattere antiegemonico, in decine di eventi simili che hanno scosso e galvanizzato coloro che sono coinvolti nell’argomento.
Il Convegno Libero si è articolato in due momenti. Nel pomeriggio si sono riunite persone interessate a discutere liberamente questo testo sulla Tecnoscienza Solidale e un altro sulla Piattaformatizzazione della Società. Per ricevere i testi, si sono registrati sul sito htt//tinyurl.com/conferencia-livre-df. Lo stesso hanno fatto in serata le persone interessate a dialogare con chi lavora su questi due temi nelle università e nei movimenti sociali.
In entrambe le occasioni, due professori di università pubbliche, Renato Dagnino di Unicamp e Ricardo Neder di UnB, hanno approfondito gli aspetti più rilevanti dei loro testi, sulla Tecnoscienza Solidale e sulla Piattaforma della Società, su cui hanno precedentemente lavorato i partecipanti alla Conferenza.
I feedback dei partecipanti che si sono registrati, delle persone che hanno fatto parte del tavolo di apertura dell'evento e dei relatori invitati a commentare i testi, hanno rafforzato la percezione del team che ha organizzato l'evento che questi due temi dovessero essere discussi al V Convegno Nazionale sul CT&I.
Inoltre, insieme a tutti coloro che sono diventati “militari” affinché questi temi, da giugno in poi, diventino parte dell’agenda decisionale della nostra politica STI, hanno lasciato speranza. Siamo usciti dal nostro evento con la certezza che, per raggiungere il suo obiettivo di contribuire a costruire “un Brasile giusto, sostenibile e sviluppato”, la V Conferenza Nazionale ST&I non poteva non tenere conto dei risultati del nostro lavoro.
Introduzione
La prima parte di questo testo si riferisce proprio al primo dei temi del Libero Convegno. Lì torniamo al tema della Tecnoscienza Solidale, spiegandone brevemente il concetto e giustificando la comodità del suo utilizzo da parte della sinistra.
La seconda, molto più breve, ma che sembra meritare una giustificazione in questa Introduzione, è presentata a pagina 7. Si tratta di una proposta (Per uno spazio istituzionale di consultazione con i lavoratori della conoscenza), discussa e approvata dal Settore S&T Nazionale e da PT IT in 2022 e inoltrato al team di transizione. E poi, secondo le informazioni di MCTI, “è sulla scrivania del ministro”.
Come giustificazione per la sua inclusione, vale la pena sottolineare che la sua elaborazione si basa su aspetti che sono stati ampiamente discussi tra le persone di sinistra coinvolte nella politica STI: (a) questa politica, molto più che nei paesi capitalisti avanzati, è stata qui guidato egemonicamente dalla nostra “élite scientifica”; (b) le loro “antenne” erano sempre orientate, ed è naturale che sia così, visto quello che accade nella zona, in quei paesi.
(c) Di conseguenza, le richieste cognitive (o tecno-scientifiche) integrate nei bisogni collettivi in molti dei bisogni materiali collettivi che non abbiamo esplorato con la necessaria intensità; (d) il modo più conveniente per soddisfare queste esigenze cognitive è quello di incorporare nel processo decisionale di preparazione del PCTI un attore finora poco ascoltato, ma che detiene ed è responsabile dell'operazionalizzazione del nostro sistema tecno-scientifico potenziale; (e) questo attore, i lavoratori della conoscenza (che operano nella didattica, nella ricerca, nella progettazione e gestione delle IST, ecc.) è, per diverse ragioni, colui che meglio riesce a individuare quei bisogni, decodificarli, traducendoli in termini tecno-scientifici richieste e “portandole” nell’ambiente delle politiche pubbliche.
L'inserimento di tale proposta nel presente documento ha voluto valutare l'opportunità di trasmetterla come proposta per il V Convegno.
A proposito di Tecnoscienza Solidale – theorigini del concetto
Anche se mi riferisco alla Tecnoscienza Solidale come alla “piattaforma cognitiva per il lancio dell’Economia Solidale” e a un requisito indispensabile per consentire la transizione sociale ed ecologica a cui si riferiscono i suoi difensori, mi astengo dal discuterne qui. Né commento concetti come “innovazione” e “tecnologia” seguiti dall’espressione “sociale”, in modo che questi termini denotino, come fanno più di due dozzine di altri, alternative a ciò che chiamo Tecnoscienza Capitalista.
Chiarisco che, pur ritenendolo altrettanto pertinente, data la necessità di evitare la confluenza perversa causata dalla “confusione” del significante x significato, non mi fermerò alla discussione del termine sociale. Non mi riferirò nemmeno agli appositivi distorcenti che compaiono dopo Economia e “al posto” di Solidarietà come i termini sostenibile, impatto, circolare, creativo, popolare, verde.
Nei miei interventi sulla Tecnoscienza Solidale e anche in alcuni testi che ho scritto sull'argomento, inizio presentando il concetto di Tecnoscienza da me formulato, poiché differisce da quello utilizzato da altri ricercatori nel campo degli Studi su Scienza, Tecnologia e Società . Successivamente, particolarizzando questo concetto generico per il caso del capitalismo, spiego perché la tecnoscienza di cui disponiamo oggi, che definisco capitalista, non è adatta alla gestione pubblica che questo lavoro propone. In particolare, quello che deve promuovere quella che chiamiamo transizione dallo Stato ereditato allo Stato necessario.
Procedendo qui allo stesso modo, penso di poter giustificare, senza bisogno di confrontarmi con i miti della neutralità della scienza e del determinismo tecnologico (di cui ho parlato in un libro quasi vent’anni fa), perché metto in dubbio l’uso di termini come tecnologia o innovazione per fare riferimento ad alternative alla tecnoscienza capitalista.
Perché la tecnoscienza?
Per rispondere alla domanda indico quattro ragioni che, implicitamente, giustificano perché l’uso di altri termini mi sembra inappropriato.
Il primo si colloca nel campo descrittivo-esplicativo. Nasce da evidenze empiriche che mostrano un rapporto crescente, iniziato con l’avvento della Big Science, tra quella che ancora comunemente viene chiamata ricerca scientifica e ricerca tecnologica.
In effetti, molti autori famosi usano il termine tecnoscienza per riferirsi al risultato di ciò che intendono essere una fusione contemporanea tra scienza e tecnologia. Da un lato non ci sarebbe più la ricerca scientifica, che cercherebbe di comprendere la realtà, di produrre conoscenza pura, la scienza. E, dall’altro, la ricerca tecnologica, che la applicherebbe generando conoscenza applicata – la tecnologia – per produrre beni e servizi; cose utili. Oggi l’attività che meglio descriverebbe la produzione di conoscenza è la ricerca tecnoscientifica.
Che si svolga, da un lato, nelle imprese transnazionali (dove viene utilizzata più della metà di tutte le risorse spese per la ricerca nel mondo), o dall’altro, nelle università e negli enti pubblici (dove viene utilizzato il 30% di queste risorse totali). utilizzati, sostanzialmente per formare persone a fare ricerca nelle aziende), il risultato di questa ricerca viene chiamato da questi autori tecnoscienza.
Ma ci sono prove empiriche sufficienti per dimostrare che le dinamiche tecno-scientifiche globali non sono controllate da queste aziende solo quantitativamente. Il suo potere nei confronti degli istituti di insegnamento e di ricerca viene esercitato in due modi simili a due parti di un iceberg.
Ce n’è uno molto visibile: finanziamento di progetti, joint venture, ecc. Basterebbe dimostrare che questa dinamica è da loro controllata anche qualitativamente. Un altro, molto più significativo, derivante dal sottile potere che esercitano attraverso il mercato del lavoro, si rivela quando si scopre che la maggior parte dei laureati nei paesi avanzati vengono assunti da loro per svolgere la ricerca che garantisce il loro profitto. Il profilo di questi professionisti, affinché possano rispondere alle esigenze conoscitive dell'azienda, è il risultato dell'induzione “naturale” e quindi poco considerata che le aziende hanno nella definizione delle agende di ricerca e di didattica di quelle istituzioni.
C'è un secondo motivo: ci sono autori che sostengono che quella che i primi osservano non è una semplice fusione contemporanea. Per loro il termine porta con sé e viene adottato a causa della spiegazione che questo presunto appartamento è solo discorsivo. Non ci sarebbero mai state università che producessero scienza al di fuori del “mondo degli affari”, né aziende che avessero avuto successo semplicemente applicandola per generare tecnologia.
Secondo loro, la conoscenza per la produzione di beni e servizi, che si generava ogni volta che gli esseri umani “dall’inizio dei tempi” intervenivano nei processi lavorativi volti ad appropriarsi del risultato materiale di tale azione, era un mix cognitivo complesso e sistemico. E fu solo dopo trecento anni che durò la disgregazione del feudalesimo europeo, quando cominciarono ad apparire significanti che denotavano intenzionalmente nuovi significati, che i costituenti di questa mescolanza cominciarono a chiamarsi scienza, religione, artigianato, conoscenza empirica (popolare, ancestrale, non scientifico, tacito, ecc.), stregoneria, arte, tecnologia e, nella contemporaneità, innovazione.
Da questa mescolanza di conoscenze per la produzione di beni e servizi, così diverse agli occhi attenti del capitalismo, ma così “coese” per costruzione che le società precapitaliste non si sono mai preoccupate di creare termini per designare ciò che in realtà non esisteva nemmeno, il capitale, per comodità, ne assolutizzò due: quella che chiamò scienza e tecnologia. Ci sono addirittura ricercatori che considerano questo appartamento una rassicurante manipolazione ideologica del capitale. Affermando che esiste una scienza intrinsecamente vera, buona e neutrale e che spetta solo alla società garantire che la tecnologia risultante dalla sua applicazione sia realizzata eticamente.
In effetti, per il suo progetto di dominio era importante identificare un sottoinsieme di questo spettro cognitivo che il capitale potesse controllare e monopolizzare. Incluso il modo in cui si materializzò in artefatti socio-tecnici la cui forma, scala e costo di acquisizione costituivano ostacoli per la classe operaia. A questo sottoinsieme, rivendicando la propria interpretazione di una “scienza” che sarebbe emersa nell’antichità nel nord-ovest del mondo (come se i popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’America non esistessero) con l’obiettivo di “saziare l’appetito umano di conoscenza la verità”, il capitale cominciò a chiamare scienza e tecnologia.
Fu così che la parte tacita della conoscenza per la produzione di beni e servizi, che restava di proprietà del produttore diretto (che cominciò ad essere sfruttato come venditore di forza lavoro), fu relegata a know-how empirico e non scientifico. La loro “cancellazione” ha contribuito a sottoporre il lavoratore alla “qualificazione” imposta dal capitale.
Se la sua sistematizzazione e appartamentizzazione del repertorio cognitivo del lavoratore diretto, come tecnologia codificata, ne ha facilitato l'espropriazione e la monopolizzazione, la sua categorizzazione come presunta applicazione a posteriori di una scienza che esprime un linguaggio elitario e quasi sacro, ha legittimato la forma meritocratica dello sfruttamento capitalistico.
Ciò non significa che nel corso della storia, a causa degli alti costi delle operazioni di sperimentazione e del potenziamento dei processi produttivi, della formazione di lavoratori che gestivano unità sempre più grandi, complesse e costose, e del loro desiderio di trasformare i propri figli in buoni imprenditori, i capitalisti classe non ha creato, al di fuori delle imprese, ma a contatto con esse, organismi di didattica e di ricerca finanziati dallo Stato. Con le sue idiosincrasie culturali, particolarità territoriali e specializzazioni produttive, questo processo ha abbracciato praticamente tutti i paesi europei e ha generato il suo deposito funzionale e fertile, l’università capitalista.
Supportato da considerazioni di questo tipo e scartando le idee di piattezza e neutralità, ho formulato il concetto generico di Tecnoscienza come risultato cognitivo dell'azione di un attore sociale su un processo lavorativo che egli controlla e che, a seconda delle caratteristiche del Il contesto socioeconomico, l'accordo sociale e l'ambiente produttivo in cui opera, provocano una modifica nel processo o nel prodotto generato, il cui guadagno materiale può essere da lui appropriato secondo il suo interesse.
Una terza ragione per usare il termine tecnoscienza si riferisce al fatto che i due tipi di conoscenza presumibilmente separati, quando causalmente collegati, forniscono sostegno e rendono accettabile un’altra catena fallace, ben nota e spesso criticata, che legittima il capitalismo.
L’aumento della produttività operaia fornito dalla conoscenza che originava dall’azione del capitalista che controllava il processo lavorativo, e la cui appropriazione come plusvalore relativo era legittimata dallo Stato, cominciò ad essere “venduto” come “sviluppo economico” dei paesi .
Questo aumento di produttività, all’interno di paesi le cui classi proprietarie competevano ferocemente alla ricerca del plusvalore generato dal lavoratore, finì anche per essere mascherato da un aumento di competitività di cui beneficiava il paese innovativo. Assimilandosi, in modo consequenziale – tramite “overflow” – al benessere dei lavoratori (attraverso l’occupazione e il salario e l’accesso a beni e servizi “migliori e più economici”) e allo “sviluppo sociale”, ha completato l’errore su cui su cui si fonda gran parte della sovrastruttura ideologica capitalista.
Il disprezzo artificiale degli altri saperi necessari alla produzione di beni e servizi difficilmente codificabili o espropriabili e la sequenziale separazione dei saperi più facilmente elitari e controllabili in ambito scientifico e tecnologico si consolidò come elemento, allo stesso tempo centrale e preventivo , di manipolazione ideologica del capitale.
Per spiegare meglio questo argomento che legittima il capitalismo, vale la pena sottolineare che affinché esso funzioni, i lavoratori e la società devono credere nella separazione tra scienza e tecnologia. Questa è già “metà dell’opera”. L’altra metà deriva da un’altra antica credenza generata dall’Illuminismo nella sua lotta contro la “religiosità oscurantista”. Che esiste una scienza non dogmatica, intrinsecamente vera e universale perché ha rivelato, attraverso il metodo scientifico, incontaminato da valori o interessi, i segreti del pianeta per tutti i suoi abitanti. E, quindi, aveva due caratteristiche politicamente importanti per deideologizzare e giustificare il suo sostegno da parte dello Stato. Era neutrale – capace di rendere fattibile qualsiasi progetto politico – e quando la sua applicazione portava a tecnologie “cattive”, questo risultato dovrebbe essere considerato atipico; un “incidente lungo la strada” etico.
Sostenuta da questa catena argomentativa legittimante, la struttura capitalistica è rimasta indenne dalle critiche che i sostenitori del socialismo, tra l'altro, a causa di un'errata lettura di Marx, non sono arrivati a criticare la neutralità e il determinismo della tecnologia. La percezione che la responsabilità del “cattivo uso” della scienza risieda in una mancanza di etica – malata e limitata a coloro che la applicano per sviluppare la tecnologia – e mai nel modo caratteristico in cui quella struttura opera, compreso il modo in cui genera i suoi La tecnoscienza, la tecnoscienza capitalista, continua a superare i confini ideologici tra destra e sinistra.
È importante evidenziare, in questo senso, che l'evidenza empirica che la realtà è molto diversa dal modello idealizzato. Il suo tentativo di attuare ed emulare quella dinamica tecno-scientifica globale che materializza i valori e gli interessi del capitale attraverso politiche di mezzi (politica cognitiva) e politiche di fine (economico-produttiva, geostrategica, ecc.) non sta portando a quanto promesso. risultato.
Tendo a mettere in caricatura la tecnoscienza prodotta da e per le aziende come portatrice di sette peccati capitali: deterioramento pianificato, obsolescenza pianificata, prestazioni illusorie, consumismo esacerbato, degrado ambientale, malattia sistemica e sofferenza psicologica. E portando alle tendenze in economia in crescita senza posti di lavoro (quando l’economia cresce, i posti di lavoro non vengono creati) e economia in crescita e con perdita di posti di lavoro (Quando l’economia cresce, i posti di lavoro scompaiono) che sono sempre più insostenibili socialmente ed economicamente.
Sulla base di argomenti di questo tipo è possibile particolarizzare il concetto generico di tecnoscienza per il caso del capitalismo. La Tecnoscienza Capitalista è il risultato cognitivo dell'azione del capitalista su un processo di lavoro che egli controlla e che, in funzione di un contesto socioeconomico (che genera la proprietà privata dei mezzi di produzione) e di un accordo sociale (che legittima una coercizione intermediata da parte del mercato del lavoro e la sovrastruttura politico-ideologica mantenuta dallo Stato) che danno luogo, nell’ambiente produttivo, al controllo (imposto e asimmetrico) e alla cooperazione (di tipo taylorista o toyotista), consentendo una variazione del valore di scambio delle merce prodotta soggetta a sua appropriazione (sotto forma di plusvalore relativo).
Una quarta ragione per usare il termine tecnoscienza, che oltrepassa il confine tra il terreno descrittivo-esplicativo e quello normativo, si riferisce alla sua qualificazione di solidarietà, che, come ho scritto all'inizio, mi astengo dall'approfondire. Deriva dalla constatazione che la tecnoscienza del capitale non è utile alla costruzione della società che settori consapevoli e responsabili della comunità internazionale chiedono.
Per evitare quella che interpretano come una crisi sistemica del capitalismo associata all’esaurimento del capitalocene, sottolineano il fatto che, a livello strettamente individuale, della loro attività, l’impresa, anche se fosse disposta a farlo, non è in grado di di internalizzare gli effetti negativi delle esternalità che l’hanno causata. Per quanto riguarda la crisi climatica, ad esempio, l’azienda che lo farà, contrariamente alla logica atomizzata e intrinsecamente egoistica che la governa, sarà esclusa dal mercato perché incapace di trasferire sul prezzo i suoi maggiori costi di produzione.
Salvando esperienze storiche controegemoniche di organizzazione della produzione e del consumo di beni e servizi basate sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sull’autogestione, questi segmenti hanno acquisito importanza nel contesto internazionale di politica e politica quella che qui chiamiamo Economia Solidale.
Perché la tecnoscienza solidale?
È in questo contesto che la particolarizzazione di quel concetto generico acquista sempre maggiore rilevanza. Tecnoscienza solidale: risultato cognitivo dell'azione di un collettivo di produttori su un processo di lavoro che, a causa di un contesto socioeconomico (che genera la proprietà collettiva dei mezzi di produzione) e di un accordo sociale (che legittima le associazioni), che Nell'ambiente produttivo , danno luogo al controllo (autogestito) e alla cooperazione (di carattere volontario e partecipativo), provocando una modifica nel prodotto o nel processo generato, il cui guadagno materiale può essere appropriato secondo la decisione del collettivo.
Come è chiaro, essa contrasta radicalmente con concetti quali Tecnologia Sociale (“qualsiasi tecnica, metodo o prodotto derivante dall’interazione tra conoscenza popolare e scienza che soddisfi requisiti di semplicità, basso costo, facile applicabilità (e riapplicazione) e comprovato impatto sociale”. ”) che, basandosi sui miti dell’appartamento e della neutralità, suggeriscono che per rilanciare l’Economia Solidale basterebbe utilizzare la conoscenza scientifica in un altro modo. Che, unito a quello popolare, risolverà problemi “sociali” che, per qualche ragione discriminatoria, devono avere un basso costo di risoluzione.
E anche con quello dell’innovazione sociale, un ossimoro che contrappone, per sostituzione, il sociale al tecnologico, legato al significato originario di innovazione (di un’invenzione che genera profitto per l’impresa) come se soddisfare i bisogni materiali dei poveri non servisse non richiedono conoscenze tecnoscientifiche complesse e originali.
Inoltre, utilizzando una qualificazione diffusa (sociale), risultante dalla considerazione di aspetti che trascendono l’economico – forma eufemistica spesso usata per evitare il termine profitto – implicano che le imprese solidali non hanno bisogno di essere competitive rispetto ai aziende.
Quando si cerca di costruire l’egemonia includendo assetti economico-produttivi basati sulla proprietà privata e sull’eterogestione che arrivano a “adattarsi” a questi termini, si crea una situazione che rende irrealizzabili, anche in termini strettamente cognitivi, le azioni che avremmo, con gli intellettuali, dobbiamo potenziare.
Questa impresa ambiziosa, che spazia da una convergenza senza precedenti tra scienze “inumane” e “imprecise” attorno alla spiegazione e all’elaborazione delle esigenze cognitive insite nei bisogni materiali collettivi, a una nuova politica di alleanze con gli attori sociali, non avrebbe senso senza la obiettivo di concepire un nuovo modo di produrre conoscenza più adatto alla vita degli esseri umani e al pianeta che abitano.
Si tratta, da un lato, della seduzione dei nostri coetanei negli istituti di insegnamento e di ricerca, ancora rapiti da una politica cognitiva che, coperta dal manto della scienza neutrale, emula le dinamiche tecno-scientifiche capitaliste. E, dall’altro, l’esposizione dei nostri colleghi e studenti a una critica delle agende periferiche di Insegnamento, Ricerca e Ampliamento che va oltre la semplice denuncia della loro natura imitativa nei confronti dei paesi capitalisti avanzati. Una critica che, partendo dalla riconfigurazione dell’insegnamento delle tecnoscienze, sia capace di guidarli in modo più accurato ed efficace “oltre il capitale”.
Concludo presentando il modo in cui la Tecnoscienza Solidale è intesa in alcuni ambiti del movimento dell'Economia Solidale: il modo in cui la conoscenza deve essere condivisa in vista della produzione e del consumo di beni e servizi volti a soddisfare i bisogni collettivi nelle reti dell'economia solidale. .
Chiarire: modalità (originaria, aperta, mutante e adattiva)… come conoscenza (di qualsiasi natura – “inumana” o “imprecisa” scientifica, religiosa, empirica, tecnologica e di origine ancestrale – mondo accademico, imprese, popoli originari, movimenti popolari, esclusi) … devono essere gestiti (usati, prospettati, resuscitati, combinati, riprogettati attraverso l’adattamento socio-tecnico basato sulla tecnoscienza capitalista, progettati)… mirando alla produzione e al consumo di beni e servizi orientati (primariamente) alla soddisfazione dei bisogni collettivi (il realizzazione degli acquisti e riconversione industriale)… nelle reti dell’economia solidale (rispettandone i valori e gli interessi – proprietà collettiva dei mezzi di produzione e autogestione e promuovendone la densificazione, l’estensione, la sostenibilità, l’autonomia e la competitività).
Per uno spazio istituzionale di consultazione con i lavoratori della conoscenza
Le sfide che affliggono la nostra società, la cui intensità cognitiva è notoriamente in aumento, possono essere affrontate dall’attuale governo solo mobilitando il nostro potenziale tecno-scientifico.
Gli obiettivi politici del governo, in diversi ambiti (economici, sociali, ecc.) e con diverse scadenze, devono “riflettersi” nelle attività di ricerca, insegnamento e divulgazione delle istituzioni ad essi dedicate per garantirne la realizzazione.
L'adeguata specificazione di queste attività (il loro contenuto e la forma di esecuzione, il modo in cui dovrebbero relazionarsi con i settori politici target di cui sono tributarie, ecc.) e la loro suddivisione in piani, programmi, progetti, ecc. Si tratta di una condizione per la funzionalità del nostro sistema CTI.
La metodologia adottata per questa specificazione, che è al centro dell’elaborazione delle politiche STI, deve essere aggiornata in linea con le caratteristiche di tali sfide e obiettivi e con lo stile – democratico e partecipativo – del nostro governo.
La metodologia qui proposta ha come premessa l’incorporazione di questo stile per “riflettere” le sfide che affliggono la nostra società (e gli obiettivi di governo) in termini di attività degli istituti di insegnamento, ricerca e divulgazione.
Si differenzia (evidentemente senza voler escludere) da ciò che decenni fa, sulla base della consultazione dei più eminenti esponenti della comunità scientifica, e della conseguente catena di azioni di formulazione, implementazione e valutazione, guida il nostro sistema STI.
La sua premessa è che dobbiamo migliorare il processo di decodifica delle sfide che affliggono la nostra società in programmi di insegnamento, ricerca e estensione che devono essere resi possibili ed esplorati dai componenti del nostro sistema STI. Ed è per questo che è imperativo e urgente mobilitarlo per soddisfare innanzitutto la domanda tecno-scientifica insita nei bisogni di beni e servizi collettivi.
La storica capacità di mobilitare il potenziale tecnico-scientifico pubblico, cronicamente sottoutilizzato, per raggiungere, attraverso lo Stato, i rari successi che conosciamo, attesta la competenza cognitiva dei lavoratori della conoscenza delle nostre istituzioni didattiche e di ricerca e degli organi di gestione che le compongono. vitale.
Il vostro sostegno maggioritario al nostro governo e la vostra inclusione nei movimenti popolari è una condizione per rispondere efficacemente ai bisogni la cui soddisfazione è garanzia di giustizia e governabilità. La rilevanza della vostra incipiente partecipazione al rinnovamento dei nostri programmi di insegnamento, ricerca e estensione è una conferma dell’efficacia di quanto qui proposto.
La discussione di un documento che amplia, conferma e dettaglia quanto sopra nell'ambito di queste istituzioni e organi del sistema CTI è il primo movimento da attuare attraverso l'assistenza al Ministro della CTI. Definirà i prossimi passi che saranno progettati con la partecipazione delle persone interessate a rendere la preparazione (formulazione, attuazione e valutazione) del PCTI più coerente con i valori, gli interessi e le esigenze della nazione nel suo insieme.
Questo spazio istituzionale per la consultazione e la partecipazione permanente e sistematica dei lavoratori della conoscenza è una condizione per costruire il futuro che vogliamo.
* Renato Dagnino È professore presso il Dipartimento di politica scientifica e tecnologica di Unicamp. Autore, tra gli altri libri, di Tecnoscienza solidale, un manuale strategico (lotte anticapitali).
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