da EMILIO CAFASSI*
Considerazioni sul libro appena tradotto di Yanis Varoufakis
Di tanto in tanto, emergono testi che, senza preavviso, aprono crepe nelle certezze ereditate sul capitalismo, soprattutto nel corso della sua storia. Sono particolarmente interessato a quelli che esaminano analogie e differenze con le tesi fondamentali di Karl Marx. Accolgo con favore ogni revisionismo come una boccata d'aria fresca per la riflessione, anche se le sue diagnosi non sono sempre condivise.
Il libro di Yanis Varoufakis, Tecnofeudalesimo, sta guadagnando popolarità e generando continue polemiche, inscritte in questo atteggiamento intellettuale che risale, senza voler essere esaustivo, ad esempio alla teoria dell'imperialismo con Vladimir Lenin, Nikolai Bukharin, Rosa Luxemburg e Rudolf Hilferding nei primi decenni del secolo scorso.
Oppure quelli che hanno acquisito un vigoroso slancio nell'ultimo quadrimestre con la crisi del modello industriale fordista (Mandel, Aglietta, Braverman, Castells) e per gran parte di questo secolo (Negri, Holloway, Lessig, Vercellone, Fuchs, Piketty, ecc.).
Il ricorso a un modo di produzione del passato non è necessariamente una novità per l'analisi di determinati periodi storici, come nella storiografia della colonizzazione dell'America Latina e del suo carattere feudale, capitalista o addirittura schiavista negli anni Settanta (Bagú, Gunder Frank, Puigrós, Gorender).
La provocazione teorica
L'economista greco non abbandona la sua lettura di Marx: la mette in discussione, la provoca, la spinge oltre le sue certezze. La sua critica non viene dal lato opposto, ma dal cuore stesso della sua architettura teorica. Come chi vive in una vecchia casa dalle solide fondamenta ma con perdite e scheggiature, si rifiuta di demolirla, ma esige riforme urgenti. Sottolinea che se il mondo è cambiato, devono cambiare anche le categorie che usiamo per interpretarlo.
In termini molto semplici, l'ipotesi centrale del libro sostiene che non ci troviamo di fronte a un capitalismo mutante, ma a un nuovo regime feudale tecnologico. Ad esempio, con la categoria di classe sociale, poiché nel tecnofeudalesimo il potere non sarebbe organizzato solo dalla proprietà dei mezzi di produzione, ma dall'accesso privilegiato ai flussi di dati e alle infrastrutture digitali. Non sarebbe più il capitalista industriale a dominare, ma il padrone digitale che possiede una nuova territorialità mappata dalle interfacce, dal cloud e dai canali di circolazione.
La figura dello sfruttatore non scompare, ma si trasforma, si confonde e si confonde con quella del programmatore, del progettista e dell'ingegnere. Ciò implica una riconfigurazione della struttura di classe: destabilizza la centralità del lavoro salariato come nucleo della creazione di valore. Se Marx ha rivelato che il plusvalore emerge dal tempo di lavoro non retribuito, il tecnofeudalesimo – afferma Yanis Varoufakis – ha generato una forma di estrazione che non richiede salari, ore di lavoro o fabbriche.
Il plusvalore è stato sostituito dal reddito d'accesso. E il soggetto sfruttato non è più solo il lavoratore, ma l'utente, il consumatore, il profilo digitale, il che lo porta a radicalizzare la sua critica del concetto stesso di capitalismo. Non come sistema abolito, ma come astrazione teorica insufficiente. Per lui, continuare a chiamare questo ordine "capitalismo" è un atto di nostalgia miope. Le regole del capitalismo sono state sostituite da una logica rentier, chiusa, monopolistica e predatoria.
Ciò che definisce questo nuovo ordine non è l'accumulazione di capitale, ma la conquista di territori digitali da cui estrarre reddito. Yanis Varoufakis non si accontenta di descrivere semplicemente il capitalismo (di piattaforma, cognitivo, di sorveglianza, informativo, ecc.); lo considera una vecchia pelle che non ricopre più il corpo mutevole del presente. Senza negare la continuità, è in atto un salto di qualità: la scomparsa del mercato come spazio di regolamentazione e il ritorno di relazioni servili, mediate dalla tecnologia, ma simili nella loro logica di dipendenza, controllo e accesso diseguale.
Nei suoi aspetti desacralizzanti, è qualcosa di cui essere grati, tanto quanto lo sono i suoi collegamenti con le tesi precedenti. Il conflitto non è più spiegato esclusivamente dai mezzi di produzione, ma dalla connessione, dove lo sfruttamento non è solo legato al lavoro, ma esistenziale. Sottolinea che l'alienazione non deriva più dal lavoro forzato, ma dal godimento imposto. E che l'emancipazione non può essere concepita senza mettere in discussione l'architettura digitale del mondo.
La sua potenza è quella del pensiero in movimento, più che un manifesto. Il suo appello non è a recuperare nostalgicamente la classe operaia o la forza dello Stato, ma piuttosto a provare a immaginare forme di organizzazione popolare che riprendano il controllo del codice, della rete, del cloud, e che siano il prodotto di alleanze tra conoscenza tecnica e coscienza politica: gli artigiani dell'algoritmo, gli hacker del desiderio, i plebei dei dati.
Ricordiamoci che il feudalesimo era un modo di produzione in cui il potere era radicato nella terra e nella carne di coloro che la abitavano. Il suo asse non ruotava attorno a salari o contratti, ma piuttosto al vassallaggio e alla dipendenza personale. Il signore possedeva non solo la terra, ma anche il diritto consuetudinario alla vita altrui: amministrava la giustizia, infliggeva punizioni e decideva del corpo e del destino dei suoi servi.
L'economia non aveva ancora sperimentato la vertigine del mercato: era agraria, chiusa, autosufficiente, legata ai cicli naturali e al tributo che il contadino doveva pagare – in natura, in lavoro o in sottomissione – in cambio del diritto alla sussistenza. Non c'era mobilità, ma eredità; non c'era concorrenza, ma discendenza.
I rapporti di produzione erano, in sostanza, rapporti di dominio extraeconomico: il tempo altrui non veniva comprato, veniva richiesto; i corpi altrui non venivano assunti, venivano trattenuti. Si configurava così una struttura che riproduceva, di volta in volta, l'eternità della disuguaglianza come un paesaggio naturale.
Yanis Varoufakis non è un economista di laboratorio, ma un attore disposto ad affrontare in prima persona il dramma politico. Nel turbolento luglio del 2015, in qualità di Ministro delle Finanze del governo Syriza, si è impegnato in uno storico scontro con la "Troika" (BCE, FMI e Commissione Europea), affrontando il ricatto del debito con una proposta che lui stesso ha definito "disobbedienza costruttiva".
Il popolo greco ha sostenuto la propria posizione con un sonoro "no" al referendum, ma l'epopea si è presto trasformata in impotenza: Alexis Tsipras ha ceduto alle pressioni esterne, ignorando la volontà popolare. Yanis Varoufakis si è dimesso con l'amara dignità di chi si rifiuta di accettare la sconfitta. Ho poi dedicato diversi articoli a questa nuova versione della tragedia greca.
L'esperienza ha lasciato un segno indelebile: la consapevolezza che la resistenza non può limitarsi ai confini di uno Stato nazionale assediato. Così è nato DiEM25, il suo movimento paneuropeo che mira a ricostruire la democrazia dal basso, oltre i confini, confrontandosi con il potere finanziario con una nuova immaginazione politica.
Il crepuscolo del capitale e l'ascesa dei signori digitali
Alcuni muoiono come re senza sudditi, avvolti nei rancidi ornamenti di un potere che non esiste più. Agonizzano a lungo, aggrappandosi alle categorie con cui un tempo descrivevano il mondo. Per l'autore, questo sarebbe il caso del capitalismo, quel cadavere illustre che osa dichiararsi definitivamente senza vita, non con giubilo rivoluzionario o profezia messianica, ma con la cupa serenità di un medico che ha constatato l'assenza di segni vitali.
Ma ciò che segue questa morte non è una liberazione, bensì la nascita di una creatura ancora più temibile: il “tecnofeudalesimo”, un ordine in cui le vecchie catene di fabbrica sono state sostituite da legami invisibili fatti di dati, interfacce e protocolli.
Questi nuovi rapporti sociali di produzione non si basano più sul possesso dei mezzi di produzione materiali, ma sull'appropriazione delle infrastrutture digitali che mediano tutte le forme di vita. Ciò che Marx identificava come "capitalisti" – investitori, industriali, banchieri – è stato sostituito da una casta ancora più eterea e onnisciente: i signori delle nuvole, moderni signori feudali che non hanno bisogno di possedere lavoratori o produrre beni.
Possiedono semplicemente i percorsi, i portali, le piattaforme, i linguaggi di programmazione che traducono il mondo per noi. È il ritorno della signoria, ma pixelata, globale, onnipresente. Non fanno affari: impongono condizioni. Non commerciano: tassano ogni transito con una tariffa di accesso.
Il capitalismo classico trovava il suo dinamismo nella tensione tra capitale e lavoro, nella lotta per l'appropriazione del plusvalore. Qui, tuttavia, non c'è lotta o negoziazione: c'è cattura. Il lavoratore salariato non è più l'unica figura dello sfruttamento. Ora siamo anche utenti, profili, tracce digitali. Ogni gesto quotidiano, una ricerca, un "mi piace", un percorso tracciato dal GPS, alimenta un sistema che monetizza le nostre decisioni prima ancora che le prendiamo. La fabbrica è stata sostituita dall'interfaccia; lo stipendio dal consenso implicito; lo sforzo dall'attenzione desiderabile.
In questo scenario, il mercato, quello spazio idealizzato in cui domanda e offerta si intersecano, è stato di fatto abolito. Non c'è concorrenza all'interno dell'ambiente closed-source. Le grandi piattaforme non competono per l'efficienza, ma colonizzano territori digitali che gestiscono come tenute feudali. Google, Amazon, Meta e Apple non sono più aziende: sono signori del computer. Proteggono i propri ecosistemi, con regole proprietarie, valute proprie e tribunali interni. La giustificazione dell'apertura è stata soppiantata da quella della chiusura pianificata.
La logica del tecnofeudalesimo è quella dell'asimmetria assoluta: pochi progettano il mondo in cui tutti vivono. Yanis Varoufakis insiste: ci troviamo di fronte a qualcosa che non prolunga il capitalismo, ma piuttosto lo nega: una negazione storica, non un aggiornamento. Quel regime in cui il valore era generato dal lavoro umano e circolava in mercati relativamente liberi è stato soppiantato da un altro in cui il valore viene estratto attraverso il monopolio dell'accesso e del controllo dei flussi informativi.
Il capitalismo della sorveglianza non è solo un'altra fase: è qualcosa di diverso. Chi insiste a descrivere il capitalismo – di piattaforma, cognitivo, informativo – pratica un negazionismo nostalgico, per Yanis Varoufakis.
Questo nuovo ordine non si limita a ridefinire l'economia: riconfigura la soggettività. Se il vecchio proletario sapeva di essere sfruttato dal suo datore di lavoro, l'utente tecnofeudale si crede libero mentre cammina felicemente attraverso le segrete della propria prigionia.
Si arrende volontariamente al suo vassallaggio. Si produce come merce. Si compiace della sua servitù. L'alienazione non nasce più dal lavoro forzato, ma dal piacere codificato. La giornata lavorativa non finisce con l'orologio: continua a letto, nel tempo libero, nei sogni controllati. Internet divora non solo il tempo di lavoro, ma tutta la nostra vita.
In risposta, Yanis Varoufakis non si rifugia nella nostalgia dell'industrialismo né propone una ricostituzione della nazionalizzazione classica. Al contrario, la sua proposta punta a una riappropriazione democratica del codice, una sorta di comunitarismo digitale in cui l'infrastruttura tecnologica è governata collettivamente.
Non si tratta tanto di vietare le piattaforme quanto di decolonizzarle; non si tratta tanto di impedire l'innovazione quanto di contestarne gli scopi. Il suo soggetto politico non è il lavoratore fordista, ma l'hacker etico, l'artigiano algoritmico, la comunità informata capace di abbattere le barriere del feudo e ricostruire un "bene comune" digitale.
C'è una vena libertaria nel suo pensiero – se possiamo continuare a usare questo aggettivo dopo l'appropriazione lumpenpolitica di Javier Milei in Argentina – che si interseca con la tradizione marxista senza arrendersi ad essa. Rispetta Marx, ma non lo canonizza. Attinge al suo impulso critico, ma lo costringe a rispondere a nuove domande. Se il capitale non regna più, se il lavoro salariato non è più il centro dell'economia, se il mercato ha cessato di esistere, come possiamo continuare a pensare con gli stessi strumenti del XIX secolo?
Yanis Varoufakis non vuole uccidere il marxismo, ma spogliarlo della sua solennità per costringerlo a trasformarsi. Forse il suo gesto più radicale è questo: anziché inventare una nuova dottrina, esorta il pensiero critico a muoversi di nuovo, a recuperare la sua potenza sovversiva.
Il tecnofeudalesimo si presenta quindi non solo come un concetto analitico, ma come una sfida etica. Ci costringe a interrogarci su chi progetta il mondo in cui viviamo, su quali logiche di potere si organizza il desiderio e se ci sia ancora spazio per l'insubordinazione. Lo sfruttamento non è più imposto dalla violenza visibile, ma dall'architettura stessa dell'ambiente digitale.
L'emancipazione non verrà dalla conquista del Palazzo d'Inverno, ma dall'occupazione simbolica del cyberspazio, da un'immaginazione politica che reinventa il significato di condividere, lavorare, decidere e divertirsi insieme.
Yanis Varoufakis, nel diagnosticare questo nuovo ordine, non ne decreta l'inevitabilità. La sua scrittura è anche una forma di resistenza. Non come uno slogan, ma come un pensiero in movimento. Di fronte alla servitù algoritmica, propone un'insurrezione epistemica. Di fronte al confinamento digitale, una poetica dei beni comuni.
Di fronte al regno dei nuovi padroni, il persistente promemoria che anche gli imperi più invisibili crollano quando incontrano parole che li denunciano, costruzioni teoriche che li smascherano e corpi che rifiutano di inchinarsi.
Echi di critica – interpellanze del tecnofeudalesimo
Ogni tesi ambiziosa evoca, come un fulmine a ciel sereno, una tempesta di obiezioni. Quella di Yanis Varoufakis non fa eccezione. Il suo impegno nel designare l'ordine attuale come tecnofeudalesimo ha suscitato non solo un rinnovato interesse per la diagnosi dell'epoca, ma anche una pluralità di resistenze teoriche, provenienti da diverse geografie dottrinali, che vanno dal marxismo ortodosso alla tecnocrazia liberale, passando per la critica decoloniale, l'autonomismo e l'economia politica classica. Non si tratta solo di una questione di tassonomia: nominare il presente implica interpretarlo, e in questa interpretazione risiede il campo delle future strategie politiche.
Da prospettive marxiste meno dirompenti, le critiche si fondono attorno a un'accusa centrale: quella di destoricizzare il capitalismo e oscurarne le dinamiche interne. L'accumulazione di capitale non continua forse a esistere? Il lavoro vivo non continua forse a essere sfruttato, seppur in forme più sofisticate, dal capitale fisso? I rapporti di classe non si manifestano forse con brutale evidenza negli scioperi di Amazon, nell'uberizzazione del lavoro e nella precarietà globalizzata? (Harvey e Wood).
Da questa prospettiva, il tecnofeudalesimo non sarebbe altro che una nuova maschera per lo stesso dio, una farsa concettuale che rischia di dissolvere la categoria di classe, indebolendo l'antagonismo fondante del sistema. La critica, quindi, non nega la novità delle forme digitali, ma contesta la loro capacità di stabilire un modo di produzione radicalmente diverso. Le piattaforme non sarebbero signori feudali, ma rinnovati strati di capitale, avvolti in nebbie algoritmiche.
Una seconda linea di critica proviene dal campo dell'economia politica descrittiva (Brenner e Streeck), che contesta la mancanza di una precisa delimitazione empirica del concetto. Cosa lo differenzia strutturalmente dal capitalismo della sorveglianza o delle piattaforme? Quali rapporti di produzione, quali forme giuridiche, quali regimi di accumulazione lo definiscono?
Sembra che Yanis Varoufakis usi la metafora feudale più in senso estetico che analitico, oscurando più di quanto riveli. Per questi critici, parlare di tecnofeudalesimo può essere fuorviante: non ci sono servi legati alla terra, non c'è decima, non c'è vassallaggio legale. La logica rimane quella del mercato, seppur distorta, e gli Stati continuano a svolgere ruoli fondamentali nella riproduzione del sistema. In breve, si tratterebbe di un'iperbole stilistica, potente nello smuovere le coscienze, ma debole come categoria teorica della storiografia.
Dal pensiero decoloniale e dalla teoria della dipendenza, la critica si sposta sull'asse geopolitico. Il tecnofeudalesimo è un fenomeno globale o è limitato ai centri del capitalismo digitale? Che posto occupano i paesi periferici, quelli in cui lo sfruttamento non è algoritmico ma direttamente fisico, violento ed estrattivo?
Qui, la tesi di Yanis Varoufakis appare eurocentrica (Marini e Quijano). Ignora – o sottovaluta – che in vaste regioni del mondo il capitale continua a operare allo stesso modo: espropriazione, saccheggio delle risorse, supersfruttamento del lavoro, sottomissione delle comunità indigene. Non ci sono signori digitali nei giacimenti di litio della Bolivia o nelle miniere di coltan del Congo. Né tra le rovine di Gaza, ma solo terra bruciata e colonizzazione.
Lì, il feudo non è un algoritmo, ma una ruspa sorvegliata da paramilitari o da un esercito occupante. Per questi critici, il tecnofeudalesimo è una sorta di narrazione del Nord, incapace di catturare le forme combinate e disomogenee del capitale nel suo dispiegamento globale.
Non mancano obiezioni anche all'interno del marxismo, come quella dell'autonomismo italiano, che pur riconoscendo la mutazione tecnologica del capitale non condivide l'idea di una rottura del modo di produzione (Negri-Hardt e Lazzarato). Per loro, le trasformazioni digitali non instaurano un nuovo regime feudale, ma piuttosto intensificano il carattere biopolitico del capitalismo: la produzione non si limita più alle merci, ma si estende alla soggettività, al desiderio, al linguaggio e al corpo.
Invece del feudalesimo, ciò che vedremmo è un'espansione illimitata del capitale in tutte le sfere della vita. La vera sussunzione non è più solo del lavoro, ma dell'esistenza. Yanis Varoufakis sarebbe allora eccessivamente tassonomico, intrappolato nella logica delle categorie storiche, quando ciò che serve è una critica della produttività ontologica del capitale.
Anche all'interno del liberalismo progressista, c'è chi solleva obiezioni. Non tanto perché non condivida la diagnosi di potere concentrato, quanto per il modo in cui Yanis Varoufakis sembra minare ogni possibilità di innovazione democratica nel settore tecnologico. Le piattaforme, sostengono, non sono, per definizione, antidemocratiche: la loro governance può essere messa in discussione, regolamentata e trasformata (Mazzucato e Morozov).
Il feudalesimo, d'altra parte, si riferisce a una struttura chiusa, immutabile ed essenzialmente regressiva. Parlare di tecnofeudalesimo significherebbe rassegnarsi a uno scenario senza via d'uscita. Dove sono, allora, le politiche pubbliche, la legislazione antitrust o la sovranità digitale? Per questi critici, Yanis Varoufakis esagera la distopia e restringe il raggio d'azione nel presente. La sua apocalisse concettuale potrebbe portare a una paralisi strategica.
Ma forse la critica più suggestiva proviene da un ambito meno disciplinato: quello della poesia politica contemporanea, dove il linguaggio si misura non solo per la sua precisione, ma anche per la sua capacità di mobilitare, per il suo carattere performativo. Da qui, alcuni suggeriscono che il tecnofeudalesimo sia un'immagine potente, ma che potrebbe servire più come artefatto provocatorio che come quadro analitico (Jameson, Byung-Chul Han).
Non è richiesto che spieghi con precisione o rigore tipologico, ma piuttosto che inciti, agiti e metta in discussione il buon senso. In questa lettura, la proposta di Yanis Varoufakis si inserisce nella lunga tradizione eretica del pensiero critico, che preferisce esagerare piuttosto che acconsentire, gridare piuttosto che sussurrare. Potrebbe quindi essere letta come un gesto più letterario che dottrinale, più situazionista che scientifico. E in questo gesto risiede forse il suo valore più grande.
In definitiva, le critiche al tecnofeudalesimo non dovrebbero essere lette come confutazioni definitive, ma come dialoghi di frontiera, tensioni produttive che spingono il pensiero oltre le sue zone di comfort. Yanis Varoufakis non ha bisogno di avere ragione in ogni dettaglio perché la sua proposta abbia forza.
Basta che ci turbi, che ci costringa a rivedere le nostre mappe, che ci privi della comoda certezza di continuare a chiamare "capitalismo" tutto ciò che opprime. In tempi di addomesticamento semantico, inventare nuove parole è un atto di ribellione.
E sebbene il tecnofeudalesimo non sia il nome definitivo per il nostro presente, indica certamente una crepa, una fessura attraverso la quale si infiltra un'altra possibile lettura del mondo implacabile e infernale in cui viviamo. Forse la questione non è se viviamo in un tecnofeudalesimo, ma piuttosto se ci sia ancora spazio per ribellarci e ridisegnare il futuro.
*Emilio Cafassi è professore senior di sociologia presso l'Università di Buenos Aires.
Traduzione: Artù Scavone.
Riferimento

Yanis Varoufakis, Tecnofeudalesimo: cosa ha ucciso il capitalismo. Campinas, Editora Crítica, 2025, 240 pagine. [https://amzn.to/3I3KOAG]
la terra è rotonda c'è grazie ai nostri lettori e sostenitori.
Aiutaci a portare avanti questa idea.
CONTRIBUIRE