da ANA SELVA ALBINATI*
Quando la pace è guerra e il crimine non ha punizione
1.
L’altro giorno ho letto su una maglietta: “Gaza – l'anima della mia anima”. Pensavo che fosse bellissimo, ma non riuscivo a capire esattamente cosa significasse. Ho letto le notizie sul genocidio di Gaza, ho cercato di capire l'origine di questo dramma attraverso autori che risalgono all'occupazione israeliana della Palestina, all'usurpazione delle terre, all'espulsione dei palestinesi, alla catastrofe del 1948 , il cosiddetto nakba, culminato con la creazione dello Stato di Israele, con l'espulsione di oltre 750 palestinesi e la distruzione di circa 500 villaggi.
Ho anche seguito la rottura di tutti gli accordi da parte di Israele riguardo ad una possibile occupazione di quello spazio da parte di due nazioni e ho constatato l’inefficacia e l’impotenza di organismi internazionali come l’ONU, l’indifferenza o l’adesione velata o aperta ai crimini commessi dallo Stato di Israele da parte di molti Paesi, così come le manifestazioni di sostegno al popolo palestinese che si verificano in tante parti del mondo, ma che vengono generalmente nascoste dai media e penalizzate dalle istituzioni.
Ma niente mi ha dato il significato più profondo della proposta.Gaza: l'anima della mia anima" che leggere il libro Sumud in tempi di genocidio, dello psichiatra palestinese Samah Jabr[I].
Niente ha avuto questo colpo nell'anima più forte del racconto dei drammi personali, del dolore, dei traumi somatizzati, della vergogna dell'impotenza, del senso di colpa per sopravvivere quando muoiono parenti e amici, delle sofferenze indicibili di individui che, nell'estremo limite alla loro disumanizzazione, quotidiana, quotidiana, routine, cercano di resistere. Sommud significa resistenza. Resistenza quando non c’è pace, quando ogni giorno è una guerra, anche se non viene riportata come tale dai media occidentali, e quando in ogni momento si perpetra il crimine contro tutti, bambini, adolescenti, donne, uomini, madri, padri, i nonni, chiunque si trovino minacciati 24 ore su XNUMX, e senza più alcuna speranza che questi crimini vengano puniti.
Sommud Non significa solo la capacità di sopravvivere o la capacità di reinsediarsi per affrontare lo stress e le avversità. Sommud è la realizzazione di queste cose, oltre alla volontà di mantenere un’incrollabile sfida alla sottomissione e all’occupazione. Sumud non è una caratteristica innata o la conseguenza di un singolo evento della vita, ma un sistema di abilità e abitudini che si apprendono e possono essere sviluppate. Sumud crea le basi di uno stile di vita di resistenza, aggrappandosi alla terra come un ulivo profondamente radicato, preservando la propria identità, cercando autonomia e libertà di azione e preservando la narrativa e la cultura palestinese di fronte alla distruzione. (JABR, 2024, p.114-15).
È la risposta dignitosa all’estremo della disumanizzazione, alla fine della civiltà di qualsiasi tipo, alla fine degli accordi aziendali, all’avanzata dell’arroganza di chi può sulle anime di chi sostiene. “Sommud Significa mantenere l’ottimismo e la solidarietà morale e sociale mentre si affrontano realtà oscure e strutture oppressive”. (idem, p.115)
Se nella storia abbiamo avuto momenti simili a questo, abbiamo tuttavia le nostre caratteristiche nel genocidio dei palestinesi da parte del progetto sionista di occupare l'intero territorio palestinese.
Il sionismo sfrutta la sofferenza storica del popolo ebraico, soprattutto quella derivante dall’orrore nazista, per rivendicare ciò che a prima vista sembra giusto: uno Stato ebraico. A tal fine, riveste questo progetto politico con una veste religiosa, per cercare di giustificare la scelta della Palestina come territorio di legittima occupazione.
2.
Il termine sionismo risale al 1890, creato da Nathan Birnbaum sulla scia delle idee del sionismo moderno sostenute da Moses Hess.
Moses Hess, inizialmente un autore vicino al marxismo, in seguito ribaltò la prospettiva materialista di Marx, sviluppata nel Sulla questione ebraica. In questo testo del 1843, Marx cerca di spiegare la condizione ebraica non in termini religiosi, ma in termini profani, storico-sociali, o con le sue parole, cerca di occuparsi non dell’“ebreo sabbatico”, ma dell’”ebreo quotidiano”. . (MARX, 2013, p.56) Rispondendo a un articolo di Bruno Bauer sulle condizioni per l’emancipazione degli ebrei, Marx dirà che “Bauer comprende solo l’essenza religiosa dell’ebraismo, ma non riesce a comprendere il fondamento reale e secolare dell’ebraismo. questa entità religiosa”. (MARX, 2011, p.128). La proposta marxiana è dunque quella di comprendere la coscienza religiosa nel suo rapporto con la vita materiale, con la storia, con la forma di socialità che la rende possibile, e non in modo autonomo.
Moses Hess, che conosceva bene questo testo e si identificava con questa proposizione, si allontanò a tal punto da Marx che nel 1862, in Roma e Gerusalemme, lInvece di analizzare l’“ebreo quotidiano”, cioè le determinazioni sociali che sono nella costituzione del popolo ebraico, parlerà degli ebrei come razza storica, esaltando un’essenza ebraica, da cui sarà costituito il progetto sionista.
Come osserva Daniel Bensaid: “Due orientamenti sono radicalmente opposti. Nel 1843 Marx sosteneva l’emancipazione politica degli ebrei nella prospettiva dell’“emancipazione umana”, contro il ripristino di una “nazionalità chimerica”. Nel 1862 Hess sosteneva la “conquista del suolo nazionale” contro la “chimerica emancipazione”. I suoi discendenti ideologici – da Leo Pinsker a Theodor Herzl e Max Nordau – si dedicheranno a esportare la crisi europea in Palestina, nel quadro dell'espansione imperialista verso l'Occidente”. (BENSAID, 2013, pag. 104)
Il sionismo è costituito da questa prospettiva di Moses Hess. È Theodor Herzl che sviluppa il sionismo politico sostenendo che l’unico modo per liberarsi dell’antisemitismo europeo sarebbe la creazione di uno Stato ebraico in Palestina, in Palestina. Lo Stato ebraico del 1896. Questa tesi non era condivisa all'unanimità dagli ebrei in Europa, che difendevano l'assimilazione nelle società in cui si erano già integrati. La scelta della Palestina non è stata nemmeno vista come una destinazione inequivocabile, è stata solo una delle possibilità discusse. Oltre alla Patagonia argentina, sono state considerate possibilità anche paesi come l'Uganda o il Congo. La scelta per la Palestina venne definita al primo congresso sionista del 1897, a Basilea, sotto il comando di Herzl, già postulata come un legittimo ritorno della nazione ebraica.
Altman osserva che “anche se il sionismo inizialmente era laico, la religione diede al sionismo due elementi discorsivi molto importanti, due idee chiave. La prima era quella del 'popolo eletto', la seconda quella della 'terra promessa'”. (ALTMAN, 2023, p.48). Idee che convergevano sulla nozione di diritto naturale alla Palestina.
Il punto è che a quel tempo la Palestina era occupata da circa mezzo milione di abitanti, tra cui musulmani, cristiani ed ebrei, oltre a soldati e funzionari ottomani ed europei. In Dieci miti su Israele, Ilan Pappé chiarisce la demografia del territorio palestinese e sfata il mito degli ebrei come popolo senza terra, poiché gran parte degli ebrei erano già assimilati a paesi diversi. Al punto che fu necessario convincere gli ebrei sefarditi a venire dall’Africa e dall’Asia per rafforzare inizialmente l’immigrazione ebraica in Palestina.
Nonostante ciò, la propaganda sionista diffuse l’idea di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, uno slogan creato da Israel Zangwill. Questo slogan, oltre ad essere mistificatorio, rifletteva la visione razzista che considerava i palestinesi un “non popolo”. (MERUANE, 2023, p. 32) Golda Meier arriva addirittura a dire che “'non esisteva' il popolo palestinese”. (idem, p.126)
Gli ebrei si identificano con i progetti colonialisti dell'Occidente volti a mantenere i palestinesi come non-popolo. Per fare ciò, utilizzano metodi ed espressioni da loro stessi sperimentati durante la persecuzione nazista nel descrivere i palestinesi come selvaggi, arretrati e meno umani. I libri di testo vengono utilizzati per diffondere tali idee nella formazione dei bambini israeliani.
Non è un caso che le narrazioni legittimanti della colonizzazione della Palestina conferiscano all’ebreo lo stereotipo del lavoratore, del guerriero, del virile, il che inverte la prospettiva discriminatoria europea, soprattutto quella nazista, che li considerava un gruppo inferiore. E lo mostra, in modo speculare, come il tipo ariano che lo ha massacrato.
La capitalizzazione delle innegabili sofferenze degli ebrei sotto il dominio nazista agisce nell'agitazione e, di conseguenza, nell'accettazione da parte dell'opinione pubblica della creazione dello Stato di Israele. In combinazione con la copertura mediatica islamofobica, lo Stato di Israele apparirebbe quindi come un “avamposto dell’Occidente, della civiltà contro la barbarie”. (MISLEH, 2022, p.32.)
Come se ciò non bastasse, di fronte alla resistenza araba, si propaga l’idea che i sionisti pratichino l’autodifesa come se fossero le vittime, un’autodifesa basata sulla paura che provano di fronte all’odio che i palestinesi e i Gli arabi in generale si riservano per loro. Come analizza Samah Jabr, “la paura degli israeliani non è semplicemente un’eredità traumatica innocente, è uno strumento politico sospetto, una manipolazione perversa che giustifica il trattamento crudele riservato ai palestinesi”. (2024, p.40) Tale paura è assolutamente sproporzionata rispetto al danno reale che i palestinesi causano loro, ma serve come elemento di empatia trasmesso dai media occidentali, mentre l’immagine dell’odio palestinese serve come giustificazione per l’islamofobia.
Discorso disseminato attraverso le immagini idilliache di kibbutz, pubblicizzando la capacità lavorativa del popolo ebraico, trasformando il deserto in terra coltivabile, nascondendo il fatto che si trattava di un'occupazione violenta del territorio palestinese, effettuata in modo studiato e premeditato per garantire la terra migliore e “ripulire” le tracce di la presenza palestinese per la distruzione di case e piantagioni, compresi gli ulivi secolari che testimoniavano la loro storica appartenenza.
Alla fine del XIX secolo si verificò un movimento di ebrei verso la Palestina, attraverso l'acquisto di terreni finanziato dall'organizzazione sionista mondiale, fondata dopo il congresso di Basilea. E sebbene a quel tempo ci fosse una divisione tra sionisti di sinistra e di destra, Altman osserva che “questa presunta sinistra sionista […] abbracciava la stessa tesi fondamentale, quella di uno stato sotto la supremazia ebraica”, e che “questo era il gruppo che ha comandato le prime fasi della pulizia etnica contro i palestinesi”. (2023, pag.50)
Dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale, la Palestina passò sotto il controllo della Gran Bretagna, la quale, pur promettendo la creazione di uno Stato palestinese, finì per favorire gli interessi degli occupanti ebrei. Negli anni ’1920 i palestinesi rappresentavano tra l’80 e il 90% della popolazione. Il favoritismo britannico nei confronti dei sionisti portò alla rivolta palestinese, manifestata nella rivolta del 1929 e in quella del 1936-1939.
Se la reazione della Gran Bretagna alla prima rivolta fu inizialmente quella di “abbracciare le richieste palestinesi” (PAPPÉ, 2016, p.34), la lobby sionista riorientò il governo verso i suoi interessi aumentando l’immigrazione ebraica e i suoi effetti dannosi sulla difficile situazione dei lavoratori e dei lavoratori palestinesi. contadini. Ciò portò alla rivolta del 1936.
Secondo Kanafani (2022), la perdita di posti di lavoro dovuta alla politica del lavoro esclusivo per gli ebrei e per le terre dei contadini palestinesi portò ad un disastro economico per questa popolazione, che insieme alle umiliazioni subite, fu l’innesco della rivolta che si estese da 1936-1939. Secondo l'autore questo fu il momento più vicino alla liberazione della Palestina, che però venne massacrata dalle autorità inglesi, con una stima di quasi 20.000 vittime, tra cui morti e feriti tra i palestinesi e i loro alleati arabi, assassinii di leader, esplosioni e demolizioni di case.
Alla fine si aggiunsero gli aiuti dei partner europei che iniziarono a garantire armi e risorse finanziarie ai sionisti. A quel tempo i sionisti costruirono le strade per collegare gli insediamenti ebraici. A ciò è seguita la mappatura della regione palestinese, con il chiaro intento di controllare il territorio.
Come analizza Pappé, “l’assenza della maggioranza dei leader palestinesi e di unità militari palestinesi vitali rese la vita molto più facile alle forze ebraiche nel 1947, nelle incursioni all’interno della Palestina” (2016, p.34).
E in questa condizione facilitata dagli inglesi, questi saranno visti come un ostacolo al progetto sionista, soprattutto quando si tenterà il controllo britannico sull’immigrazione ebraica dopo la seconda guerra mondiale: “Il tema principale dell’agenda sionista nel 1946 e 1947, la lotta contro gli inglesi, fu risolto con la decisione britannica del febbraio 1947 di lasciare la Palestina e trasferire la questione palestinese all’ONU”. (PAPPÉ, 2016, p.47)
3.
Nel 1947 l’ONU raccomandò la spartizione della Palestina in due stati (Risoluzione 181), senza alcuna considerazione per la composizione etnica della popolazione. Agli ebrei viene assegnato il 53% del territorio, sebbene all'epoca questo gruppo costituisse solo un terzo della popolazione.
La risoluzione sulla spartizione fu approvata il 29 novembre 1947 e la pulizia etnica della Palestina iniziò all'inizio di dicembre 1947, con una serie di attacchi ebraici contro villaggi e quartieri palestinesi, come rappresaglia per gli atti vandalici di autobus e negozi durante la protesta dei palestinesi contro la risoluzione ONU, anche nei primi giorni dopo la sua approvazione. (PAPPÉ, 2016, p.60)
Il progetto di pulizia etnica era già stato elaborato, secondo Pappé, sulla base di piani che inizialmente avevano lo scopo di scoraggiare gli attacchi palestinesi contro gli insediamenti ebraici. Il culmine di questi piani fu il piano Dalet, che decise di espellere sistematicamente e completamente i palestinesi dalla loro patria, sia perché opponevano qualche tipo di resistenza, sia perché i villaggi erano situati in punti strategici.
Nel 1948, più di 750 palestinesi furono espulsi, la popolazione fu assassinata indiscriminatamente, più di 500 villaggi furono distrutti, case e campi furono bruciati, una catastrofe che si dice fosse nakba in arabo. Poco dopo il ritiro degli inglesi, il 14 maggio 1948, l’agenzia ebraica dichiarò la fondazione dello Stato ebraico in Palestina, immediatamente riconosciuto dagli Stati Uniti e dall’URSS, seguiti da altri paesi.
Segue un processo di “reinvenzione della Palestina” da parte dell’occupazione ebraica, “un tentativo sistematico accademico, politico e militare di de-arabizzare il territorio – i suoi nomi e la sua geografia, ma, soprattutto, la sua storia” (PAPPÉ, 2016 , p.260-61). In questo senso, dimenticando il nakba, seppellendolo sotto una nuova architettura di parchi e cipressi, è stato e continua ad essere un punto importante per la strategia sionista, anche per le discussioni verso un “processo di pace” nei termini che gli interessano.
Ma come dice Jabr dopo aver ascoltato i suoi pazienti psichiatrici: “La Nakba è un rinnovato insulto contemporaneo ad ogni palestinese umiliato, imprigionato o ucciso; si aggiunge sale alla ferita della Nakba, con ogni casa demolita e ogni pezzo di terra confiscato”. (2024, p.49)
Si verificano altre guerre arabo-israeliane, sempre con un risultato espansionista da parte di Israele. I conflitti nella regione continuano e non esiste una soluzione diplomatica internazionale. Ciò incita alla resistenza armata da parte dei palestinesi.
La prima Intifada del 1987 diede origine al gruppo di resistenza islamica Hamas. Nata inizialmente come organizzazione di assistenza sociale, ha cominciato a ricorrere alla lotta armata e agli attentati suicidi quando l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha aderito agli accordi di Oslo nel 1993. Questi accordi hanno portato al riconoscimento dello Stato di Israele da parte dei palestinesi e al riconoscimento dell'OLP come organizzazione di assistenza sociale. il rappresentante del popolo palestinese. Ha inoltre stabilito il ritiro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e il trasferimento del controllo di parte (circa il 40%) di questa regione alla neonata Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Oltre a privilegiare gli interessi israeliani, tali accordi non toccano la questione del ritorno dei profughi o del loro riconoscimento nakba. A ciò si aggiunge il fatto che Israele non ha rispettato la decisione di ritirarsi dagli insediamenti e, al contrario, ha continuato il suo progetto di occupazione nella regione. Di fronte alla fragilità degli accordi per una soluzione di pace nella regione e al riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’OLP, inclusa la sua fazione più numerosa, Fatah, e dell’ANP, Hamas radicalizza la sua azione e contesta a Fatah la leadership della regione. il popolo palestinese, stabilendo il controllo elettorale sulla Striscia di Gaza dal 2006 in poi.
La situazione di oppressione quotidiana dei palestinesi sotto l’occupazione sionista, così come l’incapacità e l’inefficacia di una soluzione diplomatica alla questione, significa che parte della popolazione palestinese riconosce Hamas come una forza legittima, non importa quanto l’Occidente ne strombazzi il carattere. "terrorista". A questo proposito Jabr scrive: “Ad oggi i palestinesi non hanno uno Stato né forze armate. I nostri occupanti ci sottopongono a coprifuoco, sfratti, demolizioni di case, torture legalizzate e una serie di violazioni dei diritti umani. […] I media americani chiamano “terrorismo” la nostra ricerca della libertà, ponendo i palestinesi nel ruolo di prototipo del terrorista internazionale. Ciò ha plasmato la coscienza pubblica occidentale e ha dato luogo a un pregiudizio internazionale che spesso descrive i casi di violenza contro i civili palestinesi con un linguaggio indifferente, riducendo le perdite palestinesi a semplici statistiche senza volto, mentre utilizza un linguaggio emotivo e immagini per descrivere le perdite israeliane”. (2024, p.106)
L'autore ci interroga: "Perché la parola 'terrorismo' viene così facilmente applicata a individui o gruppi che usano bombe artigianali, ma non a stati che usano armi nucleari e altre armi proibite a livello internazionale per assicurarsi la sottomissione all'oppressore?" Per concludere molto correttamente che “'terrorismo' è un termine politico usato dal colonizzatore per screditare chi resiste”. (JABR, 2024, p.106-07)
È davvero incredibile che l’etichetta di terrorismo venga attribuita solo a coloro che resistono a situazioni di oppressione, nonostante la sproporzione tra le armi israelo-americane e quelle palestinesi, la sproporzione tra le perdite umane tra le due parti e l’aggravante che il 70% delle morti palestinesi sono donne e bambini, la sproporzione tra il tempo dell’oppressione e quello della rivolta, la violazione di ogni gli accordi tentati dalle organizzazioni internazionali da parte di Israele, la distruzione di scuole e ospedali, il divieto di ingresso di cibo e materiale sanitario, l'assassinio di medici, infermieri e tecnici, l'assassinio di giornalisti, che si aggiungono alle raffinatezze della crudeltà , torture fisiche e psicologiche, smantellamento emotivo e derisione veicolati sui social media dai sionisti.
Considerata questa situazione, vale la pena chiedersi quale sarà la direzione di questo genocidio, poiché la risoluzione da parte dei due Stati sembra essere sempre più distante. Lo Stato d'Israele non rispetta sistematicamente gli accordi firmati, anche se questi accordi gli sono notevolmente favorevoli, ma non sembrano sufficienti per il suo progetto espansionista.
Il riconoscimento da parte dell'ONU dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità perpetrati da Israele, nonché la condanna al carcere di Netanyahu non sembrano avere un effetto significativo sul corso di questo genocidio, nonostante la crescente consapevolezza e manifestazione della popolazione in tutto il mondo. L'obiettivo chiaramente assunto dallo Stato d'Israele è quello di realizzare lo sterminio del popolo palestinese e non sembra esserci alcuna forza internazionale in grado di fermarlo. Il che ci porta a pensare a quali forze lo sostengono al di là dell’ideologia trasmessa sul conflitto culturale e religioso tra arabi ed ebrei; e al di là della presunta riparazione storica dell’Olocausto.
4.
Torniamo a Questione ebraica nel tentativo di far luce su questo fenomeno, questo testo fu oggetto di grandi polemiche, tanto che Marx fu addirittura accusato di antisemitismo. Tuttavia, recuperando il contesto in cui è stato scritto, è la risposta di Marx alla posizione del filosofo Bruno Bauer. Sosteneva che se gli ebrei avessero voluto partecipare come cittadini allo Stato prussiano, avrebbero dovuto rinunciare alla loro religione, così come lo Stato avrebbe dovuto diventare laico. La questione della laicità dello Stato fu un elemento fondamentale per comprendere l'arretratezza economica, sociale e politica della Germania nel XIX secolo.
Sebbene Marx fosse anche un difensore dello Stato laico, egli si oppone alla tesi di Bauer, sottolineando che una delle caratteristiche dello Stato laico è proprio il disaccoppiamento tra Stato e religione. Pertanto, la creazione dello Stato laico, come si vede nello Stato moderno, si traduce nella relegazione della religione alla sfera delle libertà private. Ciò solleva la questione del perché la discriminazione contro gli ebrei persista anche nei paesi che hanno già raggiunto l’emancipazione politica.
L'analisi di Marx cerca di indicare i limiti dell'emancipazione politica anche se evidentemente tale emancipazione significa un progresso rispetto allo stato religioso a causa del suo carattere particolaristico. Lo Stato moderno e laico esprimerebbe, al contrario, l’universalità della libertà umana nei suoi diritti e doveri. Questa è la ragione del grande elogio di Hegel allo Stato moderno. Tuttavia, già in questo testo sulla questione ebraica, Marx sviluppa le caratteristiche e i limiti dell’emancipazione politica, avviando la critica del pensiero hegeliano. In sintesi, Marx riconosce il moderno Stato universalista e il suo apparato giuridico e ideologico espresso nelle dichiarazioni dei diritti umani e dei cittadini come il risultato di un’esigenza posta dalla società civile, istanza segnata da frammentazione e disuguaglianza.
Analizzando i concetti giuridici presenti nella formulazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, Marx chiarisce chi sono quest'uomo e questo cittadino: il cittadino che astrattamente condivide formalmente i diritti universali, e il privato che nella sua vita individuale non si riconosce come cittadino affinché abbia, tra gli altri elementi sintomatici della sua irrealizzazione, la necessità religiosa e la libertà di scelta del credo.
Dal riconoscimento dei limiti dell'emancipazione politica, Marx sviluppa la nozione di emancipazione umana in cui i diritti conquistati nella modernità sarebbero effettivamente parte della vita degli individui, rompendo la scissione tra cittadino-individuo privato, Stato-società civile, una proposizione che culmina nella critica alla politica e allo Stato come elementi da superare in una società rivoluzionata e ristrutturata nella sua istanza determinante, la sfera della produzione e riproduzione della vita sociale.
Ancora con linguaggio impreciso – Marx aveva allora 25 anni e non aveva quindi ancora sviluppato i suoi studi economici e i suoi concetti fondamentali per la critica dell’economia politica – l’autore identifica il principio della società borghese con la necessità pratica, l’egoismo, il cui Dio sarebbe il denaro.
Riferendosi agli ebrei, Marx individua in essi lo spirito stesso della società moderna, perché l'ebreo si consolida come uomo di denaro (Geldmensch) nella sfera commerciale e finanziaria, agendo nel corso dei secoli come mercante, banchiere e usuraio. La ricerca marxiana mira a una comprensione materialista e storica del giudaismo nel mondo moderno come espressione di un “bisogno pratico, di egoismo”, posto dalla socialità capitalista. (2013, pag.60)
Se la necessità pratica è la questione che deve essere risolta principalmente dalla società civile, il modo in cui ciò avviene nel mondo capitalista sviluppa l’egoismo come elemento della vita sociale. Se è così, Marx individua nell’ebraismo un sintomo che può essere risolto solo trasformando il principio della società civile, cioè superando l’egoismo e il dio denaro, o in altre parole – non ancora usate dall’autore –, ponendo fine alla capitalismo. La questione ebraica posta storicamente nella modernità verrebbe allora risolta nella e attraverso la storia:
Cercheremo di rompere con la formulazione teologica della questione. La domanda sulla capacità di emancipazione dell'ebreo si trasforma per noi nella seguente domanda: qual è l'elemento sociale specifico che deve essere superato per abolire l'ebraismo? Perché la capacità di emancipazione dell'ebreo moderno equivale al rapporto tra ebraismo ed emancipazione del mondo moderno. (MARX, 2013, p.55)
È su questo rapporto che rifletterà l'autore riguardo alla questione ebraica: “L'ebraismo non si è conservato nonostante la storia, ma attraverso la storia. È dal suo profondo che la società borghese genera continuamente l’ebreo”. (idem, p. 57) Marx identifica l'ebreo come l'individuo del mondo capitalista; non esattamente come persona di una particolare religione, ma come un modo di essere che si sviluppa nel mondo capitalista, centrato sui rapporti di scambio e, quindi, sul potere del denaro. Sempre con un vocabolario impreciso, associa l'ebraismo al sistema monetario, senza poter in quel momento svelare il feticcio del denaro come forma superiore del feticcio della merce, cosa che farà più avanti in La capitale. Em La Sacra Famiglia, L’emancipazione degli ebrei è formulata come “un compito pratico generale del mondo d’oggi, che è a Ebreo alla radice", o anche "il compito della sussunzione dell'essenza ebraica è, infatti, il compito della sussunzione dell'essenza Ebraismo della società borghese, il carattere disumano dell'attuale pratica di vita, il cui culmine è il sistema monetario”. (MARX, 2011, p.129)
Portare alla luce questi passaggi in questo articolo mira a contrapporre l’orientamento marxiano nella comprensione della questione ebraica con la comprensione teologica che la copre da Moses Hess ai tempi attuali, culminando in una presunta legittimità dell’usurpazione del territorio palestinese. Lo scopo è quello di eliminare l’ideologia sionista e rivisitare la tesi marxiana del superamento della questione ebraica attraverso la trasformazione rivoluzionaria della società capitalista, anche se è solo come illuminazione per pensare alle impasse contemporanee.
5.
La questione ebraica riguarda la possibilità di assimilazione o meno degli ebrei nelle società occidentali, questione che si accentuò a partire dal XIX secolo.
Secondo Abraham Leon, la presenza degli ebrei era tollerata nell'antichità e nell'alto medioevo come elementi preposti allo scambio di merci e al prestito a interesse. La presenza è necessaria, ma trascurata perché associata all'usura. Egli rileva però che: «A partire dal XII secolo, parallelamente allo sviluppo dell'Europa occidentale, alla crescita delle città e alla formazione di una classe commerciale e industriale autoctona, la situazione degli ebrei cominciò a peggiorare gravemente, fino alla loro eliminazione quasi totale della maggior parte dei paesi occidentali. (LEON, 1975, p.14)
L'emergere di una borghesia mercantile autoctona fa a meno dell'intermediazione degli ebrei. Se una parte di questi si assimila a questa borghesia, un’altra larga parte si dirige verso l’Europa dell’Est, che è in ritardo nello sviluppo capitalista. Lì mantennero il loro ruolo, soprattutto in Russia e Polonia, fino alla fine della servitù della gleba nel XIX secolo e al regime feudale sulle proprietà rurali.
Come spiega Leon: “L’accumulazione di denaro nelle mani degli ebrei non ha avuto origine in una forma speciale di produzione capitalistica. Il plusvalore (o plusprodotto) proveniva dallo sfruttamento feudale, e i signori erano obbligati a cedere parte di questo plusvalore agli ebrei”. (LEON, 1975, p.17). Questa è una classe commerciale precapitalista. O anche riguardo all’accumulazione portata avanti dagli ebrei: “L’usura e il commercio sfruttano un procedimento produttivo specifico che non hanno creato e al quale restano estranei”. (idem)
Al contrario, il capitale commerciale precapitalista verrà inglobato nel capitalismo nel suo sviluppo in Europa occidentale, assumendo una funzione specifica nel ciclo del capitale.
Con la fine della servitù della gleba nell’Europa dell’Est, il ritorno ai paesi occidentali avvenne in condizioni molto diverse: da un lato, l’assimilazione economica e culturale degli ebrei arricchiti, dall’altro, l’emergere del proletariato ebraico all’interno dell’Europa orientale. quadro del capitalismo industriale. Qui si pone la questione ebraica, cioè come integrare economicamente gli ebrei.
In effetti, lo sviluppo del capitalismo ha guidato l’evoluzione della questione ebraica lungo percorsi diametralmente opposti. Da un lato, il capitalismo favorisce l’assimilazione economica e, di conseguenza, l’assimilazione culturale; d’altro canto, lo sradicamento delle masse ebraiche, la loro concentrazione nelle città, provocando la recrudescenza dell’antisemitismo, stimola lo sviluppo del nazionalismo ebraico. La “rinascita della nazione ebraica”, la formazione della moderna cultura ebraica, la creazione della lingua yiddish, il sionismo, accompagnano i processi di emigrazione e concentrazione delle masse ebraiche nelle città e sono paralleli allo sviluppo del moderno antisemitismo. (LEON, 1975, p.138)
La discriminazione storica contro gli ebrei si intensificò nel XIX secolo, avendo una motivazione più chiaramente economica, basata sulla lotta tra capitale finanziario, improduttivo, e capitale industriale, produttivo. Una lotta all’interno del capitale, una lotta “tra cugini”, direbbe Marx, che in larga misura offusca ancora oggi la comprensione del movimento dei capitali, come se esistessero un capitale cattivo e un capitale buono.
L'eredità della critica materialista può essere ritrovata in diversi teorici che, come Marx, ipotizzavano la dissoluzione della questione ebraica nello sviluppo di una società emancipata dal feticismo della merce e dalle sue conseguenze. Ma la storia si è rivelata più complessa. A questo proposito Bensaid dirà: “Condannata alla pura e semplice estinzione dai socialisti del XIX secolo, la 'questione ebraica' è persistita nel XX secolo sotto il triplice effetto del genocidio (nazista), della reazione stalinista e della nazionalizzazione sionista”. (2013, pag.112)
L'approccio alla questione ebraica subisce una battuta d'arresto in seguito a questi eventi, tornando alla guida di Moses Hess, che trasforma la storia in un evento teologico. Invece di una comprensione storica, ripieghiamo sul mito dell'essenza ebraica, della razza ebraica, della terra promessa e del popolo eletto.
Lo Stato di Israele è il risultato di questa regressione. Uno Stato teologico che sarebbe apparentemente premoderno perché nato senza la caratteristica fondamentale dello Stato moderno che, seppure formalmente, si fonda sul riconoscimento dell'universalità umana. Ripristina l’alleanza tra Stato e religione e promuove la discriminazione, elevando le particolarità di un credo allo status di costituzione politica. In questo modo, «l’ebreo del sabato e l’ebreo profano che Marx distingueva sono così riuniti, cuciti insieme nell’ebreo teologico resuscitato come ebreo israeliano. La “nazionalità chimerica” divenne una nazionalità effettiva, armata e con gli stivali”. (BENSAID, 2013, p.118)
Ma dietro questa apparente anacronia si può riconoscere l’importanza dello Stato di Israele come risposta alla crisi del capitale e alla lotta internazionale per l’egemonia mondiale. In quanto elemento fondamentale del capitale finanziario, la creazione dello Stato di Israele è la risposta agli interessi del capitale che rappresenta la confluenza di ciò che di più dannoso (ma necessario dal punto di vista delle dinamiche attuali del capitale) è la industria bellica, armamenti, distruzione.
6.
Lo stato teo-coloniale utilizza l’argomento religioso come scudo per adattarsi al progetto di dominio economico occidentale, in particolare degli Stati Uniti, in un momento critico di disputa sulle iniziative della Cina e sul suo progetto per una nuova via della seta. In questa lotta per una nuova ricomposizione globale, lotta tra grandi capitali, che si manifesta nelle guerre e nei conflitti che si svolgono oggi, l’usurpazione della Palestina diventa il caso più visibile, e lo è diventato ancora di più proprio a causa della drammatica azione di Hamas , che interruppe l'alleanza che sarebbe stata siglata tra Arabia Saudita e Israele, favorendo gli interessi americani e indebolendo ulteriormente la causa palestinese, e portò alla ribalta la sofferenza dei palestinesi, senza la quale continuerebbero ad essere massacrati quotidianamente nel mutismo dei media.
Tale genocidio rende molto chiaro il fondamento economico sotto la veste religiosa ed etnica, e si tratta chiaramente di uno scontro impari tra i detentori del capitale e coloro che sono espropriati e violentati all’aperto, davanti agli occhi del mondo, con la connivenza dei ricchi. governi e i loro vassalli.
Pertanto, nonostante tutte le peculiarità di questa “guerra”, tutti gli elementi particolari che sembrano indicare una tensione tra il mondo arabo e il mondo occidentale, il corso degli eventi disfa questa immagine (così favorevole alla diffusione dell’ideologia attuale nei media) . sul pericolo arabo e sulla sua ferocia di fronte alla civiltà occidentale), nella misura in cui la disposizione dei paesi nelle loro posizioni, compresi i paesi arabi, rivela gli interessi economici in gioco. E rivela, come giustamente sottolinea Reginaldo Nasser,[Ii] che non si tratta solo di etnie, ma fondamentalmente di lotta di classe.
Il modo atroce con cui viene condotto un simile massacro, apertamente e apertamente genocida, senza alcun filtro che nasconda il fatto che si tratta ormai di un progetto di soluzione finale per il popolo palestinese e di un'occupazione totale del territorio senza alcun rispetto per le norme internazionali. regolamentazione, mostra la fragilità del diritto nel momento di crisi del capitale, della sua socialità e della sua moralità. In un momento in cui lo sviluppo contraddittorio dell’economia capitalista tocca, ormai con forza, tutti i limiti della sostenibilità della vita sociale, della vita planetaria e del senso stesso dell’umanità, ciò che abbiamo è la cruda visione della barbarie che Si impone il passo con un nuovo ciclo di accumulazione della ricchezza e i suoi meccanismi per conservarla ed espanderla a tutti i costi. È tempo che l’estrema destra assuma spudoratamente la barbarie a favore del capitale.
Da qui il motto Gaza: l'anima della mia anima Ci tocca profondamente quando identifichiamo la sofferenza del popolo palestinese come il simbolo vivente della lotta globale tra ciò che rimane in termini di prospettive di sinistra e l’avanzata dell’estrema destra. Tale sofferenza televisiva e spettacolarizzata rappresenta nell’epoca contemporanea il culmine della sofferenza dei popoli colonizzati che ancora oggi soffrono di questa condizione, della sofferenza degli individui violati nei modi più diversi nella loro vita quotidiana, della sofferenza della natura e delle sue conseguenze per vita planetaria, così da costituire il momento della totale perdita dei limiti etici, morali e giuridici, suonando come un monito su ciò che ci attende come umanità.
La favola si riferisce a te!, Marx ci avverte nella prefazione a La capitale, ricordandoci che questo sistema mondiale colpisce tutti noi in qualche modo, anche se sotto forme particolari. Viviamo questo conflitto ogni giorno. Sempre la stessa lotta di classe in circostanze particolari che spesso ci fanno perdere il significato più grande della lotta. Qualsiasi patch sociale, qualsiasi politica pubblica che significhi anche minimamente un ristoro dalle tante sofferenze quotidiane si scontra sempre con gli interessi del capitale che ci tocca nella capillarità della nostra vita.
Gaza è l’immagine più terribile di questa lotta. Ecco perché è così emblematico. Da qui il significato della proposizione “Gaza: L'anima della mia anima”, perché riassume la nostra paura più segreta come individui sociali, che è l’affronto a ciò che chiamiamo umanità, la rottura del filo che ci fa vedere l’altro come un sé nonostante tutte le differenze. Gaza, l’anima della mia anima, resiste come ultima possibilità di riaffermare un progetto sociale mentre lo Stato di Israele emerge come la figura dantesca dello stato di eccezione in tempi di crisi del capitale. Stiamo parlando di una rottura nel già fragile tessuto dell'esistenza sociale, del superamento di tutti i limiti normativi che sostengono la vita sociale. Nel suo studio psichiatrico, Jabr ascolta il trauma collettivo dei suoi pazienti: “Mi sento come se il mio corpo fosse intossicato, oppresso, esposto all'ingiustizia; che il mio desiderio è infranto. (2024, pag.57)
Come osserva l’autore, i crimini contro i palestinesi “non sono solo una violazione dello stato di diritto, ma anche un tradimento della nostra comune umanità”. (idem, p.140)
Ogni atteggiamento di difesa e di solidarietà con il popolo palestinese è il nostro modo di resistere, il nostro contributo Sumud Palestinese e il nostro apprendimento da Sumud Palestinese a portare avanti la lunga rivoluzione delle strutture economiche necessaria sulla strada verso una vita più umana. Questa è la prospettiva da ricollocare nell'orizzonte di una quotidianità di alienazione, scoraggiamento e capitolazione nella quale siamo stati gettati. Il genocidio del popolo palestinese è il tentativo di cancellare la possibilità della resistenza come diritto umano, è l’apertura a una disumanizzazione programmatica a favore degli interessi economici, nei loro veli religiosi o politici. Ecco perché la causa palestinese ci colpisce nell'anima. E come sottolinea Bensaid, “l’appello di Marx a trasformare le questioni teologiche in questioni profane è ancora altrettanto attuale”. (2013, pag.119)
La strada è lunga ma, come dice Samah Jabr: “L’urgenza oggi sta nel far rivivere la nostra umanità morente, che non è riuscita a preservare la vita di Gaza, a promuovere la compassione e a ripristinare i valori che ci definiscono come esseri umani. Salviamo ciò che resta della nostra umanità dalle macerie di Gaza”. (2024, p.140)
*Ana Selva Albinati è professore in pensione presso il Dipartimento di Filosofia della Pontificia Università Cattolica di Minas Gerais.
Riferimenti
ALTMAN, Breno. Contro il sionismo – ritratto di una dottrina coloniale e razzista. San Paolo: Alameda, 2023.
BENSAID, Daniele. Presentazione e postfazione in MARX, Karl. Sulla questione ebraica. San Paolo: Boitempo, 2013.
JABR, Samah. Sumud in tempi di genocidio. Rio de Janeiro: Tabla, 2024.
KANAFANI, Ghassan. La rivolta del 1936-1939 in Palestina. San Paolo: Sundermann, 2022.
LEONE, Abramo. Concezione materialista delle domande ebraiche. Buenos Aires: Edizioni El Yunque, 1975.
MARX, K./ENGELS, F. La Sacra Famiglia. San Paolo: Boitempo, 2011.
MARX, Carlo. Sulla questione ebraica. San Paolo: Boitempo, 2013.
MARX, Carlo. La capitale vol I. San Paolo: Boitempo, 2013
MERUANE, Lina. Diventa Palestina. Belo Horizonte: Reliquiario, 2019.
MISLEH, Soraya. Al Nakba – uno studio sulla catastrofe palestinese. San Paolo: Sundermann, 2022.
PAPPÈ, Ilan. Pulizia etnica in Palestina. San Paolo: Sundermann, 2016.
PAPPÈ, Ilan. Dieci miti su Israele. Rio de Janeiro, Tavolo, 2022.
note:
[I] JABR, Samah: Sumud in tempi di genocidio. Organizzazione e traduzione di Rima Awada Zahra. Rio de Janeiro: Editora Tabla, 2024. 192 p.
[Ii] Intervista a Reginaldo Nasser. Cessate il fuoco in Libano: ci credete? Opera mundi: Programma 20 minuti. 28/11/2024.
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