da EBERVAL GADELHA FIGUEIREDO JR.*
L'esercizio di potenza morbida La cultura cinese non implica investimenti apparenti in un’industria culturale di portata globale. Una sfumatura che la mente americana sembra incapace di comprendere
Come abitante di una città delle dimensioni di San Paolo, posso dire con certezza che, in un modo o nell’altro, la Cina è sempre presente nella mia vita quotidiana. Come miliardi di altre persone in tutto il mondo, sono circondato da tecnologie e prodotti di fabbricazione cinese. I ristoranti cinesi, con diversi gradi di autenticità, non sono difficili da trovare, e ci sono addirittura quartieri della città dove è possibile ascoltare conversazioni per strada in mandarino o cantonese.
Tuttavia, per quanto io abbia accesso ad accademie di kung fu, a corsi di cultura e lingua cinese all’università e a locali dove posso assaggiare uova secolari e altre prelibatezze non convenzionali con gli amici nei fine settimana, la cultura della Cina, in luoghi lontani lontano come il Brasile, non è così visibile come, ad esempio, gli Stati Uniti. Ciò avviene nonostante la Cina sia il principale partner commerciale non solo del Brasile, ma anche di innumerevoli altri paesi dell’America Latina (Jourdan; Aquino; Spetalnick, 2022).
Ciò accade anche nonostante progetti di cooperazione da trilioni di dollari, come quelli della Belt and Road Initiative, attraverso i quali la Cina investe nelle infrastrutture di diversi paesi, molti dei quali nel cosiddetto Sud del mondo (Kuhn, 2023). Ma perché, dopo tutto? Potremmo dire, ad esempio, che la cultura degli Stati Uniti sarebbe, in qualche modo, naturalmente migliore o più seducente di quella cinese?
Non possiamo cadere nella tentazione di risposte facili e pronte. Ciò che accade, infatti, è che le strategie di proiezione del potere di questi due paesi sono piuttosto diverse, addirittura diametralmente opposte, si potrebbe dire. Oltre a mostrare costantemente il loro immenso potere economico-militare, gli Stati Uniti scommettono di conquistare la simpatia globale promuovendo il consumo, sia di beni materiali che di manifestazioni culturali, in particolare quelle di natura cinematografica, per esempio. È un progetto di civiltà che comporta l’esportazione di un modello di modernità molto particolare, che spesso avviene a scapito degli interessi locali e delle idiosincrasie di altri paesi. Espressioni già pronte come sogno americano e stile di vita americano sono diventati da tempo comuni e riconoscibili in tutto il pianeta. È come la canzone dei Rammstein: Viviamo tutti in America.
Ovviamente lo stesso non accade con la Cina, che non è interessata ad esportare il proprio modello di civiltà prefabbricato, proprio come una confezione di cibo congelato da riscaldare nei forni a microonde delle persone. L'esercizio di potenza morbida La cultura cinese non implica investimenti apparenti in un’industria culturale di portata globale, capace di diffondere le narrazioni e le sensibilità cinesi con l’intenzione di renderle universali. Questa è una sfumatura che la mente americana sembra incapace di comprendere (Gao, 2017).
Il pragmatismo scarno delle iniziative di cooperazione economica cinese con altri paesi può anche sembrare superficialmente semplice e di mentalità ristretta ad alcuni, soprattutto se paragonato al modo americano. Non è una novità, tuttavia, che questo stile americano abbia mostrato segni di esaurimento (Rose, 2020).
La sensibilità culturale degli Stati Uniti difficilmente coincide, e spesso entra in conflitto diretto, con quella di altre società, così che il progetto di potere che sta dietro i prodotti dell’industria culturale americana, presumibilmente sottile, diventa evidente. Paradossalmente, ecco, nella sua ricerca per conquistare cuori e menti, il potenza morbida Gli americani non si mostrano come morbido così.
Ci sono momenti in cui meno è meglio, ed è allora che il metodo cinese si rivela nuovo e rinvigorente. Ma sarebbe un errore interpretare come mera differenza strategica qualcosa che, in verità, è espressione di due modi profondamente diversi di concepire la modernità e la globalizzazione.
Con la fine, nel 1991, del vecchio ordine mondiale che caratterizzò la Guerra Fredda, il mondo entrò in un periodo in cui le relazioni internazionali furono guidate dall’unipolarità del potere americano, con gli Stati Uniti, unica superpotenza globale, che assumevano il ruolo della “polizia mondiale”. Fu in questo contesto che Francis Fukuyama (2006) dichiarò tristemente la “fine della storia”, con la vittoria del neoliberismo di stampo americano come gold standard e modello definitivo della civiltà umana.
La modernità e la globalizzazione di Fukuyamic, quindi, potrebbero essere caratterizzate come l’accettazione e l’emulazione di questo presunto gold standard. In questo modello di modernità, valori, sogni, ambizioni, sensibilità socioculturali, istituzioni e culture materiali si uniformano, in una grande monocultura che si estende dalle Aleutine alla Terra del Fuoco e da Taclamacã al Mojave. L’espressione suprema di questi valori ebbe luogo nella prima metà degli anni 2000, periodo in cui la politica estera americana era caratterizzata dall’adesione a una dottrina neoconservatrice, eredità empia dell’era della Guerra Fredda.
Fu in questo periodo che l’allora presidente americano George W. Bush (Voice of America, 2009) esternalizzò al mondo la sua massima manichea e polarizzante, espressione di ciò che Gilles Deleuze e Félix Guattari (2010, pp. 365-372) chiamano delirio fascista-paranoico in campo sociale: o sei con noi o contro di noi.
I presunti valori di questa civiltà planetaria americanizzante sono sempre stati avvolti in una retorica molto nobile. Tale nobiltà, tuttavia, non si traduceva perfettamente nel campo della pratica. È notevole come, ad esempio, il Ordine internazionale basato su regole guidati dagli Stati Uniti possono essere utilizzati per scopi nascosti, come rubare risorse altrui (Mattei; Nader, 2013).
Da allora, l’ascesa di altri poli di potere globale, inclusa la Cina, ha sostanzialmente modificato la situazione status quo internazionale, tracciando linee di fuga che puntano verso altri modi di concepire la modernità e la globalizzazione. Al centro concettuale di questo nuovo orizzonte multipolare si trova il concetto di tianxia 2.0
La nozione di tianxia (天下), che può essere tradotto come “Tutto sotto il cielo”, è piuttosto complesso e sfaccettato, con dimensioni politiche, morali, geografiche, tra le altre. Deriva dal pensiero cinese classico, più precisamente dai tempi della dinastia Zhou (1066-256 a.C.), un'epoca in cui la Cina era balcanizzata in diversi stati più piccoli. In questo contesto, tianxia rappresentava un ideale di reciprocità e interdipendenza tra questi stati cinesi, in un sistema di relazioni internazionali che promuoveva l’universalità (o potremmo dire la pluriversalità (Teixeira, 2011)) attraverso la definizione di alcuni impegni comuni.
Si potrebbe dire, incorrendo ovviamente in un grave anacronismo, che il tianxia di quei tempi lo era per la politica internazionale come la metodologia attribuita a Deleuze da Brulin (2020), basata sul concetto di molteplicità, lo è per la produzione della conoscenza. Entrambi producono una trapunta patchwork da un insieme di elementi eterogenei. Non a caso il termine Patchwork (“patchwork quilt”) è stato utilizzato per designare modelli politici caratterizzati da un’estrema frammentazione, con elevata connettività e bassa integrazione tra i loro elementi costitutivi (Moldbug, 2017). Anche se il modello ha le sue origini in ambienti politici neoreazionari, le letture di sinistra sono perfettamente possibili, e anche piuttosto fruttuose (Xenogothic, 2018).
In periodi successivi, come durante le dinastie Ming (1368-1644) e Qing (1644-1912), quando la Cina era saldamente unificata, tianxia cominciò a designare un sistema di relazioni internazionali che poneva l'imperatore della Cina, detentore del Mandato Celeste, nella posizione centrale di ricevere tributi e omaggi formali dai governanti delle nazioni più piccole all'interno della sfera culturale cinese, come Corea e Vietnam.
Già tianxia 2.0 è una reinvenzione di questo vecchio concetto, mirando alla sua reinterpretazione e applicazione in un contesto contemporaneo, in un mondo segnato dall’avanzamento della globalizzazione. Ideato dal pensatore cinese Xu Jilin (2015), tianxia Il 2.0 rinuncia al carattere sinocentrico del vecchio tianxia di epoca imperiale. Si tratta di un nuovo approccio, che riconosce la diversità culturale, politica ed economica delle nazioni, promuovendo al contempo la cooperazione globale, la governance multilaterale, la giustizia sociale e la prosperità comune delle persone. Ciò che ci si aspetta, quindi, è la ricerca di soluzioni condivise agli attuali problemi globali, come il cambiamento climatico e i conflitti geopolitici, tenendo sempre presente il rapporto di profonda interdipendenza tra i Paesi coinvolti.
In contrasto con un ordine mondiale unipolare, la multipolarità del tianxia L’obiettivo 2.0 mira a creare un ordine globale più inclusivo e sostenibile, in cui tutte le nazioni abbiano uguale voce e importanza, e in cui la modernizzazione e la globalizzazione avvengano in modo plurale e collaborativo.
Tutto ciò sembra molto bello e stimolante, ovviamente, ma l’ispirazione che questo modello cinese offre al resto del mondo non si limita alle parole di un filosofo. Ecco l'espressione di tianxia Il 2.0 nella dimensione della prassi è conosciuto con un altro nome: BRICS.
Nel corso del primo decennio di questo secolo, all'ombra del potere unipolare americano, è emerso un concetto per designare un gruppo di nazioni molto diverse e distanti tra loro, ma che nonostante ciò avevano alcune caratteristiche in comune: estese, tellurocratiche, popolose Paesi, multietnici ed ecumenici, con economie in rapida crescita e grandi potenzialità, grandi mercati di consumo e abbondanti risorse naturali. Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa: in inglese i loro nomi formavano l'acronimo BRICS (O'Neill, 2001).
Oggi, i BRICS costituiscono un blocco economico e politico che cerca di promuovere la cooperazione e l’influenza congiunta dei suoi paesi membri sulla scena globale, rafforzando le loro relazioni commerciali e aumentando il loro potere congiunto nei confronti delle istituzioni internazionali, come il Fondo monetario internazionale. (FMI) e la Banca Mondiale. Nell’economia mondiale, questi paesi svolgono un ruolo importante, rappresentando una parte significativa del PIL globale e del commercio internazionale. Pertanto, questo audace sinomodernismo ha contribuito notevolmente allo sviluppo delle nazioni partner, compreso il Brasile.
Sebbene i BRICS costituiscano una piattaforma per la cooperazione tra questi paesi, non sempre c’è consenso su tutte le questioni. Ciò è naturale e perfino salutare, dal momento che hanno sistemi politici, livelli di sviluppo umano e sfide interne diversi, il che porta inevitabilmente a divergenze. In ogni caso, si tratta di un valido tentativo di promuovere, nel migliore dei modi, un ordine mondiale multipolare più equilibrato tianxia 2.0, che prevede, come già spiegato, la sintesi del nuovo attraverso l'azione della differenza.
C’è una certa forza aggregante all’opera in questo accordo, il cui fascino è forte, senza essere troppo ostentato e/o ideologico. Al contrario, si tratta di una soluzione soprattutto pragmatica. Un ottimo esempio di ciò è il recente cambio di posizione del neoeletto presidente argentino Javier Milei, che, dopo aver fatto commenti sfavorevoli a Lula e Xi Jinping durante tutta la campagna, ora adotta una retorica diametralmente opposta, piuttosto amichevole nei confronti degli attuali governanti. Brasile e Cina. Ovviamente, parte di ciò è dovuto a ciò che ha dato origine ai BRICS, cioè al grande potere economico relativo di questi paesi. Dopotutto, Brasile e Cina sono i due maggiori partner commerciali dell’Argentina (Jourdan; Araújo; Lee, 2023).
È proprio attraverso questa dimensione pratica, cioè i BRICS, che nasce il concetto di tianxia Il 2.0, dapprima esotico e distante, assume contorni palpabili, che ormai ci sono già abbastanza familiari. In quanto membro fondatore dei BRICS, il Brasile si rivela una parte preziosa del progetto di globalizzazione e modernizzazione alternativa che la Cina estende al resto del mondo, uno dei pilastri più robusti del nostro tianxia 2.0
Ma i BRICS non sono più soli, poiché altri paesi del cosiddetto Sud del mondo hanno espresso interesse ad aderire al blocco. Nel 2023, Venezuela, Iran, Arabia Saudita, Egitto e la già citata Argentina, tra gli altri, si sono presentati come fronti per l’espansione del blocco. Pertanto, i BRICS diventano BRICS+ (Prazeres, 2023).
Perciò, ogni volta che esco di casa per acquistare il tè Fujian aromatizzato ai fiori di gelsomino in un mercato cinese in Rua da Glória, nel cuore della città di San Paolo, mi ritrovo a riflettere. La Terra di Santa Cruz è molto lontana dal Medio Regno. Si tratta di paesi che, tra loro, occupano posizioni quasi agli antipodi. Ma questa grande distanza è solo un dettaglio, perché nonostante ciò, c'è qualcosa di sostanziale che ci unisce: Tutto sotto il Cielo.
*Eberval Gadelha Figueiredo Jr. ha conseguito una laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'USP.
Riferimenti
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