da HANS ULRICH GUMBRECHT*
Estratto dal libro recentemente pubblicato
Lo stadio come rito del tifoso
Al giorno d'oggi, gli eventi di folla negli stadi si verificano molto più frequentemente rispetto a mezzo secolo fa. Dalla fine degli anni '1970 e dall'ascesa di Freddie Mercury e della sua band, i Queen, alla fama mondiale, il rock da arena è diventato non solo un fatto della vita, ma un genere musicale popolare a pieno titolo. La canzone “We Are The Champions” rappresenta questo. Il 23 giugno 2019, nello stadio più grande della Germania, a Dortmund, si è svolta la messa di chiusura del Forum della Chiesa protestante tedesca (anche se il numero di 32mila partecipanti è stato considerato “deludente”).
Tuttavia, una speranza brevemente rinnovata nell’efficacia politica delle formazioni spontanee di folla è nuovamente svanita quando le travolgenti scene della Primavera Araba e i giorni della Rivoluzione Maidan a Kiev sono stati archiviati nel profondo della nostra memoria storica.
Nonostante questa configurazione di tendenze, la mia osservazione che “le masse raggiungono il loro fondamento proprio nello stadio” può essere sembrata fuorviante. Infatti, insinuare seriamente che possano esistere versioni perfette o completamente corrette di qualsiasi fenomeno sarebbe un pensiero pseudoplatonico e di conseguenza pseudofilosofico della peggior specie.
Pertanto dovrei riformulare la frase. Inizialmente, osservare le folle negli stadi e gli spettatori degli eventi sportivi ci ha aiutato a evitare due forme tradizionali di analisi: il tradizionale disprezzo per le masse e la loro altrettanto poco convincente “eroizzazione” come agenti della storia. Entrambi gli approcci collegano le masse al concetto di “soggetto”, sia positivamente, come soggetto collettivo eroico status superiore, sia negativamente, come ambiente che presumibilmente ridurrebbe l'intelligenza dei suoi singoli soggetti.
Al contrario, la prospettiva dello stadio cerca di far luce su una complessità finora poco discussa, la doppia complessità del fenomeno tifoseria. Cioè, da un lato, l'ambivalenza tra la nota tendenza alla violenza di queste folle e la possibilità di accedere, come parte della folla, a un'intensità altrimenti inaccessibile, a un'estasi. Riformulando, possiamo quindi dire che il pubblico può non aver bisogno dello stadio per “arrivare alle sue fondamenta”, ma che è attraverso il contesto stadio che diventa soprattutto un oggetto intellettualmente gratificante.
Tuttavia, non voglio estendere questa analisi teorica dei ventagli a una terza fase (perché tali processi di sviluppo concettuale non giungono mai a conclusione). Nei due capitoli conclusivi, invece, il mio scopo è quello di descrivere ancora una volta l'esperienza dei tifosi dello stadio da due prospettive concrete. Entrambi mostreranno i fan come un fenomeno di presenza – cioè, come ho spiegato nella mia definizione di presenza, a distanza, appunto, da un’interpretazione delle loro funzioni o azioni come tentativi di cambiare il mondo.
Dal punto di vista della presenza, funzioni e azioni compiute nel tempo vengono sostituite da rituali, cioè da forme di autodispiegamento dei fenomeni nello spazio (e mi riferisco ai rituali nel senso ampio del linguaggio attuale contemporaneo, non ai rituali religiosi in particolare). Tali rituali sono coreografie all’interno delle quali possiamo muoverci ancora e ancora senza mai cambiare il mondo attraverso di essi. Sullo sfondo dei nostri due capitoli teorici, considerare gli eventi nello stadio come rituali dovrebbe aprire la possibilità di sperimentarli e valutarli in termini della loro alienazione produttiva.
La particolare coreografia del rituale dello stadio di solito inizia a una certa distanza dal luogo dell'evento. A casa, al lavoro, alla stazione della metropolitana, il giorno della partita ci sentiamo attratti dallo stadio – un'attrazione che è anche fisica. I sabati autunnali, quando la squadra di football di Stanford gioca in casa, non riesco mai a lavorare in biblioteca fino all'orario previsto. Divento incapace di concentrarmi su qualsiasi altra cosa e il cammino dall'ufficio della biblioteca passando per l'Encina Hall fino allo stadio dura molto meno dei soliti quindici minuti (mia moglie dice che non vuole più “correre” con me, tanto che oggi troviamo direttamente allo stadio nei soliti posti, fila 11, all'altezza della linea delle quaranta yard).
A Dortmund c'è un corridoio giallo brillante che porta dalla stazione ferroviaria nel grigio nord allo stadio nel verde sud della città – un corridoio, per alcuni una pista da corsa, ma per nessuno una passeggiata per socializzare. Chi aveva l'idea che i tifosi, nel percorso dalla stazione allo stadio, avrebbero avuto tempo o voglia di fermarsi al bellissimo Museo del Calcio Tedesco? Gli stadi, nei giorni delle partite, sono calamite impareggiabili e potenti, il centro dell'esistenza dei tifosi, senza alternative o distrazioni.
Il polso batte più forte man mano che mi avvicino allo stadio, sia che veda il rosso a Stanford o il giallo a Dortmund prendere il sopravvento su tutto intorno a me. A Istanbul, prima delle classiche tra Fenerbahçe, Galatasaray e Beşiktaş, gli agenti di polizia stanno già iniziando a dirigere i rispettivi tifosi a chilometri di distanza dagli stadi, in modo da separare i loro percorsi ed evitare esplosioni di violenza. Quando il Borussia non gioca il derby contro lo Schalke 04, bevo comunque la mia unica birra (gialla!) dell'anno a Dortmund mentre vado alla partita, in fretta, perché devo arrivare presto allo stadio ancora quasi vuoto, il che si riempie presto, sempre più velocemente o, di fatto, allo stesso tempo troppo velocemente e troppo lentamente per me – e così facendo diventa un altro spazio, un altro mondo reale dove mi perdo dalla vita quotidiana in un'intensità concentrata.
Questa distanza dalla vita quotidiana si stabilisce gradualmente: le squadre vengono a riscaldarsi, scompaiono negli spogliatoi, tornano in campo come in una parata comune. Otto minuti prima del calcio d'inizio gli altoparlanti del Dortmund suonano a tutto volume Non camminerai mai solo, l'inno dello stadio importato tanti anni fa dal Liverpool. La Tribuna Sud canta e poi si avvia verso il gioco, avvicinandosi il più possibile senza diventarne parte.
Anche negli stadi al coperto, dove l’impressione delle forme architettoniche può essere percepita ancora più intensamente, il ghiaccio dell’hockey o il campo da basket rimangono separati, o da pareti di vetro o semplicemente da nulla – e tuttavia chiusi in modo impenetrabile per i tifosi. Nel baseball, a volte alcuni di questi possono anche trovarsi all'altezza del campo, quasi all'interno del gioco, ma comunque separati. Qualunque sia il nostro posto, non desideriamo altro che vedere movimenti, forme di corpi trasfigurati che si sollevano contro la resistenza di altri corpi e contro ogni previsione, per poi scomparire di nuovo. Forme come eventi, forme che sperimentiamo senza però incarnarle noi stessi.
All'inizio della partita lo stadio si carica di due tensioni: c'è la nostra squadra e l'altra squadra, noi e gli altri tifosi (noi e la nostra squadra, gli altri tifosi e la loro squadra). Man mano che la partita si svolge, noi e gli altri tifosi diventiamo corpi mistici, entrambi dipendenti ma non identici alle nostre rispettive squadre, mentre gli arbitri, per entrambe le parti, sembrano sempre appartenere all'altro corpo mistico poiché non lo sono, dopo il tutto, niente più che un potenziale ostacolo all'emergere di giocate da parte della nostra stessa squadra.
La sostanza elementare dello stadio si divide in due zone e nelle loro conseguenti energie, non esiste una terza. Due sostanze e due energie che si formano e si caricano l'una contro l'altra, senza sovrapporsi. In particolare, i grandi classici portano questa separazione assoluta a una sorta di estasi che può nascere solo nello stadio, perché lo stadio rende visibili, condensa e comprime le tensioni della città e di tutte le sue storie.
Adriano Celentano, tifoso viola (tifo) dell'Internazionale di Milano e quindi rivale del Milan, l'altra squadra della sua città (e avversaria ai quarti di finale del Borussia Dortmund quel febbraio 1958), cantò la tensione della classica del 1965 in una delle più grandi colpi di tutti i tempi, "Eravamo a Centomila” [Eravamo centomila]. Anche il titolo apparentemente semplice è interessante, a causa della preposizione in fa sì che l'enunciatore e l'ascoltatore del testo (rispettivamente lui e lei) diventino corpi in una folla di centomila fan.
Tutto questo nello stadio di Milano, che a quel tempo si chiamava ancora San Siro, dal nome del quartiere (il rinnovato San Siro porta il nome di Giuseppe Meazza, il carismatico attaccante dell'Italia che vinse il mondo nel 1934 e 1938). “Lei del Milan”, lui “dell'Inter”, l'ha vista nel classico tra i centomila tifosi, “da un capo all'altro [dello stadio]” (in italiano la parola può significare anche “da una porta all'altra”). all’altro”): “Ti ho sorriso/e tu hai detto sì”. Puoi solo sperare di rivederla dopo la fine del gioco, ma lei “scappa con qualcun altro sul tram”. Nella vita di tutti i giorni dopo la partita, quindi, non vi è alcuna sovrapposizione tra i corpi mistici formatisi durante la partita classica e quelli che li compongono.
"Se non sbaglio hai visto Inter-Milan con me", dice all'inizio della canzone. “Con me”, ma dopo i primi rapidi istanti di conversazione (“Scusate!”, “Che succede?”, “Dove vai?”, “Perché?”) non c’è più risposta da parte sua, Bella Mora, la bella mora, tifosa del Milan a cui si rivolge con tanta nostalgia. Sarebbe stata “una partita tra noi due”, canta: “Hai segnato un gol (un goal)/proprio davanti alla porta [in goal] (l'ha portata) dal cuore/e ho capito che per me ci sei solo tu”. Nessuna risposta. “Io dell'In (Inter!)/ Lei del Mi (Milano!)”, così termina il canto di un amore tragico che non può essere consumato: “Io dell'In/ Lei del Mi – o bella mora".
La metà degli anni Sessanta, con tre campionati italiani e due europei, furono gli anni della “Grande Inter”, la squadra nerazzurra di Sandro Mazzola, dal quale fui così influenzato al punto da farmi crescere i baffi durante alcuni mesi in cui lavoravo vicino a Milano nel 1972, anno di una delle sue ultime stagioni. Anche il suo rivale Gianni Rivera giocava ancora per la rossonero Una Milano dall'eleganza casual che deve aver ispirato i sogni di tutte le suocere milanesi.
Ma è stato l'allenatore dell'Inter Helenio Herrera, nato in Argentina e cresciuto nel calcio francese, a inventarla, attorno a Sandro Mazzola, con difensori come Tarcisio Burgnich e Giacinto Facchetti, con i terzini Mario Corso (a sinistra) e il brasiliano Jair (a destra), l'eleganza iper-razionale di catenaccio, che rimane ampiamente praticata fino ad oggi, una strategia che si basava su una scommessa su una difesa perfetta e contropiedi brillanti, collezionando vittorie per 1-0. “C'è sole!” gridò uno tifo dell'Inter sotto una pioggia battente, abbracciandomi, quando, dopo un passaggio di Facchetti per Mazzola sulla sinistra e, da lì, un giro a destra per Jair, Mario Corso ha spinto la palla in fondo alla rete con il suo gamba sinistra, unico gol nella vittoria contro la Roma.
Incorporare uno stile di gioco intellettuale in campo è rimasta l'eredità della rivalità calcistica tra Inter e Milan, proprio come nessun altro classico ha prodotto un colpire con un tono di triste realtà. Perché la divisione insormontabile di “Eravamo a Centomila” è la condizione di intensità dei due blocchi, dei due corpi mistici, dei due tifosi allo stadio. Non esiste un'alternativa amichevole. Qualcuno ha mai vissuto un momento di grande emozione in a ciao (quell'onda che ruota attraverso gli spettatori nello stadio in un movimento circolare collettivo) in cui avrebbe trasformato i due isolati dello stadio in una grande unità di affetti?
Il tanto acclamato ciao Non è altro che un sintomo di noia – adatto alla pausa, a partite già decise o a quelle che non hanno più alcun significato drammatico. UN ciao non fa parte della coreografia dello stadio, mentre quegli altri momenti di estasi, rari, spontanei ed esplosivi che in realtà affascinano tutti i tifosi (come alla fine della grande partita di rugby a Sydney) non possono avere alcuna coreografia, alcuna forma fissa, in il suo carattere esplosivo.
Ma, se è vero che non può esistere una vera esperienza da stadio senza questa invariabile struttura di divisione, antagonismo e potenziale aggressività (motivo per cui nessuno si preoccupa delle amichevoli), ciascuna modalità sportiva deve avere regimi diversi di attenzione transitiva e trasfigurazione su i giocatori e le giocate. Da nessuna parte le rivalità sono più ostinate e più profondamente cariche di storia che nel baseball. Dato che sono un tifoso dei San Francisco Giants, ho dovuto imparare a dimenticare attivamente che alcuni dei miei colleghi e persino amici tifano per i Los Angeles Dodgers.
Il baseball dipende meno dall'emergere di una forma dal movimento dei corpi di diversi giocatori che dal confronto di due singoli giocatori, cioè dal brocca sulla tua piccola collina (Mount), che lancia la palla bianca e dura al ricevitore inginocchiato e, d'altra parte, al battitore (alla battuta) tra brocca e il ricevitore, che cerca di battere le palle lanciate fuori dalla portata dell'altra squadra con la sua mazza. Questo confronto ha, per i suoi fan, la tensione psicologica di due giocatori di scacchi e l'energia fisica potenzialmente devastante di due pugili. Da questi scontri dipende tutto l'attenzione di entrambe le squadre e dei tifosi, ogni altro intervento può avvenire solo di conseguenza.
Nel basket, visti i punteggi particolarmente alti, raramente le partite si riducono all’ultimo canestro decisivo per la vittoria o la sconfitta, e i tifosi – soprattutto nei campionati professionistici, il basket universitario ha una dinamica diversa – tendono ad essere più attratti dalla fluidità dei movimenti della squadra. e il valore artistico aggiunto delle singole mosse che contribuiscono a una particolare tensione o rivalità. Una grande schiacciata vale solo due punti, ma produce un'irresistibile sensazione di destrezza, proprio come i tiri follemente lunghi di Steph Curry che cadono di chuá creare una presenza di perfezione.
Posso sentire l'accelerazione di un enorme centro nell'hockey e il suo dolore improvviso e atteso all'impatto con un altro corpo, così come la connessione senza peso con il disco che viene spinto sulla lama del bastone. Il tempo tra le mosse (bassi) nel football americano, vissuto dai tifosi come insopportabilmente lungo, è sempre troppo breve per i complessi giochi mentali – e in questo caso anche per le conversazioni compatte di esperti che vogliono anticipare le strategie di entrambe le squadre per la partita successiva – , fino a un gioco offensivo viene trasformato ed effettuato in veri e propri movimenti al fine di superare (o fallire contro) gli organi di difesa.
E, nonostante tutte le discussioni ossessive degli ultimi anni nel calcio sulle tattiche e sulle condizioni statistiche per il successo, è rimasto uno sport di squadra basato sull’improvvisazione. Come accade anche nell'hockey su ghiaccio e a differenza dei giochi che tengono la palla in mano, il possesso della palla nel calcio è sempre precario e conteso, rendendo lo svolgimento del gioco solo vagamente prevedibile. Più che di strategie sofisticate o di confronti drammatici, il calcio, quindi, vive di intuizioni, brevi speranze, delusioni e reazioni alle quali le squadre devono adeguarsi come sciami, senza dimenticare i reciproci antagonismi.
Ogni sport di squadra ha il suo tono e il suo ritmo, che io, come tifoso, vivo e a cui mi adatto quasi fisicamente, e che producono diverse forme di coerenza tra i corpi collettivi degli spettatori. Gli appassionati di baseball si sentono nelle mani del destino? Gli appassionati di basket evocano l'estasi della perfezione? C'è uno spirito di pensiero militare nel football americano o un esistenzialismo nel football? Non mi soffermerò qui su tali questioni e confronti perché possono diventare banali nella loro ingegnosa arbitrarietà.
Certamente, parte del rito dello stadio avviene come reazione alle diverse plasticità di forme e atmosfere dei diversi sport, che trovano particolari risonanze nei diversi corpi degli spettatori senza dover corrispondere ad essi (ad esempio, le partite fisicamente più aggressive non hanno avere i tifosi più aggressivi). Tutti loro, il baseball a Osaka, il basket a San Francisco, il football universitario in Alabama, l'hockey su ghiaccio a Montreal o il football a Dortmund, riempiono i loro stadi con folle completamente diverse nella sostanza, sostanze diverse che forse ci sono familiari a causa della nostra esperienza senza averne definito i concetti.
Sono soprattutto gli sviluppi drammatici di ogni singola partita a innescare quei movimenti di intensità attraverso i quali noi tifosi ci lasciamo trasportare, movimenti che vanno dall'apertura all'irreversibilità, movimenti carichi di quell'energia fisica repressa e composti da immagini trasfigurate della nostra percezione. Per un tifoso nulla di ciò che accade allo stadio è banale o rilassante, tutti i suoi avvenimenti sono estaticamente gravi. Ed è per questo che, alla fine della partita, l'euforia del corpo mistico vincitore non potrebbe essere più grande, e lo scoraggiamento del perdente, più profondo. La semplice soddisfazione per la vittoria o il fastidio per la sconfitta sarebbero ben pochi.
Questo è sempre anche il momento in cui – soprattutto a Dortmund – la squadra di casa scende in tribuna (anche dopo partite deludenti e sconfitte) per ringraziare i tifosi. A differenza di quanto accade durante la partita, ora i corpi dei giocatori sono sincronizzati con il corpo mistico dei tifosi e innescano una serie di movimenti sincroni.
I giocatori, in questo momento, non sono più separati dai tifosi; Questa gratitudine può essere intesa come una reciproca uscita dalla trasfigurazione, un ritorno al mondo della vita quotidiana da cui i membri della folla hanno voluto (e sono riusciti) ad allontanarsi per qualche ora, un ritorno ad una realtà piuttosto superficiale e non più serietà estatica.
I rituali della folla negli stadi presuppongono che al centro dell’attenzione sia il gioco di squadra, perché oggi associamo in modo molto naturale lo sport per spettatori – sia culturalmente che economicamente – al fascino per le squadre. Storicamente, però, come già accennato, l’ascesa degli sport di squadra all’attuale popolarità è avvenuta solo dalla metà del XIX secolo alla metà del XX secolo.
L’antica Grecia non conosceva i giochi di squadra – né la cooperazione tra gli aurighi dei rispettivi fazioni era più simile alle corse automobilistiche che al calcio, al basket o all'hockey. Allo stesso tempo, sappiamo che i pochi eventi di atletica che ancora oggi si svolgono su larga scala e davanti a tribune piene non producono nella folla l’intensità che ho descritto.
Gli spettatori di atletica leggera tendono ad essere esperti o ex atleti piuttosto che tifosi. Non ci sono quasi spiegazioni per l’emergere, storicamente tardivo, degli sport di squadra come forma sportiva dominante. Dovremmo supporre che il progressivo sviluppo dell’individualità come norma esistenziale di vita nelle società occidentali abbia conferito alla collettività una controaura sempre più attraente? Coloro che vivono giorno dopo giorno da soli davanti a uno schermo bramano le esperienze collettive e le loro tensioni? Nella sua premessa di base, questa speculazione coincide con la nostra spiegazione degli stadi pieni: ciò che diventa attraente alla periferia della vita quotidiana è proprio ciò che scompare dal suo centro.
In ogni caso, è plausibile collegare la possibilità di folle di spettatori come quelle che conosciamo con l’emergere dei giochi di squadra per due ragioni principali. In primo luogo perché i giochi di squadra, a differenza della maggior parte degli sport individuali, si svolgono come competizioni tra due sole squadre. In altre parole, c’è sempre solo un’altra squadra e i suoi tifosi a cui ci opponiamo come un’altra massa.
Negli sport individuali la situazione sembra più diffusa: corridori, nuotatori o ginnasti hanno diversi avversari. In secondo luogo, però, alla formazione di gruppi di tifosi che possono diventare folle contribuisce probabilmente anche la concentrazione comune dei giocatori della nostra squadra e la trasfigurazione dei loro movimenti rispetto alla concentrazione sui singoli atleti. Soprattutto perché, all’interno di un gruppo, la percezione innesca spesso l’impulso ad associarsi ad esso, ad unirsi ad esso – e quindi ad espanderlo attraverso la propria inclusione.
Dopo la fine del gioco e i ringraziamenti da parte del team (ovvero il rilascio di trasfigurazione), siamo sfiniti. Per il tifoso l'intensità multidimensionale è l'equivalente della partecipazione fisica degli atleti alla partita. Praticamente non proviamo più resistenza e nemmeno malinconia quando usciamo dallo stadio. Conosciamo la data della prossima partita, proprio come i rituali. Camminiamo lentamente, stanchi, fuori dallo stadio forse abbiamo voglia di mezza sigaretta invece di un'altra birra, e l'atmosfera di eccitazione si calma anche nei bar.
La sera dopo la partita non è dedicata al cibo sofisticato o alle conversazioni brillanti. Forse non vogliamo nemmeno parlare della partita. Le batterie sono scariche, piacevolmente scariche: arriva il vuoto, non il relax. Dopotutto, i tifosi consumano tutta la concentrazione, la vicinanza e l’energia di cui dispongono.
Cosa avremmo da perdere in un mondo in cui non ci fossero più stadi pieni? Questo è un problema per noi tifosi, non per la società in generale. Perderemmo quella sensazione fisica di euforia senza contenuto che ci attrae allo stadio e che altrimenti non avremmo. In cambio, per così dire, perderemmo il rischio della violenza con tutte le sue conseguenze. In ogni caso, non c’è alcun valore educativo e certamente nessun miglioramento morale che ci si possa aspettare dall’essere parte di una tifoseria.
Ma senza di loro, senza la loro presenza laterale e il potere trasfigurante del loro sguardo, forse cambierebbero anche la forma e l’estetica dei giochi a cui siamo legati. Non perché le masse sostengano le loro squadre, come gli atleti amano così gentilmente affermare, ma perché le squadre e le loro stelle giocano per i tifosi ancor più di quanto giochino per i loro allenatori e per i loro conti bancari, più di quanto forse loro stessi si rendano conto.
Hans-Ulrich Gumbrecht è professore di letteratura alla Stanford University (USA). Autore, tra gli altri libri, di Profili (Disp).
Riferimento
Hans Ulrich Gumbrecht. Tifosi: Lo stadio come rito di intensità. Traduzione: Nicolau Spadoni. San Paolo, Editora Unesp, 2023, 126 pagine. [https://amzn.to/3N8To0B]
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