da PAOLO EDUARDO ARANTES*
Ricostruire la dialettica con Ruy Fausto
Il marxismo brasiliano attende ancora che il cittadino ben disposto ricostituisca la sua storia - o un insieme ben nutrito di essi, poiché questa non è una questione di fuga da soli. Non è solo una questione di appetito. Sono molte le circostanze che cospirano contro una simile iniziativa. Tra questi, forse questo è il più istruttivo: occorre uno sguardo eccentrico che non dia per scontata l'esistenza del marxismo in Brasile. La dialettica può essere ovunque, ma la visione che riesce a coglierla non è congenita, va assecondata come ogni percezione, che adotta schemi che di immediato non hanno nulla.
Nel caso del marxismo, la loro piatta applicazione causò i danni noti – il più noto per la “trasposizione della sequenza schiavitù-feudalesimo-capitalismo in Brasile, Paese nato dall'orbita del capitale e il cui ordinamento sociale, nel Tuttavia, è molto diverso dall'Europa”. Il ricordo incolto è di Roberto Schwarz il cui merito più grande sta meno nell'accenno a un quid pro quo disastroso, caduto in disuso da tempo, che nella sconsiderata suggestione della nota stonata che il marxismo può risuonare tra noi quando non lasciarsi ricostruire dalle contraddizioni locali. Non sarà eccessivo attribuire la penetrazione di questo colpo di vista alla formazione di un emerito Machado, istruito dal caleidoscopio di successi e fallimenti orchestrato dal famigerato afflusso esterno, di fatto effetto dello sviluppo disomogeneo e combinato del capitalismo.
Non è un caso anche la scarsa presenza nei saggi di Gérard Lebrun, intellettuale straniero e eroe civilizzatore della cultura filosofica di San Paolo per due decenni (è inutile dire che la necessaria allusione all'ambito dell'azione municipale della sua influenza non nasconde alcuna la beffa, tutt'altro, registra solo l'atomizzazione della nostra vita filosofica dalla nascita), di spinte che a volte culminano nell'estrema impressione che il marxismo in Brasile sia una “idea fuori luogo”. Curioso incrocio di eccentricità disparate che però suggeriscono una cronaca più realistica delle avventure del marxismo nel nostro paese, che moltiplica i termini di confronto, prestando attenzione soprattutto alla geografia ideologica della sua diffusione, che segue da vicino le linee di clivaggio del suddetto sviluppo irregolare.
Il libro di Ruy Fausto Marx, logica e politica” (Brasiliense, 1983), è senza dubbio al centro nevralgico di questo eventuale equilibrio dell'irradiazione locale della tradizione marxista: il suo genere è allo stesso tempo sfondo e forma di tale ricostituzione.
Il marxismo è invecchiato e tuttavia rimane sconosciuto. Questa affermazione di Ruy Fausto dimostra la natura paradossale del libro: una feroce critica del marxismo inaugurata dalla riscoperta dei suoi principi logici, mascherata dal diluvio delle cosiddette letture volgari, o “comprensioni”, come preferisce l'autore. L'analisi dei suoi limiti si confonde così con l'indagine dei suoi fondamenti, altro enunciato che l'autore offre anche in chiave speculativa: il percorso della fondazione (ragione) è allo stesso tempo la via per l'abisso (zu Grund gehen). Ma non è ancora questa volta che scenderemo al "bas-fonds” del marxismo in crisi. Il volume in questione è il primo di una serie programmata di cinque. In essa il lettore sarà invitato a percorrere un solo tratto, ripido e tortuoso, di quel primo sentiero, falsamente ascendente.
Un insieme di scritti per lo più polemici, pur ospitando ampi sviluppi alternativi, tutti notevoli, che l'autore, con indebito pudore, considera solo “materiali per una ricostruzione della dialettica”. Di conseguenza, i limiti indicati non vanno oltre il preambolo dell'opera, pur definendone l'orizzonte: una relativa discrepanza tra le analisi di La capitale in relazione alle nuove realtà del capitalismo avanzato; l'immensa falsa svolta della storia mondiale, paralizzata davanti alla minaccia della “morte generica”; e soprattutto l'apparizione inaspettata di un sinistro compagno, il vero socialismo. Sono alcune delle costellazioni allineate dall'autore, davanti alle quali la dialettica sembra vacillare. Pietra d'inciampo temporanea, l'impermeabilità di fatto?
Nulla impedisce, dirà qualche cuore veterano, l'entrata in scena di un nuovo Marx, possibilmente collettivo, in condizioni di determinare il baricentro di quella nebulosa sconosciuta. Ruy Fausto, invece, è categorico: sappiamo che non ci saranno nuovi marxismi. Riservando le ragioni di tanta certezza a una fase successiva della sua ciclopica esposizione, lascia a sé il lettore, assorto in meditazione sull'abisso che lo separa dai bei tempi passati (1919) in cui Lukács sosteneva con trionfante disinvoltura che un marxista che si rispetti può abbandonare perfettamente l'insieme delle tesi, delle analisi e delle prognosi di Marx, magari contraddette dal corso del mondo, senza essere costretto a rinunciare per un attimo alla sua ortodossia marxista., Un ciclo chiuso?
Non sembra questa la prima e più forte impressione suggerita dai “materiali” di Ruy Fausto. Non sono l'impalcatura di una “ricostruzione”? E in che modo questo sforzo, rinnovato in ogni generazione, differisce dal vecchio scopo lukacsiano di riesumare il "marxismo ortodosso"? Sono domande di vita breve e per ora oziose: conclusa l'apertura, si chiude il ventaglio delle grandi congetture sull'attuale smarrimento della cultura marxista e si passa all'agenda, dove ci attende il capitale delle analisi micrologiche, senza i quali i cosiddetti grandi temi non sono altro che chiacchiere.
Posizione e presupposto
Nell'ambito ristretto di questo breve resoconto, anche una semplice rassegna dei punti nevralgici attorno ai quali si articola l'opera (interversione e negazione, contraddizione e antinomia, giudizio di riflessione e inerenza, ecc.), tutti più o meno calamitati dal fondamentale distinzione tra “posizione” e “assunzione”, il cui movimento combinato è presente nelle più piccole cellule tematiche del libro e che, debitamente decantato, annuncia una “logica della contraddizione” capace di chiarire più di un mistero della dialettica. Il più illustre riguarda il nodo gordiano dell'“astrazione reale”, formula enigmatica che denota la presenza dell'universale nella realtà istituita dal modo di produzione capitalistico: Ruy Fausto lo scioglie secondo la lezione del marxista di lingua tedesca tradizione che risale ai primi saggi di Lukács.
Se ricordo questa affiliazione, è per descrivere meglio la manifesta simpatia dell'autore per le grandi macchine speculative messe in piedi dalla filosofia classica tedesca, un'affinità radicata nella convinzione che il materialismo della nuova dialettica, smantellandole, non solo illuminava le loro astruse meccanismo ma ne ha impresso uno nuovo, incoraggiamento alla tradizione di cui è venuto a compimento il ciclo. Prolungandola, Ruy Fausto passa anche a chiarire i punti sensibili dell'idealismo tedesco ricostruendo la cornice logica della critica dell'economia politica. Il nervo del libro passa attraverso questo incontro delle acque.
Non so se le analisi di Ruy Fausto commuoveranno allo stesso modo filosofi, economisti, epistemologi, ecc. o, più precisamente, il tipo intellettuale sui generis, oggi sull'orlo dell'estinzione grazie alla compartimentazione della conoscenza nelle società gestite, richiesta dalla lettura di La capitale. Posso solo assicurare – se posso rivendicare il mio status di professore di storia della filosofia – a quanti ancora si occupano di questa disciplina accademica, e in particolare ai lettori dei classici tedeschi, disposti a ricercare pazientemente la fonte formata dall'immenso rete delle loro microanalisi, che vi troveranno un filone prezioso – esplorato proprio dai filosofi tributari della suddetta tradizione – rappresentato da un ragionevole cast di similitudini materiche, tutte raccolte dalla realtà di fondo del nuovo ordine capitalistico, da le tenui e lontane strutture logiche armate di “idealismo”, facendo capire, ancora una volta, che quest'ultimo aveva i piedi per terra, più esattamente, che quest'ultimo aveva i piedi per terra, più precisamente, sul terreno storico di nascente società borghese. Un'opera di storia della filosofia? Solo circostanziatamente; infatti un libro formato nella tua scuola; come, lo vedremo più avanti.
Un libro insolito, un invito all'equivoco, cosa vuole il suo autore? Non così tanto. È vero che due anime lo animano: una è convinta dell'insufficienza del marxismo, mentre l'altra, recalcitrante, pubblica saggi scritti dal punto di vista marxista classico, che peraltro si tratta ancora di raggiungere. Contraddizione in questa doppia prospettiva? Non ancora, con o senza virgolette, perché manca il secondo termine, cioè i volumi promessi – per ora giustapposizione, chissà che venga una bella “contraddizione”, quando esposizione e critica si fondono in un unico discorso. Un progetto bifrontale, dunque, di cui l'unico volto finora visibile presenta una fisionomia familiare. Un Marx fino ad allora sconosciuto districato dai testi finalmente letti con gli occhi della dialettica ricostruita. Conosciamo la nobile tensione di questa ambizione.
Ancora una volta, direbbe Bento Prado Jr., siamo di fronte a un autore convinto che il marxismo non abbia la filosofia che merita: così come Sartre ha voluto dare un fondamento esistenziale al pensiero di Marx, Althusser, per fondarlo su solidi fondamenti epistemologici, quest'ultimo Lukács, proponendo un'ontologia dell'essere sociale, Habermas, riconducendolo alla rinnovata tradizione della Ragion pratica, Ruy Fausto, potremmo aggiungere, cerca di restituirlo in una nuova chiave “logica”, senza embargo avvalendosi di esso per meglio aprirti il doppio fondo,. Qual è il motivo di tanta e tanta insistente ambizione, tanto più sorprendente in quanto lo stesso Marx dedicò rare righe e scarsi minuti di attenzione (molto meno di Descartes alla Metafisica) a un simile argomento?
Non saprei dirlo con precisione in poche parole, e nemmeno in molte. In ogni caso, mi sembra difficile non cadere in tentazione e smettere di accettare l'astuto suggerimento di Gérard Lebrun, che chiedeva al mio amico e maestro Ruy Fausto perché tanta e così lunga applicazione nella “caccia al vero Marx” (dal suo la cura non è puramente filologica): risponderà, immagina Lebrun, non so se indotto anche dalla sua esperienza brasiliana, che “Marx rimane un continente inesplorato, di cui tu non sai nulla. E, per costruirlo, ti concederà il primato della sua ultima scoperta. Ti dirà sotto quale inedita luce ontologica le leggi della formazione del plusvalore assumono finalmente il loro vero significato... Sii caritatevole ed evita di interrompere il tuo amico: pensa che 'Marx' è, per lui, il nome di un mito che lo consola dal marxismo esistenti". Trasmetto la puntata, con i soliti avvertimenti.
D'altra parte, non è difficile identificare il genere a cui appartengono i “materiali” di Ruy Fausto. Quando Lukács dichiarò con la facilità che si vide che il marxismo sarebbe sopravvissuto a tutte le smentite che l'esperienza gli inflisse, poiché la sua verità non si limitava alle tesi che poteva sostenere, ma risiedeva nel metodo originario che le aveva generate, era in fatto che registra la fine di un periodo, durante il quale la teoria, come nei tempi della sua cristallizzazione, si mostrò ancora capace di espandersi, inglobando nuovi oggetti, quali “imperialismo”, “capitale finanziario”, ecc.
È ben vero che questo inventivo prendere il volo vicino al suolo dei nuovi antagonismi fatti “ciondolo” una certa rigidità dottrinale che si alimentava della filosofia un po' sommaria professata nelle prefazioni e nelle introduzioni delle opere classiche e il cui originario intento polemico si era affievolito nel tempo. Sappiamo come Lukács abbia voltato le spalle a quel dogmatismo arcaico e il prezzo che ha pagato per riconnettersi con ciò che c'era di meglio nella cultura filosofica dei tempi moderni. Ma spostando il baricentro del pensiero di Marx dalle tesi al metodo, Lukács annunciava anche un nuovo ciclo della cultura marxista, quello del cosiddetto "marxismo occidentale", da cui Storia e coscienza di classe sarebbe il primo classico.
Da allora, il marxismo la cui esistenza gli intellettuali marxisti non hanno bisogno di consolazione è diventato un interminabile “Discorso sul metodo”, instancabilmente occupato con quello di Marx, chiudendo il circuito autoreferenziale della bassa marea. Allo stesso tempo, le analisi sul reale e disastroso corso del mondo si affievolirono – infatti, il marxismo sembrò invecchiare, motivo in più per scrutarne il metodo, restaurando la sua sfigurata ortodossia. (Il fenomeno è stato recentemente studiato da Perry Anderson, le cui ragioni a volte molto rapide non abbiamo bisogno di seguire). Comunque sia, una tale ossessione metodologica non è una mera questione di gusto o una semplice svolta filosofica, ma riflette piuttosto un'atmosfera storica il cui peso e natura restano da determinare.
Inutile ricordare che Ruy Fausto tutto questo lo sa meglio di me. Tra tante altre cose, sa perfettamente che il marxismo è soprattutto una teoria critica della società capitalista e non una filosofia della storia o qualcosa del genere – almeno non dovrebbe esserlo: eppure, non appena pronunciamo questa pia voto, ritorniamo attraverso la porta sul retro nel labirinto dei marxismi immaginari. Tuttavia, la sua incessante ricerca dell'ignoto Marx – più precisamente, dei fondamenti logici della critica dell'economia politica – è ancora una questione di metodo. Quello che rimane per ora il volto nascosto dei suoi “materiali”, il momento post-marxista della sua ricostruzione della dialettica: in esso Marx tornerà certamente alla ribalta, ma ora come nome, non di entità simbolica, che non è mai nel luogo in cui lo cerchiamo, ma di una formidabile costellazione storica attraversata dai più disparati e intrecciati processi sociali e movimenti di idee, tra cui la singolare avventura in corso del nostro marxismo filosofico, di cui il libro di Ruy Fausto è un episodio notevole.
Le origini del rigore
Questo capitolo brasiliano sul “marxismo occidentale” è un tipico lavoro di saggi filosofici di San Paolo. Alcuni segni caratteristici: la sua lingua originale è il francese; anche i suoi interlocutori immediati sono (Althusser, Castoriadis, ecc.), anche se le sue preferenze sono tedesche (Lukács, Adorno, ecc.); il suo autore legge La capitale, mutatis mutandis, come ha letto Victor Goldschmidt (di cui era allievo). dialoghi di Platone; uno zelo appassionato per il momento “tecnico” dei problemi filosofici e la conseguente fiducia nel lavoro formichiere dello specialista; un'idea alta della filosofia come “discorso rigoroso” – insomma, figlio legittimo e precoce del defunto Dipartimento di Filosofia di Rua Maria Antônia.
In esso, credendosi vittima di una piacevole allucinazione, Michel Foucault credette una volta di intravedere un “dipartimento francese d'oltremare”, trapiantato qui da successivi filosofi francesi in missione. Non ha senso riaprire a lungo il discorso sulla dipendenza culturale, di cui la nostra vita filosofica locale è parte integrante. Né mi riferii a dettagli della sua breve storia nel timido intento di ridurre a proporzioni municipali il libro di Ruy Fausto, ma per il governo del lettore interessato alla cronaca delle idee filosofiche e che non disdegna di considerarle nella loro rifrazione locale, avvertendolo anche che senza tener conto di questa dimensione si perde forse la parte migliore della reale portata dell'opera, che è quella di un libro nato classico e con l'aspetto precoce di un documento storico.
Così istruito, il lettore potrà forse apprezzare più lentamente la meticolosa cronaca, che troverà nei "materiali" di Ruy Fausto, di una delle ultime grandi sorprese dell'ideologia francese, l'althusserianesimo, secondo l'autore un rigoroso tentativo di si pensi al marxismo – è proprio vero che “dalle categorie della comprensione” –, che fino ad oggi non è stato confutato. Nel suo leggero accento, la parola rigore dice quasi tutto. Ancora una volta: l'evocazione del colore locale soffrirebbe di inguaribile miopia, se intendesse trionfare senza fatica mettendo in luce qualche tratto più godibile della nostra condizione di stranieri.
L'ideale del rigore permeava il mucchio di nuove idee all'ombra delle quali tutti noi siamo stati creati. Al tempo dei fondatori, Mário de Andrade lo salutò, lodando le “scuole che avevano il buon senso di cercare insegnanti stranieri o anche brasiliani istruiti in altre terre”, che prima o poi avrebbero portato a un notevole miglioramento della “intelligenza tecnica” e la conseguente formazione di una mentalità nemica alla “luminosità della divinazione”. Subito dopo, João Cruz Costa lo sostenne, riconoscendo nell'insegnamento “tecnico” della filosofia un efficace antidoto contro il filoneismo e il curioso fenomeno che scaturisce dalle esplosioni filosofiche che periodicamente ci affliggono.
Non sarà troppo chiedere agli animi più delicati e forse inquieti di fronte all'ossessione dell'autore per l'idea di rigore, che di fatto culmina in una certa concezione della dialettica"come forza Wissenschaft” (Ruy Fausto non parla letteralmente di una “scienza rigorosa”, ma sostenendo con tutte le lettere che è necessario e possibile ricostruire la dialettica “come teoria rigorosa”, ci autorizza ad alludere di sfuggita, senza alcuna intenzione di “rigore filologico”, a una famiglia filosofica abbastanza elastica da accogliere Platone e Husserl), che non perdono di vista l'orizzonte suggerito da quella sommaria genealogia qualora decidano di mettere alla prova la nozione faustiana di “precisione” in filosofia . Ciò detto, sembrerebbe meno arbitrario affermare che la vecchia, fissa ma indispensabile idea di rigore abbia presieduto alla recezione bidirezionale dell'althusserianesimo: dalla parte dell'“intelligenza tecnica” potrebbe addirittura accelerare lo scoppio di un'ideologia la cui lo stile parlava alla sensibilità formata nella stessa scuola, controcorrente, un invito alla sobrietà ideologica e al confronto tra pari.
Tra parentesi: va da sé che mi riferisco solo all'ambito ristretto della nostra cultura filosofica minoritaria e ristretta, dove contava molto il filtro del rigore; tuttavia, quando si pensi alla moda locale dell'althusserianesimo nella seconda metà degli anni Sessanta, non si può prescindere dal peso inatteso e paradossale dello studio accademico degli scritti di Marx, intensificato dalla suddetta moda, anch'essa di natura “scientifica” – in le parole di un osservatore dell'epoca: “Usciti dall'aula, i militanti difesero il rigore marxista contro gli impegni dei loro dirigenti”.
Tornando al nostro autore: questo attaccamento, per così dire, intriso delle esigenze filosofiche del rigore, spiega in misura ragionevole la strana tenerezza di Ruy Fausto per un avversario che non manca un solo istante di mettere alle corde una resa dei conti in parte un frutto delle manie della vittima, sulla quale esita a gettare l'ultima pala di calce. La principale, come è noto, è quella dell'epistemologia (di tradizione francese). Ruy Fausto preferisce una denominazione correlata – “logica” – e specificando che il tentativo di Althusser è avvenuto all'interno della logica, “perché si tratta di logica e nient'altro”, getta ulteriore luce sul contenuto del titolo stesso della sua opera. Qualunque sia il nome che gli è stato dato, un forte tratto stilistico che è venuto a trovare tra noi, per così dire, il soggetto che lo cercava come se ci fosse nato dentro.
Un marxista dall'orientamento ancora indefinito che ha iniziato a filosofare, negli anni Cinquanta e Sessanta, secondo il ritmo ritmato della disciplina filologica che poco a poco si è radicata nel nostro piccolo ghetto filosofico, prima o poi tornerà sui suoi passi il suo racconto lo porterebbe al "marxismo occidentale" così succintamente presentato nelle righe precedenti. Il vecchio saggismo languiva, l'attuale proliferazione di stili (o la sua mancanza) non aveva ancora prevalso: prevaleva un certo gusto intellettuale formatosi nell'esercizio regolare di un tipo di storiografia filosofica che disdegnava la discussione dottrinale dei grandi sistemi - imperdonabile mancanza di tatto – a favore dell'esame microscopico delle strutture argomentative che le ordinano.
Una sorta di moralità intellettuale provvisoria: la filosofia stessa verrebbe con il tempo, una volta terminati gli anni di apprendistato, ma fa parte dello spirito della cosa che questo periodo di transizione duri per sempre. (Non credo che la lunga e meditata maturazione degli scritti di Ruy Fausto – non a caso “materiali” per un edificio che verrà – non abbia niente a che fare con la circostanza che ho appena ricordato). Insomma, tra l'altro, un provvedimento propedeutico di indiscutibile saggezza che era arrivato nella nostra terra in mezzo alla filosofia universitaria francese dell'epoca. E anche di indiscutibile opportunità.
In poche parole: conveniva a quella disciplina per così dire profilattica – il male da prevenire si chiamava dogmatismo – stabilire un vuoto storico attorno ai testi da spiegare. Una violenza che lo stato degli studi filosofici in Francia forse giustificava, fermo restando di elevarla poi allo status di principio. Ora, in Brasile, questo proposito ha cambiato direzione ed è venuto naturalmente a dare forma e cittadinanza metodologica al breve respiro della nostra vita speculativa: qui i sistemi filosofici non hanno mai cessato di aleggiare in un relativo vuoto ideologico, “foglie smarrite nel tumulto della nostra indifferenza” – malformazione della nostra ingegnosità filosofica che la triste notizia è stata ascoltata fin dai tempi di Sylvio Romero. Un "vantaggio di ritardo" su misura in realtà; eravamo guéroultiani senza saperlo. Di fronte a tanti castelli di idee senza apparente connessione sociale, abbiamo spontaneamente sospeso il giudizio sul loro contenuto di verità, concentrandoci invece sulla loro architettura interna, se non sulla loro facciata.
Ancora poche parole su un argomento che ne richiederebbe un buon numero, in fondo un punto di fuga della nostra formazione. Tra i vari motti che potrebbero comparire sul portico della nostra Accademia di interesse locale, uno dei più in linea con lo spirito che in essa prevaleva e sopravvive ancora qualche più riluttante a liberarsi di quella seconda natura, sarebbe il seguente: di teoria". La frase è di Kant e le ragioni che permettono di decifrare in essa l'idea normativa del genere che più assiduamente abbiamo coltivato – la storia della filosofia – sono esposte nel libro di Gérard Lebrun , – una delle bibbie della generazione di epigoni a cui appartengo – un commento alla terza Critica kantiana che sembrava nobilitare il ceppo della nostra opera un po' grigia.
Più che guéroultiani di seconda mano, siamo stati lontani eredi della rivoluzione kantiana che ha liberato il discorso filosofico dal fardello della rappresentazione. Una consacrazione obliqua, in stile elevato, di quanto accadeva in modo umile nella nostra quotidianità ideologica: la mancanza di un soggetto elevato alla dignità dell'autonomia discorsiva e presentato come rinuncia volontariamente conquistata alla descrizione degli oggetti ; la nostra indifferenza dogmata che qui hanno perso piede, trasformandosi con naturalezza in un attaccamento esclusivo all'architettura delle idee senza territorio; una liberazione dello sguardo che di fatto non portava a nulla, alla disperazione degli spiriti religiosi che abbondavano fuori le mura, se non per la passione predominante per le filosofie “non figurative”, che non “rigorosamente parlano di niente”. Ancora una volta rigore e precisione, ma senza alcuna intenzione di scienza, accomodati al felice nichilismo in cui si risolve l'indifferentismo del timido ambiente.
Come restiamo? Se non erro in grado di rintracciare la rinascita locale del "marxismo occidentale". La costante oscillazione della tradizione marxista tra teoria e critica potrebbe trovare, come del resto ha trovato, un inatteso alleato in questo singolare stato d'animo. Ancora una volta abbrevierò e arrischierò a indovinare. È difficile concepire un Marx completamente alienato dal nuovo binario su cui la rivoluzione copernicana ha posto la moderna prosa filosofica. Tuttavia, solo un esame più attento e meno convenzionale dell'evoluzione complessiva dell'ideologia tedesca potrebbe rilevare discrepanze e affinità lungo la curva a zig-zag dove teoria e critica, scienza e riflessione, dottrina tradizionale e "attività critico-pratica", ecc. si alternano in contrappunto . In ogni caso, il minimo che si possa dire è che Lukács, convertendo il nerbo del marxismo in una questione di metodo, lo collegò, dopo un lungo letargo, al ramo inaugurato dalla “Critica”, agli occhi del suo autore, un “trattato di metodo” – come se qualcosa di analogo al ribaltamento kantiano avesse superato il marxismo più di un secolo dopo, ravvivando, nel bene e nel male, i legami familiari con la modernità filosofica.
In ogni caso, il “marxismo occidentale”, per le ragioni più diverse e disparate, si è confuso con questo graduale assorbimento della teoria da parte del metodo, destino prefigurato dalla metamorfosi kantiana del gesto filosofico per eccellenza in una questione di metodo, in cui il questi ultimi sostituirono la conoscenza positiva la cui istituzione avrebbe dovuto promuovere. Difficile riflettere su quale tipo di miraggio ci sia – arti del demone dell'analogia – in questa convergenza, chissà, solo formale. So anche che critica, metodo e logica non sono esattamente la stessa cosa, sebbene si equivalgano a seconda del contesto, anche perché le ultime due possono distillare una teoria di secondo grado altrettanto allergica alla libera riflessione richiesta dalla prima. E così via.
“Metodologia ossessiva”
Comunque sia, una volta catturata la tradizione del “marxismo occidentale” attraverso il prisma della sua caratteristica più saliente, particolarmente visibile dal nostro punto di vista locale – la “metodologia ossessiva” di cui si parlava, allo stesso tempo eclissi di teoria come discorso razionale su un particolare dominio dei fenomeni, elevandolo al quadrato, evaporando per effetto dell'oggetto reale –, non c'era modo di annullare l'impressione che ci trovassimo di fronte a una “mania” metodologica tra le altre, in ogni modo simile a quello che Lebrun ci insegnerà poi ad apprezzare nel lignaggio dei post-kantiani. L'analogia – o illusione ottica – derivava dallo stesso insolito insieme di circostanze che radicarono quest'ultima tradizione in mezzo a noi sotto forma di una semplice disciplina storiografica.
In parole povere: quello che in Europa era stato forse l'esito obliquo e problematico del riflusso della Rivoluzione, è riapparso tra noi, con la semplice naturalezza che si diceva, sullo sfondo del nostro permanente arretramento tattico verso le difficoltà di metodo – o di spiegazione di concetti – che un tempo era il marchio di fabbrica del più remoto e illustre mecenate dei nostri studi accademici. Bastava leggere i testi con criterio e sentimento per ritrovare e rinnovare i grandi temi del “marxismo occidentale”. Se è così, lo stupore di Gérard Lebrun, correlato alla maliziosa osservazione di cui sopra, è sorprendente di fronte al vuoto storico in cui gravita una parte considerevole della nostra “intellighenzia” marxista: “leggono e rileggono i classici del marxismo, scrutare al massimo la teoria del valore…”.
Lo noto a maggior ragione quando lo stesso Lebrun, già negli anni Sessanta e per alcune ragioni che abbiamo già imparato a riconoscere, individuava nei libri di Althusser recentemente pubblicati ciò che vi era di più “innovativo e rigoroso” (di nuovo…) nella letteratura marxologica contemporanea, per concludere con un esplicito omaggio al nostro “marxismo occidentale”, indicando la fonte di tanta innovazione e rigore: “in Francia come in Brasile si è convenuto di studiare Marx nel modo in cui Guéroult commenta Cartesio”.
Detto ciò, torniamo, non senza tempo, al nostro autore. Alla sensibilità filosofica che si è formata nelle circostanze appena accennate, schematizzando all'estremo e altrettanto congetturando, è tornata utile la versione althusseriana del “marxismo occidentale”, anche se se ne potrebbero rigettare una per una tutte le sue tesi – e come se si visto, non era quello che contava di più. Prima di tutto è stato un “studioso”, per quanto sapientemente amalgamato con l'impegno militante, preziosa barricata nei momenti di frangente speculativo; inoltre, di carattere filosofico predominante e secondo il modello francese di spiegazione del testo; non a caso il tonico cadde sull'ostensivo apprezzamento per la costruzione di concetti, come si diceva all'epoca, che l'alta marea della tendenza epistemologica imperante lo elevò allo status di reperto scientifico. Una manovra in tutto e per tutto rispettabile, che Ruy Fausto si rifiuta di considerare superata.
Ricorro ancora una volta alla rivelatrice testimonianza di Gérard Lebrun: negli anni grigi in cui il comunismo francese non incoraggiava molto ardentemente i suoi militanti a leggere La capitale, l'althusserianesimo giunse finalmente a soddisfare la domanda intellettuale di una generazione stanca di conoscere Marx per sentito dire - "per questa sola ragione, nessuna moda era stimabile come quella". (Né si sentiva così a suo agio segregato nelle "tasche intellettuali" dell'università, dove, secondo EP Thompson, si svolge il dramma della "pratica teorica".) Althusser non dovette sacrificare nessuna delle sue convinzioni marxiste-leniniste, ricorda Lebrun, «l'importante era che intendesse fondarli apoditicamente», intronizzando il dogma entro i «limiti della ragione semplice» – della «comprensione», avrebbe bisogno di Ruy Fausto, una correzione che conserva, però, lo stesso progetto di « ritorno alla cosa stessa” ”, cioè al “testo”, ripartendo dal punto di partenza. Ritornando: la sopracitata peculiarità della nostra vita filosofica offriva questo compenso non trascurabile: si poteva essere althusseriani, o antialthusseriani, senza filoneismo o pedanteria, bastava seguire i costumi di casa.
Nessuno è meno impermeabile all'esperienza di Ruy Fausto, te lo posso assicurare – un'altra pugnalata lebruniana forse ispirata dalle idiosincrasie del marxismo locale. Per quanto riguarda le questioni più diverse e intricate, è solito filosofare con la massima libertà di schemi e formule "prêt-à-porter”, raccogliendo i problemi, con impareggiabile verve e competenza, nella loro giusta misura storica. Un saggista nato, verrebbe da dire, ascoltandolo – oltre ad essere una delle persone più divertenti che conosca. I tuoi amici sanno che non esagero. Temo, però, che i suoi scritti non rispecchino fedelmente la personalità intellettuale dell'autore. Miseria della teoria? (Così si esprime EP Thompson a proposito della vera gaffe commessa dall'althusserianesimo in Inghilterra, contrariamente a quanto avvenuto qui). Ma non farebbe sentire i suoi effetti se Ruy Fausto non si lasciasse contagiare dal discorso althusseriano – come si è scoperto, una certa promiscuità più ampia dalla nascita e dal tempo – manifestata nel gusto per l'evaporazione logica delle nozioni e dei problemi (a partire con il fenomeno Althusser, qualcosa di più di un fatto logico) che anche il semplice buon senso (in cui, per inciso, Hegel, è sempre bene ricordarlo, vedeva l'embrione della dialettica) consiglierebbe di non strapparlo dal suo originario terreno storico – Penso, tra l'altro, nel trattamento “logico” riservato allo stalinismo, in un momento ammorbidito in un'intervista recentemente concessa dall'autore, dove finalmente nomina il pane.
(Non è che ignorasse la natura bruta dello stalinismo e delle società burocratiche d'Oriente, anzi, quando scrisse le pagine a cui mi riferisco; accade che il modo “logico” di Althusser abbia contribuito a sfigurare il fenomeno in domanda, presentata come un passo falso, uno scivolamento fuori dalla dialettica… – e non manca chi sostiene che la cosiddetta “maniera” avesse proprio questo scopo). Sono sfere di esperienza che non fanno sistema, una discrepanza forse da attribuire alla formazione piuttosto squilibrata della nostra isolata cultura filosofica. Gérard Lebrun dichiara di essere attualmente impressionato dall'astrazione di cui soffre la maggior parte del discorso marxista brasiliano. Non dico di no, ma per quanto riguarda il marxismo filosofico di San Paolo, che conosco più da vicino, è chiaro che da ex studente di un istituto che lo ha visto nascere, le ricordo ancora una volta che il vuoto storico che impressiona si continua tanto, per vie indubbiamente inattese, alla buona novella dell'“autonomia del discorso filosofico”, annunciata, come dicevo, dai successivi filosofi francesi in missione.
Raggiungere lo stato scientifico
Lascio ai miei anziani decidere se, nella brevissima genealogia del genere a cui appartiene il libro di Ruy Fausto, sia conveniente attribuire un pari carico genetico al mitico “seminario marxista”, che conosco solo per sentito dire . "Alla fine degli anni Cinquanta, un gruppo di assistenti dell'Università di San Paolo e studenti più maturi intellettualmente si dedicarono al noioso compito di leggere per anni quell'opus magnum nella sua interezza", cioè, La capitale. Queste le parole di un veterano del suddetto seminario, da cui si evince l'esistenza di un fenomeno analogo a quanto avvenuto nel nostro “dipartimento francese d'oltremare”: si leggeva La capitale, per così dire ante litteram. Spirito del tempo? Idiosincrasia nazionale? Gérard Lebrun sembra propendere in quest'ultima direzione, arrivando a dire, ricordando la miseria del marxismo francese in quegli stessi anni di stalinismo trionfante, che dovette attendere il suo primo soggiorno in Brasile, dal 1960 in poi, per frequentare seminari sulla La capitale.
Queste sono differenze di fuso orario da considerare. Quando la moda althusseriana arrivò a San Paolo, si imbatté in un gruppo refrattario che aveva già raggiunto la maggiore età, è vero a spese di Lukács (il cui Storia e coscienza di classe era appena stato tradotto in francese), Sartre, ecc.: cioè era stato preceduto, e poi superato, da un'altra, composita, casalinga variante del "marxismo occidentale". Tuttavia, convergevano su più di un aspetto, a cominciare dal più saliente di essi, sempre una questione di metodo. Sia in Francia che in Brasile, soprattutto, si trattava di conquistare la rispettabilità scientifica del marxismo con i mandarini della cultura universitaria, dimostrando attraverso fortunati lavori accademici che il “metodo dialettico si sostiene come alternativa del sapere”.
Per farlo – e ora restituiamo la parola a Ruy Fausto – toccò al marxismo filosofico, discorso materialista sul metodo, dimostrare che “la logica dialettica non è solo una 'cosa interessante', come tutti sono concordi nel dire con indulgente modo, ma anche una cosa rigorosa”. Roberto Schwarz, come sempre con un occhio alla commedia ideologica nazionale, una volta notò che il marxismo tende ad essere invariabilmente sopraffatto dall'ultima diceria universitaria. Diciamo, tra l'altro, che il "marxismo occidentale" è il primo a contribuire a un'eclissi così intermittente, essa stessa una voce ricorrente (l'althusserianesimo è stato uno dei suoi ultimi focolai), un metodo che rivaleggia con gli altri.
Questa circostanza – in cui si esprime l'originalità del tipo di marxismo che ha rifatto nuova pelle in mezzo a noi – forse spiega in buona parte la preponderanza della speculazione filosofica nel famoso seminario. “Interessante”, osserva il cronista del balzo citato sopra, “è stato sulla base di interpretazioni non basate sull'economia e sulla storia, ma sulla filosofia, che abbiamo cercato elementi per un'analisi dialettica dei processi sociali reali”. Ma questo è già un altro capitolo del “marxismo occidentale” brasiliano.
Il capitolo filosofico preparatorio che abbiamo così rapidamente riassunto – e di cui il libro di Ruy Fausto ne è una testimonianza esemplare – ha avuto almeno il grande merito di togliere dal cammino di una seconda generazione di monografie classiche sul Brasile la nefasta barriera dell'antico dogmatismo, rappresentato in questo caso dal “materialismo dialettico”. In due parole più frivole: si è affinato il gusto filosofico dei futuri autori del nuovo ciclo di saggi. (Non è tutto, solo metà verità e segno sicuro di un problema più grande: si sa, ad esempio, che un'opera magistrale come Formazione del Brasile contemporaneo, il primo di una serie per riscoprire lo spirito e la lettera del pensiero marxista originario “basato su contraddizioni locali”, fu tuttavia accompagnato in trattati separati, e non solo per punto d'onore, da una cornice di carico dove prevaleva il primato. schemi, proprio come i marxisti russi di inizio secolo, riformulano da cima a fondo l'immagine del Paese all'ombra di una metafisica rudimentale capace di spaventare gli animi meno prevenuti.
Malformazione congenita? Mancata corrispondenza della data? Controprova, e variazione, del successo di Lukács nel distinguere il metodo dai suoi coaguli dottrinali? Sono questioni che riguardano direttamente la matrice storica della dialettica, ma che forse acquistano nuova luce se considerate dal punto di vista delle avventure brasiliane del marxismo). Apparentemente, l'età puramente negativa del marxismo filosofico locale è considerata chiusa, quando la critica era il luogotenente della teoria; si potrebbe temere che quando si passerà all'esposizione positiva della dialettica, come si annuncia, gli scivoli via la terra da sotto i piedi.
*Paulo Eduardo Arantes è professore in pensione presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di Formazione e decostruzione: una visita al Museo dell'ideologia francese (Editore 34).
Originariamente pubblicato nel taccuino feuilletonDi Folha de S. Paul, il 19 giugno 1983.
note:
[1] Cfr. Georg Lukacs. "Cos'è il marxismo ortodosso". In: Storia e coscienza di classe, P. 63-64. San Paolo, Martins Fontes, 2003.
[2] Cfr. Bento Prado jr. “Autoriflessione o interpretazione senza soggetto? Habermas interprete di Freud”. In: alcuni saggi, P. 13. Rio de Janeiro, Paz e Terra, 2000.
[3] Gérard Lebrun. Kant e la fine della metafisica. San Paolo, Martins Fontes, 2002.
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