Un equilibrio catastrofico

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da TADEU VALADARES*

Riflessioni sulla guerra di Israele contro il popolo palestinese.

“Il fatto che i nostri problemi siano in gran parte sistemici è, in un certo senso, motivo di disperazione, poiché può essere estremamente difficile cambiare i sistemi. Ma è anche motivo di speranza”. (Terry Eagleton, Speranza senza ottimismo, p. 180).

“Ogni persona che nasce al mondo rappresenta qualcosa di nuovo, qualcosa che non è mai esistito prima, qualcosa di originale e unico… Se ci fosse stata una persona come lei al mondo, non ci sarebbe stato bisogno che nascesse” (Martin Buber citato in Giovanni Diamante, Mezzi narrativi per finali sobri, p. 78).

“Il n'ya pas place de parler de réconciliation entre nous et les Arabes d'Eretz Israel, ni maintenant, ni dans un avenir proche”. (Vladimir Z. Jabotinsky, Le Mur de Fer, 1923).

“Dopo la formazione di un grande esercito sulla scia della fondazione dello Stato, aboliremo la spartizione e ci espanderemo all’intera Palestina” (Ben-Gurion. In: Simha Flapan, La nascita di Israele. P. 22).

“Se fermiamo la guerra adesso, prima che tutti i suoi obiettivi siano raggiunti, ciò significa che Israele avrà perso la guerra, e questo non lo permetteremo” (Benjamin Netanyahu. Intervista recente a CNN).

“…quando invece lo sforzo delle forze rivoluzionarie è insufficiente ad arrestare il potere, e in questo modo insufficiente è la forza della reazione a riassicurare il vechio potre, allora “avviene la reciproca distruzione delle forze in conflitto con l’insediamento delle forze rivoluzionarie” pace dei cimiteri, magari sotto la vigilanza di una sentinel extraniera”. (Massimo L. Salvadori citando Antonio Gramsci in Gramsci e il problema storico della democrazia, Einaudi, 1970, p. 138).

Cominciamo semplicemente registrando le notizie circolate questo lunedì, 18 marzo, riguardanti la guerra imposta più di cinque mesi fa dallo Stato di Israele al popolo palestinese di Gaza.

Haaretz, il più importante quotidiano israeliano, ha evidenziato che: (i) a Gaza la situazione è di carestia catastrofica. Il numero totale delle persone che soffrono la fame supera 1 milione e 100mila persone; (ii) Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha denunciato questo stato di cose con il cupo commento: “Questo è il numero più alto mai registrato di persone che affrontano una carestia catastrofica”. Da nessun'altra parte ciò è accaduto; in nessun altro momento, ha sottolineato Guterres; (iii) il Ministro degli Affari Esteri dell'Unione Europea, lo spagnolo Joseph Borrell, ha affermato, un tono più in basso sulla scala armonica, che “Israele sta causando la carestia a Gaza”; e (iv) la reazione del Ministero degli Esteri israeliano è stata tipica: “È ora che il Ministro Joseph Borrell smetta di attaccare Israele e riconosca il nostro diritto all’autodifesa contro i crimini di Hamas”.

Passiamo dal piano dichiarativo ai dati statistici che formano un insieme macabro: (a) dal 7 ottobre al 18 marzo, 31.726 palestinesi, 2/3 dei quali donne, bambini e anziani, sono morti a Gaza. Vite prese dalla macchina da guerra israeliana, uno scandalo che la Corte internazionale di giustizia, presentata con la denuncia del Sudafrica, ha accettato di esaminare per definire, a tempo debito, se la guerra contro la popolazione di Gaza è genocida o meno. Per ora la Corte, seguendo le regole procedurali, ha ammesso solo la plausibilità che il crimine di genocidio sia stato commesso da Israele.

(b) più di 7mila persone risultano disperse sotto le macerie; e il numero totale dei feriti – in stragrande maggioranza donne, bambini e anziani – ammontava, il 18, a quasi 74mila.

Fino a pochi giorni fa, quindi, la guerra imposta a Gaza ha ucciso 112.518 palestinesi. Queste cifre, che sono molto più che numeri (si pensi alla frase di Martin Buber), significano che ciascuna delle vittime, sia palestinesi che israeliane, è o è stato un mondo totalmente o parzialmente distrutto. A questa realtà statistica e buberiana dobbiamo aggiungere: dall’inizio della guerra israeliana, più di 400 palestinesi sono stati assassinati in Cisgiordania. Come se ciò non bastasse, il ministro della Sicurezza nazionale, Ben-Gvir, ha annunciato che dall'inizio delle operazioni a Gaza sono state rilasciate più di 100 autorizzazioni per l'acquisizione di armi. Pensiamo ai coloni israeliani in Cisgiordania e alla complicità permanente tra loro e le forze israeliane che dominano i territori occupati. Pensiamo a cosa ci dicono questo tipo di notizie sulla violenza coloniale che si verifica, anche se con minore intensità, anche nella Cisgiordania sotto occupazione.

Per completare il quadro: il 7 ottobre, combattenti di Hamas, della Jihad islamica e di altri piccoli gruppi anticoloniali resistono all’oppressione israeliana ricorrendo alla lotta armata – il diritto limite dei popoli colonizzati, riconosciuto appositamente dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 37 /43 – portarono a termine la loro più grande e importante operazione di insurrezione. Il risultato – spaventoso per tutti noi, ma particolarmente traumatico per lo Stato sionista, la società israeliana e le cosiddette forze di difesa – è stato la morte di 1.200 persone, tra civili e militari; feriti a più di 3.000; e la detenzione di un contingente di personale militare e civile che oggi, dopo gli scambi avvenuti durante il primo cessate il fuoco, si stima ammonti a 129 persone.

Questi dati ci dicono che il numero totale dei morti e dei feriti israeliani è di 4.329; che il numero totale di morti e feriti palestinesi ammonta a 112.518 persone; che il rapporto tra loro è di 26 morti o feriti palestinesi per ogni morte o ferito israeliano. Questo triste equilibrio evidenzia anche la brutale sproporzionalità della reazione di Israele agli attacchi dei gruppi armati che operano da Gaza. Guerra di persecuzione, guerra di punizione ed espulsione collettiva della popolazione con il pretesto di eliminare Hamas e altri gruppi armati, cosa apparentemente impossibile.

Passiamo alla notizia diffusa il 19 marzo da The Guardian, un giornale di riferimento che può essere considerato 'ciondolo'dall'israeliano Haaretz.

In quella data, il quotidiano britannico riferiva che le continue e significative restrizioni imposte dall’esercito israeliano all’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, sommate al modo implacabile con cui le forze sioniste continuano a condurre le loro operazioni di guerra, potrebbero essere il segnale dell’operazionalizzazione di una strategia centrata sull’imposizione della morte per fame. Il giornale parla di 'fame' e, con la tipica moderazione britannica, suggerisce che 'fame', in questo caso sembra trattarsi di un crimine di guerra.

Ancora secondo The Guardian, il Programma Alimentare Mondiale – la più grande agenzia umanitaria del pianeta – stima che almeno 300 camion carichi di cibo dovrebbero entrare ogni giorno nella Striscia di Gaza per soddisfare i bisogni immediati della popolazione affamata in modo molto precario. Il 17, nota il giornale, 18 camion hanno ricevuto l'autorizzazione della potenza occupante per entrare in quel territorio. Sappiamo, da coloro che ne sono informati, che la quota insufficiente di 300 camion al giorno viene soddisfatta solo raramente.

Altra notizia importante: l’idea, lanciata dagli Stati Uniti e da altri alleati e partner occidentali, di ripristinare l’Autorità Palestinese nella Striscia di Gaza, ha ricevuto una reazione immediata da Benjamin Netanyahu: “Portare l’Autorità Palestinese a Gaza significa portare un’entità impegnata a favore della distruzione dello Stato di Israele. Non c’è differenza tra il tuo obiettivo e quello di Hamas. È un ente che educa al terrorismo; che premia gli atti terroristici. L’ambizione dell’intera leadership palestinese, qualunque sia la sua forma, è l’eliminazione dei sionisti”.

È importante, in questo contesto, correlare le manifestazioni estremiste di Benjamin Netanyahu a partire dal 7 ottobre con i risultati dei sondaggi d'opinione condotti in Israele dopo l'inizio della guerra contro il popolo palestinese a Gaza. Un esempio forse è più che sufficiente.

Il 21 febbraio, più di quattro mesi dopo la guerra dichiarata da Tel Aviv, l'Israel Democracy Institute ha effettuato un sondaggio d'opinione che ha permesso di rilevare quanto segue: il 63% degli ebrei israeliani è contrario alla creazione di uno Stato palestinese. Ciò, ovviamente, dà la misura del rifiuto della grande massa della popolazione ebraica di Israele alla “soluzione dei due Stati”, idea che, lanciata 87 anni fa (Rapporto Peel, 1937), fu adottata dall’ONU quando riconobbe lo Stato di Israele nel 1948 e la spartizione della Palestina storica. Nel lungo percorso che avrebbe portato alla creazione di due Stati, il massimo raggiunto è stato iscritto nei falliti processi di Oslo I e II (1993 e 1995). L’idea di creare due Stati, quando l’area inizialmente destinata a sancire la territorialità palestinese divenne un insieme di bantustan, torna a galla dopo il suo evidente naufragio. L'immaginazione creativa di politici e diplomatici si riduceva a sforzi retorici.

Secondo lo stesso sondaggio, il 71% degli intervistati ritiene che l'eventuale creazione di uno Stato palestinese manterrebbe o aumenterebbe il "terrorismo"; Il 51% degli intervistati ritiene improbabile una vittoria completa delle forze israeliane nella guerra iniziata da Israele il 7 ottobre; ma lo scorso febbraio il 75% dei cittadini ebrei israeliani (il parere degli 'arabi israeliani', cittadini di second'ordine, è naturalmente diverso) ha approvato la prevista operazione militare contro Rafah, il piccolissimo territorio in cui si concentravano, per sfuggire al massacro iniziato in ottobre più di 1.5 milioni di palestinesi. Questo, in termini generali, è lo “stato d’animo” non-sionista-buberiano che anima da tempo la stragrande maggioranza dei cittadini israeliani.

Alla luce di questi dati, e della fiducia nell’uso della forza cieca che questo “stato d’animo” conferma, è necessario registrare: (1) la guerra genocida contro la popolazione di Gaza – anche se in termini legali rimane in vigore il limbo del verosimile, insieme a Soderini e ai nascituri – ha tutto per durare molto più a lungo di quanto noi, tutti inorriditi, possiamo immaginare; (2) questa è una guerra già persa da Israele su almeno due fronti: la battaglia per i cuori e le menti della cosiddetta “opinione pubblica mondiale” e la mobilitazione nelle strade da parte di movimenti sociali, partiti, sindacati e altro, critico nei confronti dello Stato sionista.

La battaglia per conquistare “l'opinione pubblica globale” coinvolge la sua frazione occidentale, di fatto l'unica veramente importante per Israele. Tale battaglia sembra persa per lo Stato sionista, nonostante tutti gli sforzi di coloro, sionisti o meno, che sostengono la guerra. Sul secondo fronte, di carattere complementare-operativo'vis-à-visIl primo, l'insieme dei movimenti contro la guerra e le pratiche militari di Israele, mostra segni di vittoria anche nelle strade.

In altre parole, la dinamica delle mobilitazioni a favore di Israele, in contrapposizione a quelle che ne chiedono la condanna politica, etica e morale, insieme all’immediata cessazione della guerra, acquista forza, spazio e pubblico mentre la barbarie continua a prevalere a Gaza. Le argomentazioni sioniste, non senza ragione, perdono peso alla luce della realtà segnata dai massacri quotidiani ampiamente diffusi in vari media. Alla fine e nel lungo termine, il sostegno popolare alla Palestina, a Gaza e in Cisgiordania avrà un peso decisivo. Per ora, isola ulteriormente lo stato sionista e i governi e i movimenti che lo sostengono.

Anche sul piano simbolico, sempre così difficile da concettualizzare con precisione, è facile constatare: il mito della democrazia israeliana scompare, nello stesso tempo in cui si afferma una visione opposta, che intende lo Stato sionista come l’incarnazione di uno dei ultime espressioni storiche del colonialismo dei coloni europei, nel caso di Israele aggravato, come in Sud Africa"boero', a causa della dimensione dell'apartheid legata all'origine etnica.

Insomma, nella lotta ideologica Israele non ha più i mezzi per contrastare efficacemente le critiche di fondo sia politico che etico e morale. Ciò si sta verificando, con intensità e ritmi diversi, sia negli Usa che in Canada, Regno Unito, Irlanda, Europa continentale, Australia e Nuova Zelanda. In alcuni di questi paesi e regioni, la sconfitta 'in fiericomincia a diventare chiaro. In altri, è ancora nella fase di accumulo delle forze. In ogni caso, il vettore finale sembra ormai stabilito: il futuro appare estremamente negativo per Israele. Questa tendenza generale si applica con forza ancora maggiore, ovviamente, a tutto il mondo arabo, a tutto il mondo islamico, ai paesi in cui le minoranze musulmane sono importanti. In questo contesto pensiamo soprattutto all’Africa. Ma questo stesso movimento, sebbene relativamente molto meno potente, è presente anche in America Latina.

Nonostante ciò, e malgrado i primi “segnali di insoddisfazione” emessi nelle ultime settimane dai leader occidentali (Biden, Borrell, Macron, ecc.), il “crescendo” della mobilitazione popolare non si è infatti nemmeno lontanamente avvicinato ai suoi principali obiettivi: la cessazione della guerra e la creazione della straordinaria possibilità di stabilire la pace. La questione è così difficile che finora non è stato raggiunto nemmeno un ipotetico secondo cessate il fuoco della durata di sei settimane, misura che di fatto non risolve nulla. Anche se dovesse realizzarsi, l’adozione della misura di per sé non risolve nulla, ferma solo il massacro.

Sul piano strettamente giuridico, il processo aperto dal Sudafrica presso la Corte internazionale di giustizia porterà molto probabilmente, tra 2, 3, 4 anni o più, alla condanna di Israele per il crimine di genocidio. Ma sul piano strettamente giuridico il delitto continua a non essere un reato, il genocidio non è altro che un’ipotesi plausibile. Sul piano della realtà quotidiana, invece, il plausibile si è già trasformato, data la brutalità dei fatti, in un aperto genocidio.

Passiamo ad un altro livello di analisi.

Nel testo precedente, pubblicato sul sito web la terra è rotonda Meno di due settimane fa, ho usato come epigrafe un'altra frase di Vladimir Jabotinsky, il più importante, il più chiaro e il più duro formulatore di una variante specifica del sionismo, revisionista, agli antipodi del sionismo filosofico in una difesa molto idealista, umanista, etica, culturale e morale di Buber e Scholem.

La variante revisionista del sionismo, nella sua durezza e purezza, divenne progressivamente più forte nella Palestina storica e poi nello Stato di Israele. Ma la conquista del primato ideologico fu lenta, poiché il sionismo revisionista fu in minoranza dagli anni ‘20 almeno fino alla guerra del 1967. Da allora in poi crebbe molto, anche se raggiunse il potere esecutivo solo dieci anni dopo, quando Menachem Begin, un Sionista revisionista storico, divenne primo ministro.

Per Vladimir Jabotinsky – le cui idee strategicamente decisive furono elaborate in un breve testo, datato 1923 e intitolato Il Muro di Ferro – un accordo tra gli ebrei in Eretz Israel e il popolo arabo(Jabotinsky non riconosceva un popolo palestinese, ma solo il popolo o la nazione araba) non era pressante. Al contrario, dovrebbe essere evitato a tutti i costi. La priorità era costruire il Muro di Ferro – sinonimo di forza militare e capacità strategica senza pari – capace di imporre la volontà sionista di potere al popolo arabo, cioè al popolo arabo in Eretz Israel e al resto della nazione araba circostante. Essenziale: il Muro dovrebbe essere così forte da rendere impossibile qualsiasi minaccia o anche solo influenza araba. Solo allora, per Vladimir Jabotinsky, un accordo tra i due popoli sarebbe stato possibile e necessario. Solo quando i rapporti di forza fossero diventati completamente favorevoli al popolo ebraico, solo quando la spina dorsale della resistenza del popolo arabo fosse stata definitivamente spezzata, la parte sionista sarebbe stata disposta a “negoziare la pace” effettivamente.

In altre parole, l’idea fondamentale – il Muro di Ferro come metafora – era quella di rafforzare il più possibile Israele in termini strategico-militari interni, mentre, sul piano esterno, i sionisti avrebbero costruito alleanze pragmatiche con l’una o l’altra delle grandi potenze. Potenze occidentali con interessi geopolitici permanenti, di carattere coloniale, in Medio Oriente. Quindi, se pensiamo a Machiavelli, in un certo modo ci sarebbe un felice incontro tra 'virtù' (il muro interno) con 'fortuna(alleanze pragmatiche che rafforzarono, a un livello geopolitico più ampio, il dominio sionista). In questo modo la popolazione ebraica della Palestina degli anni '1920 e il futuro Stato di Israele sarebbero in grado di imporre finalmente un “accordo” tra una parte immensamente forte e una parte praticamente indifesa.

Vladimir Jabotinsky, riconosciuto dall'estrema destra sionista come il loro 'maître faleur', è il fondatore del sionismo revisionista, ma fu anche uno dei creatori dell'Hagannah nel 1920. Questa linea di sionismo combatteva tutte le altre, ad eccezione del 'sionismo politico' di Herz e seguaci. Nel corso dei decenni, il sionismo revisionista lottò aspramente contro gli altri esponenti del proprio arco ideologico, dagli umanisti a Buber fino ai sedicenti operai socialisti, e, ovviamente, attaccò i marxisti antisionisti che riuscirono a trasferire circa 40mila ebrei a sinistra in Eretz Israel durante la seconda aliyah (1904-1914).

Ma il principale avversario dei revisionisti era il sionismo laburista guidato da Ben-Gurion, nemico giurato di Vladimir Jabotinsky. Ben-Gurion, in un discorso sintomatico, soprannominò Jabotinsky Vladimir Hitler. La menzione di Vladimir Hitler non è gratuita. In effetti, per la maggior parte degli storici, Vladimir Jabotinsky e il sionismo revisionista erano o un’espressione adattata del fascismo mussoliniano o, per i più indulgenti, una forma di proto-fascismo europeo.

Per Michele Stanislavskij (Sionismo: una brevissima introduzione, P. 48): “Sebbene lui stesso non abbia mai oltrepassato il confine con il fascismo a tutti gli effetti... i giovani seguaci del suo movimento estremamente popolare adottarono le uniformi delle camicie nere dei partiti di destra dell'epoca, ripetendo il suo mantra secondo cui "tutto ciò che un ragazzo ebreo ha bisogno di imparare" è parlare ebraico e sparare con una pistola”. Il contorsionismo apologetico di Stanislavskij mi sembra evidente, la sua salvifica distinzione tra protofascismo e fascismo o nazismo ha un accenno di raffinatezza accademica, ma alla fine non è sostenibile. Ricordo, dalla mia lettura di decenni e decenni fa, che Curzio Malaparte, in Rotto, definisce Vladimir Jabotinsky «l'ebreo preferito di Mussolini».

Senza dubbio, la disputa più importante all’interno del sionismo fu quella tra i revisionisti, da un lato, e i lavoratori, dall’altro. Ma lasciando da parte la dimensione personale, la cosa rilevante è che sia i sionisti revisionisti che quelli laburisti – i primi apertamente, gli altri in modo più calcolato, generalmente nascosto – obbedirono alla logica del Muro di Ferro. Entrambi lo hanno implementato. Il Labour, nell'era Ben-Gurion del primo Israele; i revisionisti, soprattutto dal 1977. Begin, il primo dei primi ministri revisionisti. Benjamin Netanyahu, l’incarnazione più recente. È questa, in maniera un po' sommaria, la tesi difesa dallo storico israeliano Avi Shlaim nella sua opera maggiore, pubblicata nel 1999 con il titolo Il muro di ferro, Israele e il mondo arabo. Il lungo testo, più di 700 pagine, meritava un aggiornamento da parte dell'autore, un articolo diffuso nel 2002: “Il muro di ferro rivisitato”.

Per Avi Shlaim, dopo un certo periodo, dopo, secondo me, il 1967, ma soprattutto dopo il 1977, sia i revisionisti che i laburisti iniziarono a pensare a Israele e al suo rapporto con il “popolo arabo” dall’asse centrale della conformazione delle idee di Vladimir Jabotinsky debitamente aggiornato. Oggi tutto sembra indicare che la metafora del Muro sia condivisa dalla maggioranza dell’élite sionista israeliana, dalle forze armate, dal mondo accademico, ma anche dai media che contano e, soprattutto, dall’elettorato israeliano, che è, per la frazione di popolazione composta da cittadini di prima classe, ebrei israeliani, siano essi sionisti o meno. Certo, le minoranze continuano ad esistere. Le minoranze continuano a criticare. Le minoranze persistono nell’opposizione. Ma la carovana più importante è quella che attraversa il deserto.

La tesi di Shlaim, una chiave che aiuta molto a spiegare cosa sta accadendo nell'attuale stato e nella società israeliana. Ci aiuta a capire perché l’intransigenza di Israele nei confronti della Palestina e del suo popolo è completa, con Benjamin Netanyahu sostenuto dalla massa di cittadini ebrei, compresi quelli che vogliono vederlo fuori dal potere e, se possibile, in prigione. . L'aggressività permanente di Israele contro i suoi vicini arabi – per non parlare nemmeno dell'Iran – e la sua virulenza illimitata contro il popolo palestinese sono illuminate anche dalla metafora di Vladimir Jabotinsky.

Tuttavia, ovviamente, questo deve essere realisticamente sfumato. L’opposizione è frontale tra Israele, Stato e società, e i popoli arabi, ma il pragmatismo che contraddistingue contemporaneamente le élite arabe e le loro controparti israeliane consente intese solide e durature tra loro. L’esempio più grande, il rapporto tra Israele e l’Egitto post-Nasser. Il suo progetto più grande, che veniva attuato tramite gli accordi di Abraão. Sul fondo della scena, il desiderio sionista revisionista, oggi sionista in generale, di costruire il Grande Israele a spese del popolo palestinese. Sul fondo del palco, l’immensa distanza araba tra l’élite al potere e il popolo.

Poiché accetto, seppur parzialmente, l’interpretazione elaborata da Avi Shlaim, mi è difficile credere che l’Israele di oggi, quello di Benjamin Netanyahu, e l’Israele di domani, probabilmente quello di Benny Gantz, siano sostanzialmente diversi. La visita di Benny Gantz a Washington e il suo messaggio a Camila Harris e Joe Biden, simili a quelli di Benjamin Netanyahu. Ciò proclama che Netanyahu e Ganz sono parti dello stesso tutto, il tutto chiaramente pensato da Vladimir Jabotinsky, il tutto metaforizzato dal Muro. Se in una certa misura ho ragione, allora, anche per derivazione, c’è da aspettarsi che nessuna attuale leadership sionista abbia la flessibilità politica, ideologica e persino assiologica necessaria per soddisfare le richieste minime, in difficoltà elettorale, dei suoi principali alleati e partner occidentali.

In un certo senso, anche l’Occidente, non solo Israele, è diventato prigioniero del Muro di Ferro. Per l’Occidente allargato, che va dal Nord America all’Oceania, passando per Europa, Israele, Giappone, Corea del Sud e altri alleati e partner, il nome attuale di questa prigione dalle alte mura è forse “Complicità occidentale nel genocidio di Gaza”. E se chiudiamo ancora di più il cerchio della mentalità revisionista, tutto diventa più chiaro: la psicologia di massa dell'elettorato israeliano, riflessa nei sondaggi d'opinione diffusi dopo il 7 ottobre, denota qualcosa di disperato. I sondaggi dicono chiaramente che la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani sono diventati, che ne siano consapevoli o meno, sionisti revisionisti nel modo in cui vedono e pensano al mondo, poiché molti di loro si proclamano laburisti. Il complesso del Muro di Ferro divenne un oggetto di consumo comune. Il Muro costituiva una parte indispensabile della psiche nazionale israeliana fondata sulle idee antagoniste di assedio ed espansione.

Poiché la penso in questo modo, vedo con profonda frustrazione che il futuro della questione palestinese – la “questione araba” di Vladimir Jabotinsky – non ha alcuna possibilità, nell’arco di molti mesi o addirittura di pochi anni, di raggiungere il suo momento più alto, la definitiva liberazione palestinese dalla Giogo coloniale sionista, successore del giogo coloniale britannico. Poiché la penso in questo modo, con le forbici del realismo che tagliano le ali del desiderio, continuo a collocare ciò che tutti desideriamo, l'esito vittorioso della secolare lotta della Palestina per l'autodeterminazione, è ancora molto lontano.

La guerra genocida imposta alla popolazione di Gaza farà sicuramente avanzare il processo ad un costo umano incalcolabile. Ma la vittoria decisiva è ancora in agguato dietro l’orizzonte. Per questo motivo, la lotta del popolo palestinese per la propria liberazione nazionale è diventata l’esempio più duro, su scala planetaria sulla scena internazionale, di un equilibrio catastrofico da trasformare positivamente. Nel mezzo della catastrofe in corso, rimaniamo con la nostra unica certezza: la liberazione nazionale del popolo palestinese è ineluttabile.,

Viva la Palestina libera! Libero quando sarà tamen!

Tadeu Valadares è un ambasciatore in pensione.

Nota


[1] Questo testo è il risultato di un aggiornamento di una conferenza tenuta il 19 marzo 2024 presso l'Osservatorio politico CBJP.


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