da GERD BORNHEIM*
Prefazione al libro “Speaking of Shakespeare”, di Barbara Heliodora (Ed. Perspectiva).
Chi sostiene che l'attività teatrale costituisca una dimensione per così dire naturale del comportamento umano cade in un errore insostenibile; tale punto di vista, spesso asserito, deriva, proprio nella sua esagerazione, da una delle più superbe creazioni dello spirito umano: il teatro e le passioni che sa suscitare. Succede, però, che quella tesi non resista al minimo sforzo di ispezione nelle vicende storiche.
Il massimo che si può avanzare è che l'uomo – e questo vale, nelle sue forme più primitive, anche per altri tipi di animali – è dotato di una certa capacità mimetica, la capacità di trasmutarsi in un altro; o ancora, sviluppare la cultura di un certo livello di espressione mimica per certi sentimenti, idee o situazioni; sono idee e gesti che raggiungono anche sofisticate raffinatezze, come quelle che si osservano nelle commemorazioni belliche o nelle funzioni religiose, e fanno fiorire la danza e la liturgia. Di questa ritualistica, però, si deve affermare che essa appartiene, tutt'al più, alla protostoria dell'arte teatrale; altrimenti il concetto stesso di teatro subirebbe un'espansione che finirebbe per coprirne le specificità.
Certo, il teatro può assimilare tutto, fare di tutto un tema, può risalire alle radici più remote, lasciarsi ispirare anche da ciò che già sbiadisce nella memoria del tempo; può anche tentare il recupero archetipico di qualche vecchio significato obliterato, anche se, come ogni significato, risulta essere essenzialmente storico e destinato a perdersi nelle trappole dell'oblio definitivo.
Il fatto che bisogna riconoscere è che il teatro ha costituito, attraverso i secoli, un'attività rarissima; diciamo che questa sintesi che costruisce uno spettacolo, aggregato di elementi necessariamente plurali, difficilmente riesce a incastrarsi nella composizione della sua complessità. Né penso qui alle piccole e grandi culture che hanno saputo esprimersi nei modi più diversi: in esse, lì o oltre, non c'è dubbio che si possano trovare perle di rara purezza, e forse solo l'Occidente ha effettivamente saputo riconoscerli.
Ma qui mi limito esclusivamente al nostro mondo occidentale. E ricordo questo incredibile privilegio, quello di avere ben due esperienze teatrali inedite, due filoni di forme teatrali originali e uniche, al punto da essere addirittura inconciliabili: quella greca e quella medievale. Ciò si spiega suggerendo, non senza ragione, che il nostro mondo occidentale sia stato intriso dell'esuberanza di una doppia radice: la cultura greco-romana da un lato e la cultura ebraico-cristiana dall'altro. Le differenze si possono inaugurare, dunque, già a livello delle radici. Capito questo, si comincia a capirne anche i dettagli. Ad esempio: tra le sue opere maggiori, l'unico testo di Aristotele che rimase praticamente ignorato nel Medioevo fu il Poetica; perché, in effetti, come poteva l'immaginario medievale avere accesso a questo testo, riflesso di una favola totalmente diversa?
E guarda: queste sorprendenti forme di meraviglia teatrale non hanno mai cessato di essere un'eccezione: un secolo o giù di lì nella Grecia attica, e lo splendore della scena alta nei momenti più alti del Medioevo. Penso qui, naturalmente, alle manifestazioni più solenni e per così dire definitive di quei due tempi antichi. Ma le cose si complicano: se pensiamo ai canoni attuali del teatro moderno, così come cominciò ad essere elaborato nel corso del Cinquecento, quelle già esaurite solennità sarebbero da considerarsi espressioni propriamente teatrali? Sì e no. Se osserviamo quanto si vede oggi sulla scena, saremmo certamente indotti ad avallare una risposta del tutto negativa. Infatti, ciò che i Greci e i Cristiani vedevano erano ben più forme di celebrazione, di commemorazione dei miti, della parola originaria, del salvataggio sempre attuale e sempre necessario di quella parola mitica e che costituivano l'unica ragion d'essere di tali teatrini : tutto ciò annunciava la presentificazione delle cose divine e del loro ambiente.
Ma qui preferisco insistere sulle differenze piuttosto che stare tutto nello stesso letto. E, rispetto al teatro moderno, in quanto a differenze, il nome proprio che meglio le riassume è proprio questo: Shakespeare. In verità è teatro elisabettiano, ma non si potevano trascurare i vantaggi, la preminenza di Shakespeare nel contesto di questo scenario. Non entrerò in un altro argomento, gli spagnoli, poiché sono rimasti molto più ambigui in tutto. Ciò che colpisce nella figura di Shakespeare è proprio in una certa radicalità nel saper dire cose nuove, nell'esprimere l'alba dei tempi moderni.
Forse ce ne sono, tra i tuoi coetanei, altri più audaci, più aggressivi e polemici; tuttavia, ciò che colpisce di Shakespeare viene dall'ampiezza delle sue direttive, e finisce per dire molto di più di quanto il primo sguardo alle sue creazioni consenta. Quello che accade in questi inizi storici è davvero straordinario, e le riforme che si stanno mettendo in atto cominciano a gettare le basi di una rivoluzione nel senso stesso del teatro. E c'è, come sappiamo, una questione spinosa: fino a che punto Shakespeare era realmente consapevole delle metamorfosi generate nell'intimità del proprio impegno?
Preferisco qui ignorare le lunghe e talora pretestuose discussioni sull'argomento, ma permettetemi di fare due brevi osservazioni. La prima è breve e incisiva, e afferma senza mezzi termini che Shakespeare sa tutto – conosce l'uomo, e lo sapeva per un motivo molto semplice: il bardo ha fatto tutto; un genio di tali dimensioni non poteva essere opaco a se stesso, gli impegni – non solo di Shakespeare, ma anche quelli dei suoi compagni – erano necessariamente costruiti con un certo grado di trasparenza.
E la seconda osservazione deriva tutta da questo concetto di trasparenza. L'uomo moderno, infatti, si dedicò molto presto alla costruzione del proprio profilo, all'elaborazione di un progetto per un mondo nuovo, e tutto accade, in quei tempi, come se il calcolo di qualsiasi evento fosse premeditato. Qui siamo di fronte a un'esperienza unica nella storia dell'uomo. Anche i greci non potevano arrivare a tanto. Indubbiamente i greci hanno inventato la trasparenza; Ricordo, solo a titolo esemplificativo, il desiderio del vecchio Aristotele di vedere tutto – proprio tutto – attraversato dal pensiero, per creare un'enciclopedia in cui tutta la realtà rimanesse iscritta sotto forma di concetto. Eppure, su questo punto, l'uomo moderno va ben oltre i greci, inventando anche una vera e propria fauna di panopticon, attraverso i quali quest'uomo nuovo intendeva assumere un atteggiamento critico nei confronti dei propri successi.
Si pensi, sempre a titolo esemplificativo, a due contemporanei di Shakespeare, Morus e Montaigne: l'utopia e il buon selvaggio non trovano un posto reale nella società che li ha concepiti, sono come riferimenti oggettivi attraverso i quali l'uomo potrebbe vedere se stesso. mediazione di altre istanze; Invento l'altro per farmi giudicare da lui e per vedermi meglio. Perché Shakespeare era anche un esperto dell'altro, un inventore dell'alterità. Del resto siamo nell'era delle grandi navigazioni. Shakespeare conosceva il suo tempo; Sapevo con quanta freddezza dipingeva il brano, per usare l'espressione di Montaigne.
Bene, allora, veniamo al passaggio. O i passaggi, dove tutto è prodigo. Innanzitutto va chiarito che il teatro del nostro autore affonda le sue radici nel teatro medievale. Certo, non si tratta di ammettere un influsso proveniente da una realtà per così dire statica, data una volta per tutte alla maniera di una creazione definitiva; È, infatti, un teatro ricco, un'esperienza in continua trasformazione, fino ad arrivare, già con aria un po' stanca, al Cinquecento. Sembra che le cose accadano in un modo estraneo a qualsiasi teoria più coerente: ciò che conta è l'evoluzione della pratica teatrale, nei modi in cui si forgia il suo linguaggio effettivo. E questo riguarda tutta l'arte scenica, in tutte le sue dimensioni, dai suoi rudimenti scenografici a una certa stabilità del linguaggio e al modo un po' distaccato di comporre la sequenza delle scene. Diciamo, quindi, che tutto si cristallizza nella pratica della teatralità, una pratica obbediente, come non potrebbe essere altrimenti, a certe convenzioni che veicolano la comunicazione.
È accaduto però che, in questo panorama generale della celebrazione dei misteri, Shakespeare e i suoi colleghi – ma va notato che la figura del ribelle non è ancora di moda – abbiano osato perpetrare una rottura che ha portato nientemeno che a la reinvenzione del teatro – una situazione che si complicherebbe, soprattutto con il contributo che presto sarebbe stato sviluppato dai francesi. Ciò che si inaugura, dunque, è nel teatro come lo concepiamo ancora oggi, un teatro che mostra, pur nelle sue vicissitudini, una vitalità senza pari, che ha attraversato i secoli, e per noi, che stiamo già mordendo il nostro At all'inizio di un nuovo millennio, non ci sono seri segnali che l'attività teatrale stia svanendo – anche la crisi è già diventata costitutiva del teatro.
Mi sembra che questa rottura, così fortemente presente in Shakespeare, si concentri tutta in un punto ben preciso: l'abbandono della fede, della fede intesa come elemento fondante che rappresentava la ragion d'essere stessa del teatro passato. Capite bene: non importa nemmeno tanto se Shakespeare fosse ateo o meno – l'ateismo è una posizione che delineerà chiaramente il suo profilo solo più tardi, nel XVIII secolo. Forse Shakespeare è uno dei suoi precursori, ma non è di questo che stiamo parlando qui. Si parla di teatro, e nella scena shakespeariana non si percepisce solo l'assenza di personaggi mossi dalla fede nel senso della semplicità del teatro medievale, non ci sono più atti che tendono al mistico o all'orientamento dal mondo soprannaturale; bisogna scavare, e bene, imbattersi in qualche residuo, in qualche particolare, in qualche riflesso di un ordine divino che in quel momento veniva profanato con sorprendente rapidità.
Il nostro autore è già espressione del nuovo spirito dell'età moderna. Nemmeno la splendida galleria dei re riesce a ignorare questo strano processo. Barbara Heliodora osserva in un saggio notevole e assolutamente indispensabile [L'espressione drammatica del politico in Shakespeare, Peace and Earth] che, tra tutti i re shakespeariani, l'unico che continua ad essere legato all'ordine divino della regalità è Riccardo II, e l'autore aggiunge che è proprio per questo che perde tutto. Ma il più significativo, lo ripeto, non sta solo in questo incredibile dissolvimento di atti, fatti e vicende di carattere religioso, ma nell'evaporazione del senso essenzialmente religioso che nutriva la scena medievale.
La scomparsa di questa fede oggettivamente sostanziale non è solo un elemento tra gli altri, poiché configura un nucleo complesso che sposta il significato del teatro. Insisto: la fede e le sue cose scompaiono. Ad esempio: i miracoli, ovvero i tre livelli teologici del mondo soprannaturale; o la moltitudine di gerarchie angeliche ora sostituite dallo spettro magro, scarno e poliziesco del padre di Amleto. E così via. Tutti gli apparati religiosi vengono smantellati o desacralizzati. Al massimo i temi religiosi o politico-religiosi diventano, anche se rari, un mero tema tra gli altri; tutto comincia ad essere fatto, allora, in modo nucleare profano.
È forse da rammaricarsi che, in questo passaggio, sia scomparsa anche la macchina: di loro non c'è traccia tra gli elisabettiani. Eppure, nei grandi momenti del passato, le macchine offrivano prestazioni semplicemente incredibili. Tra le macchine greche basti ricordare la famosa gru che, venendo dall'alto, aveva il compito di deporre dee come Atena e la Giustizia (diga). L'argomento si presta ancora oggi a controversie e autori come AW Pickard-Cambridge e Siegfried Melchinger ne discutono in dettaglio che rasenta il perfezionismo. Ad esempio: come ha fatto la dea a liberarsi delle cinture di cuoio che la legavano a quella gru?
Anche nel Medioevo esistevano macchine volanti che trasportavano angeli, per non parlare dei popolarissimi “maestri dei fuochi”, che riproducevano con i loro complicati aggeggi i miracoli più fantastici – San Pietro che cammina sulle acque – e ricostruivano la struttura stessa del soprannaturale mondo: il paradiso, il purgatorio e l'inferno, con tutti i condimenti che ne erano caratteristici. Le macchine, infatti, sono state presenti sulla scena fino alla fine del teatro barocco, poi tutto era già indebolito da una pedagogia un po' falsa. Questi straordinari congegni che tanto preoccupavano gli artisti, a cominciare da Da Vinci (che pure voleva “fare miracoli”), cambiarono completamente significato solo con la Rivoluzione Industriale: con essa la macchina iniziò ad essere interpretata a partire dai paradigmi biologici, ed esercitò le proprie funzioni entro i limiti interni della dicotomia soggetto-oggetto.
Ma anche qui Shakespeare seppe essere un precursore: la macchina scomparve di scena proprio con gli elisabettiani. È facile, senza dubbio, comprendere questa scomparsa delle macchine: è perché il loro scopo era rendere presenti dei e dee, rendere visibile il soprannaturale ei suoi effetti; ed è comprensibile che, in assenza di tali dimensioni, la macchina stessa abbia perso la sua ragion d'essere teatrale. Anche nel nostro secolo, gli sforzi di Piscator per "ri-macchinare" la scena non assomigliano lontanamente allo splendore delle grandi e complesse macchine del passato. La questione della macchina mostra tutto il suo interesse a chiarire l'intensità della rottura e il declino della presenza del mondo soprannaturale: un teatro profano non può più essere al servizio degli dei e delle piaghe da loro inviate.
Il nucleo che ci permette di comprendere l'innovazione shakespeariana può essere visto nel teatro inteso come istituzione pedagogica. Avanzo sull'argomento, ma poco di cui ho già abusato nello spazio di queste pagine. Come veniva vista tale pedagogia nella tragedia greca e nei misteri medievali? Attraverso ciò che deve essere compreso dalla presenza del concetto di concreto universale. In altre parole: era un teatro che trattava di dei e dee, re ed eroi, Cristo e la Vergine, santi e ancora re ed eroi. Tutto questo componeva il catalogo dei detti universali concreti: erano modelli, prototipi per sollecitare l'educazione dell'uomo attraverso l'esibizione di figure considerate sacre. Tali concetti sono alla base di ciò che si chiama imitazione nell'arte, e l'essenza dell'imitazione di quei concetti costituiva il campo della pedagogia. Perché ciò che Shakespeare fa non è altro che l'invalidazione di questo concetto di pedagogia che faceva appello all'universale concreto.
Ma come realizzare un'impresa del genere? Evidentemente non sarebbe il caso di attendersi da Shakespeare la proposta esplicita di una qualsiasi forma di teoria sull'argomento - questo diventerà possibile solo con il passare del tempo. E qualsiasi buon conoscitore del suo lavoro si rende facilmente conto della natura della commissione perpetrata. Quello che Shakespeare fa è cambiare il contenuto proprio di un tale universale concreto. Vale a dire: lo liquida dal suo carattere religioso, sia come tema particolare sia anche come fondamento ultimo del senso del teatro, e gli dà un nuovo contenuto.
Mi sembra che l'universale concreto si sia ormai esaurito in due categorie, il tempo e lo spazio, o meglio, nella storia e nella geografia. Perché il nostro bardo viaggia, è il primo grande viaggiatore della storia del teatro. O meglio: fa viaggiare il suo teatro. Basta un piccolo ricordo per capire quello che sto dicendo: va in Danimarca, e lì scopre Amleto, il quasi-eroe; è con questo personaggio che inizia la lenta e inesorabile crisi della figura dell'eroe nel teatro moderno. Nel Trecento si reca a Verona e commette la spudoratezza di esibire due amanti, Romeo e Giulietta; è la prima volta che la passione sfrenata di due adolescenti viene mostrata con tanta freschezza.
Un'altra breve ascesa in Italia, e Shakespeare, anche per la prima volta, mette in scena un uomo di colore, Otello. Le sorprese non finiscono mai, e il poeta va molto oltre, viaggia in Grecia, scrive Troilo e Cressida e con Timone di Atene portare i soldi. Di passaggio, si attacca ai Romani, Corolian, per non parlare dell'intero palazzo imperiale di Giulio Cesare. Il nostro autore non si limita nemmeno al piano della realtà: un pezzo come La tempesta esplora il regno dell'immaginario, 6 lo fa in modo sorprendente e totalmente moderno. E come non menzionare almeno il rilievo raggiunto dalla commedia, visto che i greci (e anche Hegel) la escludevano praticamente dal campo dell'arte?
Spicca il contrasto con quanto fatto prima. E che la tragedia greca ei misteri medievali non esplorano definitivamente il tempo e lo spazio. Più precisamente: ogni incursione nello spazio e nel tempo trova la sua ragion d'essere solo nell'istante della presentizzazione della verità assoluta. I miti sono sempre, greci o medievali, nuclearmente sovrastorici; sono forme di teatro che finiscono sempre ed essenzialmente nel dialogo verticale con il divino: il dialogo fondamentale di Edipo Re passa tutto attraverso diga, per divina Giustizia, e la dea non ha nemmeno bisogno di entrare in scena.
Con Shakespeare, invece, tutto si svolge sul piano della completa orizzontalità. È in questo senso che lo spazio e il tempo costituiscono, per così dire, i limiti ontologici estremi della nuova scena. In altre parole: la geografia e la storia finiscono per essere le fonti nutritive dell'azione drammatica — compreso ogni possibile riferimento a qualche elemento divino: la storia, propriamente collocata, è storica, e non più storia mitica.
Tale, d'altronde, è il significato dell'evoluzione globale dei tempi nuovi, tutti impegnati nella disgregazione degli ideali platonizzanti; l'uomo inizia a considerarsi un essere semplicemente banale, che si sforza di stabilirsi una volta per tutte su questa Terra. La cosa sorprendente è che tali coordinate vengono annunciate, per la prima volta, a quanto posso vedere, e con la completezza che ho cercato di evidenziare, nel teatro di Shakespeare, anche se non si può dimenticare, prima o poi, il contributo di altri autori, e qui penso in modo particolare all'unicità della presenza di Montaigne.
Questa autentica rivoluzione moderna, percorsi pionieristici, che istituiscono un altro mondo, continua senza sosta oltre i nostri giorni - ed è questo movimento creativo che porta a una comprensione dell'attualità di Shakespeare. Tuttavia, non chiedere troppo al nostro poeta. Una crisi non si entra impunemente, quindi la superi come chi gira l'angolo. Il teatro è essenzialmente mortale, vuole essere effimero, ogni spegnimento di luci è in qualche modo definitivo. Il fatto che per periodi grandiosi il teatro abbia fatto dell'eternità il suo tema centrale non significa affatto che il teatro stesso intendesse essere eterno; questa idea è, piuttosto, moderna, forse l'invenzione di un ateismo ancora vergognoso di se stesso, che postula sostituti dell'Assoluto ricorrendo a presunti valori e sentimenti immutabili.
Ciò che definisce meglio Shakespeare è proprio il fatto che ha il suo tempo nelle sue mani come una realtà chiaramente presunta - chi l'ha fatto prima di lui? Se lo sentiamo ancora è perché la nostra situazione attuale rimane la stessa, nonostante tutte le metamorfosi. È per questo motivo che ora ci è difficile accedere ai tragici greci, e non solo perché non parlano più dei nostri dei, perché la moralità non è più richiesta; oggi, nel migliore dei tentativi di rivitalizzarli, non è possibile andare molto oltre un esercizio scolastico ben eseguito, un po' come fecero i gesuiti barocchi con Plauto nei loro collegi. Perché il senso vissuto della tragedia non ci è più accessibile, e tutto finisce per riassumersi nella consapevolezza di una certa nostalgia proprio per ciò che non si vede più. Shakespeare non nutre alcun tipo di nostalgia: per lo spettatore di oggi rimangono le sue opere essere.
Certo, le distanze esistono. Naturalmente possono solo tendere ad aumentare. Così, ad esempio, con i viaggi di Shakespeare lodati sopra. In effetti, Shakespeare non ha mai viaggiato. Voglio dire: non ha mai abbandonato l'attualità della corrente. La frequentazione di leggende e storie antiche sono sempre stati altri e altri modi di raccontare il proprio tempo. E non poteva essere diversamente. Shakespeare non è mai stato uno storico, non ha mai fatto ricerche storiche, non ha mai consultato archivi, semplicemente perché tutto ciò non esisteva.
Si situa indiscutibilmente all'inizio di una certa inquietudine che genererà, molto più tardi, la formazione della coscienza storica. Ma tale consapevolezza acquisterà il suo statuto specifico solo nel corso dell'ultimo secolo, ed è solo da poco più di un secolo che la storia è stata fondata come scienza. E quella lontananza malvagia ha voluto che le cose si complicassero proprio ai giorni nostri. È ironico, perché ciò che oggi si tenta meno è di allestire Shakespeare in stile elisabettiano. Qualsiasi tentativo in questa direzione non poteva certo passare da una mera curiosità storica da seppellire in qualche archivio.
Indubbiamente si è perso un certo margine dell'attualità di Shakespeare, ed è in base a questa perdita che la situazione cambia, cioè: si ampliano le possibili letture dei suoi testi. L'elemento nuovo è proprio a questo punto: ci sono le letture, ormai slegate da uno spettacolo sintetico. Quindi, ci sono letture. Così la leggendaria e fragorosa lettura data a cavallo del secolo dal duca di Sassonia Meiningen de Giulio Cesare è stato costruito proprio nella prospettiva di un tale archivio storico, con architetti e archeologi in servizio nella stessa Roma.
Da qui il problema: com'è un testo Giulio Cesare? Un dramma romano del III secolo, una semplice proposta elisabettiana o un testo contemporaneo? Il teatro, e con esso il cinema, ha preferito la prima ipotesi. In superficie, un tale approccio potrebbe anche sembrare un “progresso”, un modo per “aggiornare” Shakespeare proprio riportandolo alle Idi romane. Ma, tutto sommato, e per quanto sia deplorato, tali procedure portano con sé parte del trucco della maschera mortuaria. Sono i deliri della coscienza storica, cose che costituiscono la specificità dell'esperienza teatrale del nostro tempo. Ma il santo è forte, e sa resistere a tutto.
Gli spunti esposti sono solo modi di camminare tra generalità che forse peccano per aver perso il contatto con la terra concreta di questo mare immenso che era e continua ad essere il nostro bardo. Ma sono idee che fanno parte, come un semplice itinerario, del mio sforzo per capire Shakespeare, per renderlo intelligibile nella variegata avventura dei suoi successi: in questo caso, e come sempre, l'intelligenza di ciascuno è assolutamente necessaria. Questo limite di enunciati generici conduce rigorosamente all'ovvio: ciò che conta, poiché costituisce il vero punto di partenza di tutto, è nella sondaggio, nella ricerca sul campo, nell'analisi meticolosa che accompagna ogni situazione, ogni frase, ogni parola.
Passiamo dunque la penna all'autore di questo ampio e affascinante testo che ora viene consegnato nelle mani del lettore. È stato con piacere, anzi con gioia, che ho accettato l'invito di Barbara Heliodora a scrivere questa breve meditazione, per lei, e soprattutto per Shakespeare. L'eccellenza dei saggi che compongono questo libro, alcuni scritti in inglese e ora tradotti in portoghese dalla stessa autrice, meriterebbero ben altro. Barbara occupa, senza favori, un posto privilegiato tra i più grandi specialisti di Shakespeare nel mondo. Si legge per vedere.
* Gerd Bornheim (1929-2002) è stato professore di filosofia all'UFRJ. Autore, tra gli altri libri, di Brecht: l'estetica del teatro (Graal).