da YURI ULBRICHT*
Il significato della peste in Ippocrate, Tucidide, Cicerone e Boccaccio
1.
Nelle epistole che partecipano del corpo ippocratico e che, come genere, prendono parte alla storia, la peste è ancora conforme alla volontà divina, in quanto non è generata dalla natura, ma il dono divino dell'arte sostituisce il sacrificio divino della religione nel prendersene cura: “[Il grande re dei re Artaserse con Paito è ingraziato]”. “La malattia che chiamano pestilenziale ha attanagliato il nostro esercito e, per quanto abbiamo fatto, non ci ha dato tregua. Perciò, con tutti i mezzi e con tutti i doni che ti do, ti prego, o qualsiasi delle tue invenzioni della natura, o qualsiasi delle pratiche dell'arte, o qualsiasi interpretazione di qualsiasi altro uomo che possa guarirci, manda presto; punisci la sofferenza, ti prego; perché l'irrequietezza della gente comune e molta agitazione rendono il respiro profondo e frequente. Non combattendo, siamo combattenti, avendo per nemica la bestia che perde gli armenti; in molti penetrava, li rendeva difficili da guarire, legava frecce su frecce e scoccava; Non sopporto; Non so più consigliarmi con uomini fecondi. Risolvi tutto, non rinunciare alla buona notizia. OK!"
Ricorrendo alle arti, ai consigli, alle invenzioni prese dalla natura, l'uomo non riesce a contenere l'assalto pestilenziale, le cui punture danneggiano uomini e bestie, il cui sciame non si vede venire. La peste aleggia spettrale sull'esercito, chi la combatte colpisce l'ombra, un'attrazione vuota che avvolge, dispera e perde. Ecco la risposta al re: “[Paito con il grande re dei re Artaserse è ingraziato]” “Gli aiuti naturali non risolvono l'epidemia dell'afflizione pestilenziale; la malattia che è generata dalla natura, la natura stessa, discernendola, guarisce; quelli che dall'epidemia, l'arte, discernono artificialmente la via dei corpi. Il medico Ippocrate cura questa malattia. È di origine dorica, dalla città di Cos, suo padre, Eraclide, figlio di Ippocrate, figlio di Gnosidico, figlio di Nebro, figlio di Sostrato, figlio di Teodoro, figlio di Cleomitide, figlio di Crisamide. Godeva di una natura divina e promuoveva la medicina dal piccolo e rozzo al grande e artificiale. Quindi viene generato il divino Ippocrate, il nono dal re Crisamide, il diciottesimo da Asclepio[I], ventesimo da Zeus; sua madre, Praxitéa, figlia di Fenarete, della casa di Heráclidas; sicché da entrambi i tronchi deriva dagli dèi il divino Ippocrate, essendo da suo padre Asclepiade, da sua madre Eraclide. Ha imparato l'arte da suo padre Eraclide e dal nonno Ippocrate. Ma con loro, sembra, iniziò i principi della medicina, che probabilmente allora conoscevano; già la totalità dell'arte, egli stesso insegnava da sé, adoperava la natura divina e tanto superava i suoi genitori in buona natura d'animo, che eccelleva da loro nella virtù dell'arte. Purga molta terra e mare, non dal genere degli animali, ma dalle malattie animali e selvagge, diffondendo ovunque, come Trittolemo, i semi di Demetra, l'aiuto di Asclepio. Perciò, giustamente fu consacrato in molti luoghi della terra, fu nobilitato dagli Ateniesi con gli stessi doni con Eracle e Asclepio. Ordina di portarlo, ordinandogli di dargli tutto l'argento e l'oro che vuole. Perché non conosce l'unico modo per curare la sofferenza; lui, padre della salute; lui il salvatore; lui, colui che lenisce il dolore; lui, semplicemente il sovrano della scienza degli dei. OK!" [Ii].
Le malattie sono generate o dalla natura, e sono sporadiche e rare, in quanto simili alle precedenti e quotidiane, essendo familiari e conosciute, in quanto si discerne quali sono e si sa che col tempo guariscono e passano; o da un'epidemia, essendo continui e frequenti, poiché non smettono di comunicare e l'infezione non cessa, essendo sconosciuti e anomali, poiché arrivano da lontano e, diversi, non si sa come procedere di fronte ad essa , né il tempo che ci vorrà. Contro queste le pratiche familiari non possono, ma, poiché sono estranee, le arti portate dall'esterno possono forse affrontarle. La genealogia di Ippocrate conta qui, perché tracciandola si traccia la genealogia dell'arte. L'origine divina dell'arte medica spiega perché vale per ciò che non è generato dalla natura: come l'epidemia pestilenziale, anche l'arte che se ne occupa è portata dall'esterno: entrambe discendono dal cielo. La trasmissione della medicina artificiale o dell'arte medica, comporta l'iniziazione ai segreti dell'arte, che sono riservati alle generazioni maschili provenienti dal ramo paterno che la custodisce, avendo così il doveroso dovere, nei confronti della genesi e del nome, di difendere e conservare il dono divino trasmesso, che comporta la cura dell'arte nella conservazione delle persone stesse. Chi lo riceve prende principi già estesi dai suoi predecessori, compiendo aggiunte che esaltino i principi ai posteri; ma ciò che si aggiunge alla pratica è legato piuttosto alla virtù del praticante, poiché fu la bontà di Ippocrate a rendere più grande la medicina. Il dono divino serve quindi la virtù, poiché ciò che il medico può è soggetto a ciò che vuole il dio.
Disperato di se stesso e persuaso dal parere di Paito, Artaserse inviò quindi un'epistola al comandante della cavalleria dell'Ellesponto Istanio, chiedendo l'arrivo di Ippocrate, proponendo le suddette ricompense insieme ad un onore pari a quello dei migliori Persiani. Histhanius trasmette la richiesta a Ippocrate. Ecco la risposta del medico:
“Il medico Ippocrate e l'iparca dell'Ellesponto Histhanius sono uniti.
Per quanto riguarda l'epistola che hai inviato dicendo che viene dal re, invia al re ciò che gli dico per iscritto il prima possibile che abbiamo provviste e vestiario e alloggio e ogni sostanza sufficiente per la vita. Della ricchezza dei Persiani, non mi è stato facile condividere, né fermare le malattie dei barbari, che erano nemici degli Elleni. OK!"[Iii]
E l'opinione in cui giustifica la sua condotta:
“Ippocrate saluta Demetrio.
Il re dei persiani mi manda a chiamare, non sapendo che presso di me vale più dell'oro il discorso della saggezza. OK!"[Iv]
Il dovere verso il suo nome e quello del suo popolo impedisce a Ippocrate di usare la sua arte per intercedere a favore dei Persiani, la cui abitudine cade nella lussuria, vizio che non li rende degni della virtù dell'arte. L'impegno genealogico legato alla sua pratica impone un certo modo di procedere; Il suo uso è limitato dalle leggi divine, che gli dicono che è dannoso porre fine alla giustizia divina. Gli iniziati hanno la responsabilità di preservare la loro gente, non tutti, poiché la colpa della sofferenza sta nelle deviazioni dalla religione e nei vizi legati alle manie della mente.
“Ippocrate con il consiglio e il demo degli Abderiti è d'accordo.
(…) Beati i demos che sanno che i buoni sono i loro protettori, e non torri o mura, ma i saggi consigli dei saggi. Quanto a me, credo che le arti siano grazie degli dèi, mentre gli uomini sono opere della natura, e non irritatevi, voi abderite uomini, mi sembra, non voi, ma la natura stessa mi chiama a conservare la vostra opera, in pericolo di cadere a causa della malattia. (…) Né la natura né il dio mi prometterebbero denaro per farmi venire, affinché voi, uomini abderiti, non mi violentiate, ma lasciate che le opere siano libere dalla libera arte. (...) Misera è la vita degli uomini, perché dappertutto entra, come un vento d'inverno, l'intollerabile avarizia, contro la quale, se solo tutti i medici si unissero, venendo a medicare una malattia più fastidiosa della mania, perché è beatificato, essere malattia e fare del male. Quanto a me, penso che tutte le malattie dell'anima siano veemente mania di inserire nel ragionamento alcune opinioni e fantasie, da cui si cura ciò che è purificato dalla virtù.[V]
Il diavolo, come le città, consiste più nella convivenza degli uomini che negli edifici e nei luoghi dove abitano, sicché la loro protezione viene da un'articolazione, secondo ragione e consiglio, in cui ognuno copre i bisogni di ciascuno, in cui i beni valgono di più, il che manifesta il precetto aristocratico della cura del bene da parte dei popolani e instaura un'etica di mutua conservazione delle esistenze legate dall'appartenenza ad un unico e medesimo demo. Le arti appaiono tra gli uomini come doni che ne amplificano la natura e la vita, perché le produzioni e le pratiche della tecnica aggiungono il divino all'umano. Come la grazia, le arti favoriscono, rallegrano, seducono; come dono divino, esigono uso e condotta secondo la religione e il dio, ed è ingratitudine approfittare di ciò che può, allontanandosi dalla consuetudine da essa trasmessa. Tale prezzo non può essere stimato gratuitamente, poiché la presenza dell'argento cancella la liberalità dell'arte e, sottoponendola irrimediabilmente al favore, alla gioia, alla seduzione, insomma alle grazie delle opere alle catene degli affari, viola la virtù che viene dal buon carattere, coinvolgendola nella frenesia e nella fantasia del denaro. Con l'arte medica come virtù della cura nel salvare, quando la salvezza attraverso la cura tocca molti, come nel caso della cura della pestilenza epidemica, la grazia dell'arte distingue pubblicamente l'artigiano:
dogma ateniese.
Fu decretato dal consiglio e demo degli Ateniesi. Come Ippocrate di Cos, medico appartenente alla generazione di Asclepio, mostrò agli Elleni grande benevolenza per la salvezza, quando, quando la peste dei barbari giunse all'Ellade, mandò i suoi apprendisti nei luoghi, prescrisse quale terapia avrebbero dovuto usare per sfuggire in sicurezza alla peste imminente, in modo che l'arte medica di Apollo, distribuita agli Elleni, salvi loro in sicurezza gli afflitti; e curò abbondanti scritti sull'arte medica, desiderando che ci fossero molti medici a salvarli; e, chiedendogli il re dei Persiani con gloria pari alla sua, e con doni che Ippocrate stesso aveva scelto, disprezzò le promesse del barbaro, in quanto era ostile e nemico comune degli Elleni; In vista di ciò, il demo degli Ateniesi si manifesta estendendo i servizi che ha sempre avuto in favore degli Elleni, e, affinché possa rendere a Ippocrate grazia adeguata per le buone opere, fu decretato dal demo iniziare lui a spese del tesoro nei grandi misteri, così come Eracle, figlio di Zeus, e incoronalo con una corona d'oro di mille dramme d'oro; e proclamare la corona nelle grandi Panatenee, nella gara di ginnastica; e può essere lecito per i figli di Cos esercitarsi in Atene così come i figli degli Ateniesi, in quanto il loro paese ha generato un tale uomo; e avere Ippocrate sia cittadinanza che cibo nel Pritaneo per tutta la vita.[Vi]
La liberalità ippocratica e la pratica medica, di fronte alla peste, implicavano: la benevolenza nei confronti della cura di tutta la vita ellenica, che le implicava nelle deliberazioni riguardanti la salute comune; l'apprendimento condiviso dell'arte, che aumenta la portata della pratica e amplifica i favori dell'arte; precetti terapeutici, che guidano i salvacondotti; la pubblicazione gratuita dei suoi istituti, che mostra a tutti la possibilità di salvezza. La genesi apollinea della medicina rivela l'origine celeste dello scudo che gli Elleni usavano per contenere il morbo barbarico che li penetrava. La guerra sussiste come evento storico che genera pestilenza: lo scontro con il barbaro innesca l'infestazione pestilenziale che sfugge dalle mani e infesta. Da una parte invade i Persiani, dice Artaserse; dall'altro, da loro, dicono gli Elleni; è, tuttavia, un'apparenza generata dallo scampanio di entrambe le flotte. Le ripercussioni della peste interrompono la follia della guerra e gli eccessi della guerra, che, sospendendo i confini, confondono i limiti delle cose e degenerano gli ordini naturali e divini. Male umano comune, supera il conflitto, in quanto accresce l'angoscia e toglie all'uomo la ragione del consiglio e la forza della decisione; interponendosi tra gli uomini, comincia a governare le azioni, riorientando il corso degli eventi. Se durante la guerra la gestione delle azioni contribuì alla morte di molti, con l'arrivo della peste l'insieme delle azioni si rivolse alla conservazione della vita di ciascuno. L'arte marziale è sostituita dall'apollineo. La sofferenza dell'anima collettiva che porta all'irragionevolezza collettiva che genera la peste, poiché è la mania e la follia che sono responsabili della diffusione della malattia, esige la sanità mentale delle anime per l'igienizzazione dei corpi. L'arte medica esiste come costrizione, ma è piuttosto condotta esemplare nella pratica dell'arte, alleata a reciproci sforzi con cui gli uomini si riconciliano, che promuovono la salvezza e uniscono le città con vincoli di gratitudine.
2.
Nelle storie, l'aspetto della peste è generato dal suo precedente aspetto poetico. Nel settimo libro di Storie, si pensa che
“Nella terza generazione, dopo la morte di Minosse, furono generate le Troiche, nelle quali i Cretesi non sono i peggiori nel vendicare Menelao. Dopo ciò, tornando da Troia, sopraggiunsero la carestia e la pestilenza, sia loro che i quadrupedi; così, per la seconda volta devastata Creta, insieme a quelli che sono rimasti, i Cretesi che ora l'abitano sono i terzi”.[Vii]
Nella storia, la carestia e la peste, insieme alla guerra, decidono la fortuna e la composizione dei popoli e dei loro armenti, e in qualche modo dettano il corso della storia dei popoli: la guerra, seguendo il consiglio degli uomini; carestia e pestilenza, eccedendo la loro volontà. A Storia della guerra del Peloponneso, Tucidide:
“Essendo caduti in tale afflizione, gli Ateniesi erano addolorati, gli uomini dentro morivano, la terra era devastata fuori. In mezzo al male, mi è venuto in mente certamente il seguente detto, che una volta gli anziani dicevano di cantare:
Verrà la guerra dorica e con essa la peste!
Sorse però tra gli uomini una disputa circa il non essere stati nominati nel carme dall'antica peste (loimoes), ma affamato (limoni), e, per il momento, la verosimiglianza di essere chiamato peste (loimoes), perché gli uomini si facevano memoria in base a ciò che subivano. Ma, se per caso accade un'altra guerra dorica e dopo di essa accade la carestia (limoni), a causa della verosimiglianza, penso, quindi canteranno.[Viii]
La peste accompagna la guerra, proprio come la carestia accompagna la guerra. L'incontro tra estranei durante la lotta aperta coincide con l'ingresso dell'ignoto morbo che dilaga e con la devastazione dei raccolti e del bestiame che porta la fame dentro le case, cosicché, avvenendo all'esterno, la morte guerriera porta all'effetto di rumorose politiche tra stranieri, mentre i pestilenziosi e gli affamati sono mute morti intestinali appartenenti alle case, oikonomikaí.
3.
Nessuna meraviglia, in bocca all'oratore romano, il nome latino peste diventa un modo frequente di maledire e accusare, non più la malattia, ma lo stesso imputato la cui malattia sono le macchinazioni che più contaminano, il cui negoziato attacca la patria e la repubblica:
"Mostro che hai vagato per tutte le parti della provincia come una tempesta calamitosa e una pestilenza".[Ix]
In Cicerone la peste diventa l'uomo che colpisce gli oppiodi, uno dopo l'altro portatori dell'oscena audacia che condensa ammassi umani che seminano calamità dove passano i vagabondi.
“tutti si ritirarono, tutti schivarono, tutti fuggirono come da qualche bestia e peste immanenti e perniciose”.[X]
Tutti fanno di tutto per evitare la bestia nociva, la peste umana che infesta gli uomini. Ma c'è chi insiste per restare.
"Hai chiamato per nome la peste di quell'anno, il furore della patria, la tempesta della repubblica, Clodio?"[Xi]
Così come Clodio, un tempo vestito da donna, aveva impudentemente profanato i luoghi delle più modeste cerimonie delle Vestali e, perciò, era stato quell'anno la piaga della repubblica; così, ora, si traveste nell'uomo, il cui vizio viene dalla bocca virulenta che colpisce la popolazione con forza improvvisa. La bufera popolare che nasce dalla legge iniqua che perverte la repubblica non cessa finché il popolo stesso non applichi le giuste pene che la restituiscono inviolata.[Xii].
“questa non è medicina, quando si usa un bisturi per una parte del corpo sana e intatta, questa è carneficina e crudeltà: chi estrae qualche peste come una parotide dalla città cura la repubblica”.[Xiii]
La ghiandola salivare, infetta, fa infuriare gli altri; per la cessazione della rabbia, è l'estrazione la fonte della sanità mentale. Guariscono la repubblica, non quelli che si appellano al furore della patria, ma quelli che estraggono chirurgicamente la parte malata e flaccida della città, perché viva il resto del corpo.
“Una grande gratitudine è dovuta agli dei immortali e a questo stesso Giove statore, antico custode di questa città, per tante volte siamo fuggiti da questa piaga così oscura, così orribile e così infestante della repubblica”.[Xiv]
La provenienza divina della peste rimane presso i latini, e la sua rilevanza celeste la collega alla tempesta, cielo che serve il significato della venuta di entrambi, l'uno dai segni della natura, l'altro dai segni della divinazione. E poiché i principi degli dèi sono il cielo e la terra, essendo gli dèi in parte celesti e maschili, in parte terrestri e femminili, Giove, che precede nell'umanità in cielo, è responsabile soprattutto della potenza delle cause con cui si fa qualcosa in il mondo, essendo più frequentemente il dio della giustizia umana e, quindi, emissario del maligno influsso celeste.
La peste oratoria è legata alla genealogia mitica della peste come risorsa degli dei celesti per correggere i cattivi costumi terreni: la prima, attraverso la condanna civile del criminale appestato, la seconda, attraverso la condanna religiosa delle vie empie.
4.
Nel XIV secolo, nel suo Genealogia degli dei gentili, Giovanni Boccaccio insegnerà Ser Labor (lavoro)[Xv], il timore (metus)[Xvi], il povero (egesta)[Xvii], Miseria (miseria)[Xviii], la fame (fama)[Xix], la malattia (malattia)[Xx] figli di Erebo, che crede essere lo stesso Tartaro, detto anche Orco, e nono figlio di Demogorgone. La terra lo concepì, poiché si nascose nel suo grembo, che non senza ragione era considerato il luogo delle anime che soffrono, poiché non c'era luogo in cielo più remoto dove le piume degli empi potessero essere lavate del centro della terra . Si chiama Erebus, perché, come dice Uguzio, si aggrappa troppo a colui che cattura; Tartaro, dalla tortura, perché torce coloro che inghiotte; Orco, perché è buio[Xxi]. Malattia e Carestia sono sorelle figlie di Erebo e Notte. La fame è pubblica o privata, essendo pubblica quella causata dalla penuria universale di grano, la cui causa è l'ira divina, o la guerra diurna, o i vermi sotterranei che rosicchiano i semi, le pestilenze. Pertanto, la carestia che si combina con la mitica peste è una carestia pubblica fornita dal dio, la divinità che la causa, per la sua genealogia terrena, terrena e femminile. Per quanto riguarda la malattia:
“È Malattia, figlia di Erebo e Notte, come piacerono a Tullio e Crisippo. Ma può essere un difetto di mente e di corpo, e come è cagionato nel corpo per discordanza degli umori, così nell'animo per incomodità di costumi, e poi, meritatamente da tali genitori, cioè per cecità intrinseca, la figlia prende il nome, e, siccome sembra tendere alla morte della salute, malattia, come piace a molti, fu chiamato”.[Xxii]
La malattia che si chiama peste è causata nell'animo da deviazioni dal buon costume, poiché gli dei causanti dettano quelli degli uomini, così che diventa la morbosità dell'animo della città, mentre si diffonde attraverso di essa. Non si manifesta la sua infestazione, non si vede il suo arrivo, ma l'effetto che attraversa, poiché tace. Perché causata da un modo di agire cieco e riprovevole che si ripete, la peste è legata a uno dei fratelli della Malattia e della Fame, il Lavoro, che oggi chiamiamo lavoro:
“È scritto da Cicerone che Lavoro è figlio di Notte ed Erebo, la cui quiddità è designata da lui stesso come segue: Lavoro è qualche funzione, dell'anima o del corpo, di un lavoro o compito più serio. Osservandolo, con merito si può dire che è figlio di Notte e di Erebo, è veramente dannoso e con merito va ripreso. Perché come nell'Erebo e nella Notte l'inquietudine dei delinquenti è perpetua, così anche nei segreti penetrabili nel cuore di coloro che, spinti da cieca avidità del superfluo e del poco opportuno, sono agitati da continue meditazioni, e poiché tali meditazioni in il petto oscuro se cagionano, con merito travaglio tale si dice figlio di Notte e d'Erebo”.[Xxiii]
La funzione dannosa, che viene riprovata ed esercitata, comporta azioni che partecipano ai costumi devianti che la peste corregge, sicché l'azione lavorativa cieca, spinta dal vizio dell'avidità del superfluo, dall'azione inopportuna che agita il corpo e la mente di chi lavora in una continua macchinazione, sia che sia il modo di lavorare che la peste interrompe. Questa è la spiegazione mitica delle cause della peste, i cui effetti storici erano allora considerati la correzione morale degli uomini mirata dagli dei celesti, e raggiunta dal culto della religione da parte dei superstiti.
5.
È la peste trattata, storicamente, dallo stesso Boccaccio, perché il primo giorno del Decameron, c'è una dimostrazione dell'occasione in cui l'autore dice del la mortale pestilenza che nel 1348 si avvicinò a Firenze, insistendo, come gli antichi pagani, che il bubbonico fosse la correzione inviata ai mortali da operazione de' corpi superiori e perché giusta ira di Dio; insegna però che, iniziata nelle parti orientali, continuando senza sosta, dopo pochi anni la peste si diffonde miseramente ad ovest. Il suo corso, reso più ampio e continuo, attraversava già le parti del mondo, ma rimaneva attaccato al ritmo della vela, del cavallo e dei suoi vettori animati, non essendo la stessa cosa allo stesso tempo, perché non si faceva come in l'Oriente, dove il sangue dal naso era l'inevitabile segno di morte. Fu allora ordinato agli ufficiali di epurare la città dalle immondezze, fu vietato l'ingresso di qualsiasi malato nel circuito delle mura di Firenze, oltre a molti altri consigli per la conservazione della salute, che però non impedirono che tra marzo e giugno di quell'anno 100.000 persone furono stroncate.
“Nella contea, lasciati soli i castelli, simili nella loro piccolezza alla città, per poderi e campi isolati, i miseri e poveri contadini e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servo, lungo le strade e i loro raccolti e attraverso le case, giorno e notte indifferentemente, non come uomini, ma come se le bestie morissero; cosa per la quale, divenuti ne' loro usi tanto lascivi quanto i cittadini della città, non si curarono di nulla del proprio o degli affari: sicché tutti, come se aspettassero quel giorno in cui videro venire sopra di loro la morte, si adoperarono con tutta ingegno, non nell'aiutare i futuri frutti delle bestie e della terra e delle loro passate fatiche, ma nel consumare ciò che era presente. Avvenne dunque che i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i maiali, le galline e perfino i cani, i più fedeli agli uomini, fossero cacciati dalle loro stesse case; per i campi, dove il fieno era ancora abbandonato, senza avere, non chi lo raccogliesse, ma chi lo falciasse, camminavano come volevano; e molti, quasi come i razionali, siccome avevano pascolato bene durante il giorno, tornavano di notte alle loro case senza alcun imbarazzo da parte del pastore, soddisfatti”.[Xxiv]
La piaga correttiva si abbatte più duramente sui poveri e sui contadini, ne interrompe la quotidianità, ne altera i costumi, il quotidiano rapporto con il tempo, legato poi al tempo delle stagioni e dei cicli lavorativi, si scompone, il presente si dilata attraverso l'accorciamento delle futuro, la frequentazione delle case muta con l'assenza degli animali, gli unici che con l'avvento della peste escono a pascolare.
*Yuri Ulbricht Master in Filosofia presso l'USP
Per leggere la prima parte vai a https://dpp.cce.myftpupload.com/uma-breve-historia-da-peste-i/
note:
[I] Latino detto Esculapio.
[Ii] Hipp. EPISTOLA. DOGMA. EPIBWMIOS. PRESBUTIKOS. due.
[Iii] Hipp. EPISTOLA. DOGMA. EPIBWMIOS. PRESBUTIKOS. due.
[Iv] Hipp. EPISTOLA. DOGMA. EPIBWMIOS. PRESBUTIKOS. due.
[V] Hipp. EPISTOLA. DOGMA. EPIBWMIOS. PRESBUTIKOS. due.
[Vi] Hipp. EPISTOLA. DOGMA. EPIBWMIOS. PRESBUTIKOS. due.
[Vii] Erode. VIII, 171.
[Viii] Gi. II, 54.
[Ix] ciclo Serratura. II, 1, 97.
[X] ciclo Cliente. 42.
[Xi] ciclo Vatino. 33.
[Xii] ciclo Sesta. LXVII.
[Xiii] ciclo Sesto. 135.
[Xiv] ciclo Gatto. Io, 11.
[Xv] Boccacci, G. Gen. Io, XVII.
[Xvi] Boccacci, G. Gen. Io, XIX.
[Xvii] Boccacci, G. Gen. Io, XXIII.
[Xviii] Boccaccio, G.Gen. I, XXIV.
[Xix] Boccacci, G. Gen. Io, XXV.
[Xx] Boccacci, G. Gen. Io, XXVII.
[Xxi] Boccacci, G. Gen. Io, XXIV.
[Xxii] Boccacci, G. Gen. Io, XXVII.
[Xxiii] Boccacci, G. Gen. Io, XVII.
[Xxiv] Boccacci. G. Decameron. Prima giornata: “lasciando star le castella, che simili erano nella loro piccolezza alla città, per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servere, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno; per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano: anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche ma di consumere quelli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli ei cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere non che raccolte ma pur segate, come meglio piaceva loro se n'andavano; e molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si Tornavano satolli”.