Vasco Prado

Vasco Prado, Negrinho con Sole, bronzo, 1970. Riproduzione fotografica Romulo Fialdini
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da Gerd Bornheim

Le dimensioni della tua scultura

La questione dell'arte è tutta sulla sua misura: da dove capirla? Ed è proprio in questo punto cruciale che si concentra la densità delle molteplici domande che affliggono l'arte del nostro tempo e, di conseguenza, anche l'intenso lavoro estetico che cerca di pensare a quest'arte. In passato, forse perché troppo scontata, la domanda non veniva nemmeno posta: la misura era, evidentemente e visibilmente, nella semplice presenza della Vergine Maria. Allora l'arte non poteva avere altro oggetto: testimoniava lo splendore della Verità, e la Vergine era la Verità.

Con l'avvento della cultura borghese, quell'ovvio a poco a poco perde il suo splendore, e anche lo statuto stesso di verità si trasmuta. Perché il buon pittore fiammingo non poteva semplicemente ritrarre la moglie del mercante d'angolo? È ancora inquietante: si può misurare? Ma misura di cosa? Dal Rinascimento in poi, tutta l'arte ha cominciato a muoversi nell'orizzonte di questo tipo di interrogativi, anche se le remote implicazioni di questo nuovo problema si sono manifestate solo nell'arte del Novecento.

Hegel poteva vedere, nel suo estetica, la morte dell'arte, perché aveva capito benissimo che quello splendore di Verità non funzionava più: l'ultima manifestazione dell'arte religiosa, come “sostanza oggettiva”, a parte il barocco. Quello che sfuggì a Hegel – ma era troppo presto perché se ne rendesse conto – è che la cosiddetta morte dell'arte in realtà copriva solo una morte molto più fondamentale, quella di quello splendore della Verità.

Per Hegel, se l'arte non riesce ad essere espressione dell'Idea divina, perde semplicemente la sua raison d'être, man mano che la sua misura svanisce. Ciò che però si verifica, attraverso l'evoluzione dell'arte borghese, è la messa in discussione della nozione stessa di misura, arrivando anche ad una risposta estrema: perché la misura non dovrebbe essere ridotta alle proporzioni della modesta pennellata del pittore?

Diciamo che l'arte inizia a muoversi nella distanza tra la sua “materialità”, ovvero ciò che è in sé, e ciò che dice, anche suo malgrado. L'arte è situata all'interno dei confini di questo spazio e nulla riesce a sfuggire alla complessità dei suoi limiti. Questa distanza configura il luogo dell'arte, e quindi anche il luogo dell'arte di Vasco Prado. Intendiamo qui chiarire alcune delle coordinate del nostro scultore. Ma continuiamo, prima, nella considerazione di alcune generalità.

In passato, già in Grecia, il concetto cardine che permetteva di accedere al significato dell'arte era quello dell'imitazione. Tutto era in questo: cosa imitare? Questo concetto attraversa i dialoghi di Platone e di solito non crea nemmeno un gran clamore. Si osserva, però, che fin dall'inizio – e non solo in Platone – essa è dotata di una notevole carica autodifensiva: l'imitazione è costantemente contrapposta al concetto di copiatura – questo rappresenterebbe il passo falso che comporterebbe la negazione dell'arte stessa. Tutto nasce, quindi, dalla netta delimitazione tra imitazione e copia.

Si osserva, d'altra parte, che in questo stesso tempo e con lo stesso Platone emerge un nuovo significato di verità, sconosciuto ai presocratici: la verità comincia ad essere interpretata come adeguatezza. Colpisce l'analogia tra i due temi – diciamo che l'imitazione è per l'arte ciò che l'adeguatezza è per la verità. Il reale si esplicita all'interno di uno schema triangolare: il mondo degli oggetti, quello dei soggetti e, a conferma di questa dicotomia, l'Assoluto.

E lì ciò che conta è l'Assoluto: la verità e l'arte diventerebbero legittime e possibili attraverso il loro scambio con l'Assoluto, direttamente o indirettamente (per essenze, per esempio). Questo spiega il “andare allo stesso modo” che sarebbe l'adeguatezza (ad-aequalites); nell'uguaglianza degli eguali risiede la possibilità stessa della verità. Finché rimaniamo chiusi nella dicotomia soggetto-oggetto, e facciamo a meno di Dio, non può esserci vera verità, al massimo un simulacro di essa; la condizione della scienza dipenderebbe dal raggiungimento dell'essenza.

Lo stesso schema è stato applicato all'art. L'arte prodotta nei limiti esclusivi della dicotomia soggetto-oggetto non sarebbe altro che una copia, senza meritare l'appellativo di arte. L'imitazione, invece, riuscirebbe a rompere il recinto di quella dicotomia e si immergerebbe in qualche modo nel mondo delle essenze. O di universali concreti, come dèi, santi, re, eroi e poche altre figure.

La normatività dell'Estetica tradizionale garantisce l'esistenza di tali essenze, la possibilità della loro imitazione, e fornisce anche le regole pratiche che rendono possibile l'imitazione – vedi la fantasmagoria delle statue in ogni scuola d'arte tradizionale. Diciamo che la copia non riesce a trascendere le apparenze orizzontali della dicotomia, mentre l'imitazione si eleva alla verticalità che conduce a quello splendore di Verità di cui sopra.

Così, tanto per fare un esempio, la tragedia di Edipo non intende solo riprodurre le travolgenti disavventure di una famiglia; sarebbe una copia. Si tratta piuttosto di imitare la verticalità del rapporto di Edipo con la dea Giustizia (un universale concreto); Edipo è necessariamente re (un altro universale concreto), ed è proprio attraverso l'imitazione che la tragedia raggiunge il suo scopo politico-pedagogico. In questa breve rassegna, spero solo che la povertà dell'esposizione sia compensata dalla sua chiarezza. Ma continuiamo.

Poi, con l'ascesa del mondo borghese, è arrivata la crisi. Crisi di cosa? Esattamente quegli universali concreti. Crisi benefica. La morte degli dei ripercorre il disastro della tradizione. Crisi necessaria e irreversibile: non c'è motivo plausibile che possa alimentare la nostalgia per gli antichi dèi. Perché ciò che è in gioco è niente di meno che l'insediamento dell'uomo su questa terra – e non c'è più alcuna alternativa. Va notato che, in un tale contesto, ciò che finisce per perdere validità non è solo il fondamento dell'imitazione, ma la sua stessa possibilità. E in questo caso, tolti gli dèi ei loro figliocci, quale potrebbe essere ora l'oggetto d'arte?

Proprio ciò che era sempre stato esecrato dalla tradizione: la copia, ora sottratta alla protezione dell'universale. Un esempio: Beethoven dipinge l'episodio di un temporale primaverile, o espone la sua anima semplicemente individuale nella musica da camera. A livello di copia, poi, restano due possibilità, quella dell'oggettività e quella della soggettività, o l'arte riproduce l'oggetto, oppure esprime il soggetto. Il romanticismo è il grande laboratorio attraverso il quale avviene questa trasformazione. Successivamente emergerà una terza alternativa, quella della ricerca puramente formale, l'esplorazione del linguaggio plastico in sé, al di sotto o al di là della dicotomia soggetto-oggetto. E non ci sono altre possibilità.

Nelle arti plastiche, l'apprezzamento della copia arrivò a produrre ottimi risultati: si pensi alla natura morta, al paesaggio e persino all'ornamento. Vale addirittura la pena di dire che l'oggetto, per la prima volta, è visto nella sua condizione di oggetto, estraneo alle categorie universali e ai giudizi di valore. Ma le nuove strade manifestarono ben presto una certa stanchezza e finirono per portare alla loro antitesi. Dovrebbe essere pubblicata una pubblicazione che riproduca i dipinti realizzati con la bellissima modella che fu Jaqueline, la moglie di Picasso; si vedrà presto che il testo diventa un pretesto, ciò che interessa all'artista figurativo Picasso si riduce interamente all'esplorazione del linguaggio plastico. La copia finisce per generare un certo disagio, e, in un certo senso, porta ad attribuire validità al vecchio argomento platonico: ripetitivo, invalida l'arte, la rende superflua ed esterna a se stessa.

In definitiva, anche se per ragioni al di fuori delle argomentazioni tradizionali, la copia non è praticabile. Lo si vede proprio nella scuola che ha saputo portare alle estreme conseguenze l'elogio della copia: il naturalismo ei suoi derivati, come il realismo sociale. In teatro, l'esempio di Brecht è del tutto illustrativo. Certo, la sua radice più significativa è nel naturalismo; egli stesso arrivò ad esagerare tale influenza, a consapevole discapito dei vari formalismi che all'epoca stavano spuntando. Eppure, tutto sommato, risulta impossibile capire Brecht senza l'esperienza formalista, soprattutto quella dell'espressionismo tedesco.

La sua intenzione iniziale è quella di restringere il teatro alla questione sociale, e tutto si radicalizza a livello della categoria dell'oggetto – i sentimenti del soggetto sono riservati alla lirica brechtiana. Per questo, nello spettacolo, copia e oggetto tendono a identificarsi. In verità, però, questa preminenza della copia si rivela insoddisfacente, e Brecht ricorre a vari espedienti per trasformarla. Così, ad esempio, in alcuni dei suoi scritti migliori usa la parabola, trasporta l'azione drammatica in Oriente e rende la scena esotica. Oppure si serve della scienza, che finisce per dare un'enfasi tutta particolare a quella sovranità dell'oggetto. A rigor di termini, c'è solo un testo di Brecht in cui è sottomesso alla copia, e cioè per ragioni strettamente politiche: Terrore e miseria nel Terzo Reich. Procedimenti analoghi a quelli brechtiani si trovano in tutte le arti, e, a detta di tutti, e nonostante il successo delle nature morte, il percorso storico della copia ha già esaurito le sue possibilità; è stato persino trasmutato in arte astratta perché era meramente decorativo.

Vasco Prado

Vasco Prado è senza dubbio un artista del nostro tempo. E capisco che le idee fin qui esposte configurano le coordinate generali che permettono di situare il suo lavoro. Allora vediamo.

Il realismo sociale si impone come presupposto maggiore dell'opera di Vasco. Qui affrontiamo un tema già controverso, quello di sapere se l'opera d'arte debba o meno essere politica. Si scopre che l'evoluzione delle arti nel Novecento ha finito per sconfessare ogni pretesa normativa dell'Estetica. Proprio il tipo di realismo sociale che fa della politica la raison d'être dell'arte, il criterio ultimo della propria validità, ha quasi sempre portato al peggio, e ha reso anacronistica l'esigenza che tutta l'arte sia politica.

Si noti, ad esempio, l'impressionante identità dell'arte prodotta dallo stalinismo e dal nazismo. Oppure prendi quest'altro grande esempio: dov'è il lavoro politico del comunista Picasso? Dopotutto, anche dentro Guernica, la policy è principalmente nel titolo del frame. Tali risultati, tuttavia, sono ben lungi dal risolvere il problema. Se l'opera d'arte si ribella a qualsiasi norma, rifiuta l'impegno politico e ha pieno diritto di ritirarsi nel silenzio delle mele, questo vale indubbiamente per l'opera, ma non per l'artista. In quanto essere umano, e come ogni altro individuo, l'artista è obbligato ad avere le sue scelte politiche, deve avere, e non può non avere, una chiara consapevolezza della sua situazione nel mondo in cui vive. E da lì può succedere molto nell'arte, compreso l'impegno sociale.

L'uomo Vasco ha sempre difeso posizioni politiche inequivocabili, ma nella sua opera non c'è tema politico in senso stretto o pamphletistico. Sono le sue posizioni politiche, però, che sono alla base del realismo sociale che anima tutta la sua opera – realismo sociale, va aggiunto, di contenuto molto ampio, che non esclude quel contrappunto lirico che è la presenza femminile ; o ancora, la rozza virilità di uomini e bestie. Realismo sociale significa, in primo luogo, che il lavoro del nostro artista è essenzialmente figurativo.

Tutto dipende, allora, dall'interpretare correttamente i limiti di questo figurativismo, o la sua portata. Anche qui si intromette la dimensione sociale dell'artista, ovvero quella necessaria fatalità umana che è il dialogo. Come in ogni cosa, le cose accadono all'interno dell'orizzonte datato delle possibili influenze. Gli innamoramenti giovanili – Rodin, Bourdelle – presto lasciano il posto agli itinerari inscritti nell'occhio di Vasco. Il dialogo si fa pratico, e si svolge a livello di strumenti di lavoro, tra puntatori, scalpelli, bojardas. Il realismo sposa, intorno, le preoccupazioni formaliste che attraversano le ricerche plastiche del nostro tempo. Vale anche la pena di dire che, in misura maggiore o minore, il nostro scultore presta alle sue figure un trattamento astratto. Né sarebbe possibile accedere alla fertile fantasia creativa dell'artista senza questo dialogo con il mondo delle forme, questa apertura a un gioco di linee che, a volte, è già registrato nella stessa materia che Vasco utilizza.

Quindi, il suo lavoro ha due radici. Da un lato, la sua acuta coscienza sociale e il suo sguardo sedotto da tutto ciò che è umano; ma dall'altra la maestria con cui lascia correre la linea, obbediente a un'esigenza interna derivata dal formale. Il punto nevralgico dell'estetica di Vasco Prado sta proprio in questo punto: alla confluenza di queste due radici – ed è qui che si aggrava tutta la questione della copia, di cui si è parlato sopra. Chiediamoci allora qual è lo scambio verificabile tra, diciamo, la copia e l'altro da essa, tra l'identità della copia e la sua differenza.

La questione risulta complessa, poiché coincide con l'intero corpus dell'opera dello scultore; tutto avviene nel gioco di quella doppia radice, è attraverso di essa che la copia abbandona il suo stato per così dire naturale. Complichiamo le cose con una nuova domanda: se tutto si svolge nell'orizzonte di quelle due radici, se l'opera attraversa la distanza tra le due, questo viaggio diventa creativo proprio attraverso la libertà con cui l'artista si avvale di una pluralità di risorse – e la domanda ora è: quali risorse sono queste? Nello spazio di quella distanza, quanto si estendono le tue possibilità? E in primo luogo: l'apertura di questo spazio è in grado di dare un riparo all'universale, a quello che prima chiamavamo l'universale concreto?

Forse con qualche esitazione, la risposta deve essere affermativa. Penso subito all'imponente sovranità dei Tiradentes a tre bocche alti cinque metri, collocati in un luogo pubblico di Porto Alegre. Il suo allargamento manifesta chiaramente l'universale-rivoluzionario e si distingue come uno dei migliori successi del maestro. Ma va notato che Tiradentes configura, in un certo senso, un antieroe, una vittima, e questo in qualche modo strappa via l'universale. Comunque sia, la coltivazione dell'universale positivo, nel senso antico, è oggi quantomeno sospetta, vicina com'è a una certa retorica che non esiste negli artisti autentici.

La presenza dell'universale, invece, merita più attenzione, poiché assumerà altre forme, nuovi contorni nell'opera di Vasco. Penso qui, in particolare, alla figura del Negrinho do Pastoreio, uno dei temi prediletti dall'autore e al quale ha dedicato diverse versioni. Ma Negrinho, un universale? Non è libero, ma schiavo; non è bianco, ma nero; non indossa vestiti, perché è nudo; vittima non attiva, ma passiva; privo di coscienza politica, è un mero risultato della congiuntura sociale; l'opposto della luce, è un simbolo di inscienza. E proprio così, un universale – sintetizza paradigmaticamente le conseguenze della schiavitù.

Lo straniamento non sta tanto nella marginalità di Negrinho, ma in chi accende candele ai suoi piedi. Un universale, sì, ma con un'aggiunta del tutto rivelatrice: è un universale negativo, o il rovescio dell'universale, e, proprio per questo, una figura fortemente politicizzante. Si può anche affermare che l'invenzione dell'universale negativo caratterizza in larga misura la natura stessa dell'arte del nostro tempo.

Sempre nei limiti dello spazio aperto dalla distanza tra queste due radici, chiediamoci: quali risorse usa Vasco Prado per definire i suoi canoni creativi? Non intendo qui catalogare, ma richiamare l'attenzione su alcune di queste risorse, per meglio chiarire il nostro tema. Sono risorse attraverso le quali il nostro artista si allontana dalla copia stessa, pur salvaguardando il piano su cui la copia si svolge. È come se si trasformasse, senza che questo processo orienti l'opera verso l'incorporazione del modello-universale, alla maniera dell'arte tradizionale. Il massimo che si potrebbe avanzare è che tali risorse sarebbero come una sorta di categorie, nel senso di nomi più generali, e che in un certo senso guidano lo sforzo creativo. Di che risorse si tratta, allora?

La primissima, già citata sopra, è nel commercio con l'elemento astratto, con le esigenze che scaturiscono dalla linea puramente formale. Naturalmente, in questo procedimento, il piano figurativo non viene mai completamente abbandonato. Questa risorsa tende a stabilirsi all'interno di certe linee, si concentra su una certa ripetitività, ed è proprio questo che finisce per plasmare lo stile dell'artista. Attraverso questo elemento formale è possibile seguire l'evoluzione della sua arte, ed è importante sottolineare che solo attraverso l'elaborazione formale è possibile verificare correttamente l'evoluzione del linguaggio, è attraverso questo che l'arte diventa storica, e non per suoi possibili contenuti. Il formale trasforma il dato, ed è soprattutto in base a questo che si può parlare di arte contemporanea, di storicità: attraverso la sua forma l'arte assume un aspetto storico e diventa appunto arte.

Una seconda caratteristica, strettamente legata alla prima, è la sua monumentalità. Non è esattamente una questione di quantità qui, la monumentalità non ha niente – o tutto – a che fare con la dimensione dei pezzi. Mi riferisco piuttosto ad una caratteristica intrinseca della linea stessa dell'artista, del suo disegno di base. Questo è spesso presente, ad esempio, in piccoli pezzi di ceramica. La monumentalità è stabilita soprattutto dalla linea curva, nelle forme arrotondate, sia nella figura umana, specie in quella femminile, sia, e fortemente, nelle figure animali. Inoltre, a questa monumentalità è associata una componente sensuale. Non penso qui a pezzi specificamente erotici, ma a una sensualità che pervade lo stesso corpo scultoreo e si installa nell'estensione delle superfici. Questa sensualità stabilisce la convivialità tra il pezzo e il palmo della persona che lo vede – il desiderio di toccarlo. Marc Berkowitz, con la sua visione penetrante, ha scritto molto bene che Vasco “ha la capacità, tipica del grande scultore, di infondere in tutte le sue opere, anche le più piccole, quello spirito di monumentalità, che è la vera prova dello scultore che sa pensare in grande”.

Una terza risorsa può essere vista nell'arcaico. Sottolineo qui l'estrema semplificazione della forma, non c'è nulla di rococò nell'opera di Vasco, raramente cede alla sinuosità dell'ornamento. La sua linea è sobria, con un percorso semplice e necessario, tutto concentrato su un tema che si direbbe essenziale e preliminare ai processi di civilizzazione: l'uomo, la donna, il cavallo. Così, il tratto arcaico si combina con temi anch'essi arcaici, quasi preistorici.

In quarto luogo, questa dimensione arcaica è legata alla presenza del folklore. Questo rapporto è forse più profondo di quanto un primo contatto con l'opera di Vasco permetta di valutare. Un uomo della terra, un gaucho senza l'apparente bisogno di compenso, tutta la sua opera esibisce un notevole carattere tellurico. Né qui sto pensando tanto ai temi specificamente folcloristici che una parte del suo lavoro presenta: il folklore è un tema tra gli altri. Penso di più a questo desiderio di essere persone, di attaccarsi alle radici, di assumere la politica della pubblica piazza. In questo senso più radicale, il folklore cessa di essere un'opzione, e diventa un modo di essere, di esprimersi, di avvicinarsi.

Infine, sarebbe opportuno menzionare l'uso della tipizzazione, una caratteristica che ben si adatta alle voci precedenti. L'individualità peculiare, l'elemento biografico, il ritratto, l'incidente di percorso sono praticamente inesistenti nell'opera di Vasco. Il cast dell'artista è ostinatamente e sanamente ristretto: l'uomo, la donna, il cavallo e poche altre cose, sempre con l'articolo ben definito. Sta a noi parlare qui – e non solo qui – di espressionismo. Perché è stato questo movimento tedesco che ha introdotto leitmotiv la tipizzazione.

La differenza tra gli espressionisti tedeschi e Vasco è che i primi sono attaccati a temi di fine romanzo, all'agonia della civiltà, all'estrema diversità in cui si sono cristallizzate le figurazioni storiche, mentre nel caso di Vasco la tipizzazione presenta il gusto delle origini . In un certo senso, è un ordine pre-sociale, senza affinità con le sale mondane e le assemblee costituenti. Nessun accenno di decadenza, solo semplicità sfrenata che afferma la vita.

La topografia indicata potrebbe servire, magari con aggiunte, come riferimento per un'ampia analisi della vasta opera di Vasco Prado. Va notato che ciascuna di queste risorse è un indicatore di un complesso di temi e che la terminologia suggerita è ancora scadente. Così, ad esempio, il folklore non ha nulla a che fare con la specificità della cosiddetta arte popolare, oppure l'arcaico non intende un ritorno al passato: siamo sempre nel presente. Inoltre, ciò che conta non sono i riferimenti o le categorie possibili, ma la verve creativa del nostro artista – questa verve, va notato, che non si riduce alla soggettività umana: è questa, al contrario, che si costruisce a partire dall'opera compiuta : la creazione nel lavoro è ciò che conta. Contiene, a modo suo, la misura del mondo e di Vasco Prado.

* Gerd Bornheim (1929-2002) è stato professore di filosofia all'UFRJ. Autore, tra gli altri libri, di Pagine di filosofia dell'arte (Oh).

 

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