Di Ricardo Musse*
Il libro Decenni di stupore e di apologia democratica (Rocco, 1998), a prima vista, si limita alla ristampa di tre importanti saggi di Wanderley Guilherme dos Santos. I primi due “Prassi liberale in Brasile” e “Prassi liberale e cittadinanza regolamentata”, scritti negli anni ’1970, salvo piccole aggiunte, mantengono la formulazione dell’epoca. “Sull’oligarchia e le sue maschere istituzionali” consiste, nelle parole dell’autore, “in una versione concisa, riveduta e aggiornata delle riflessioni” pubblicate in Ritorno: maschere istituzionali del liberalismo oligarchico (Opera Nostra, 1994).
Appare chiaro che Wanderley Guilherme dos Santos non ha resistito alla tentazione, spinto dalla generalizzazione dell'abitudine di raccogliere articoli sparsi in un libro, di riorganizzare il suo lavoro già pubblicato. Ma questa non è solo una richiesta soggettiva. Una volta raggruppati, questi tre saggi formano un oggetto distinto, una costellazione che emerge con la freschezza di un'opera nuova e, direi quasi, inedita.
Pertanto, non è conveniente ignorare la riorganizzazione introdotta nel Decenni di stupore e di apologia democratica. L'accostamento dei tre testi stabilisce tra loro un rapporto di prossimità e di straniamento che rende l'insieme qualcosa di diverso da un mero raggruppamento di articoli sul liberalismo. La scelta dell'autore di mantenere la versione originale dei vecchi articoli innesca, a sua volta, un'altra associazione: assunti nella loro dimensione storica, i saggi interessano tanto per la loro attualità e pertinenza quanto per il loro valore storico e documentale.
Il saggio “A praxis liberal no Brasil”, sicuramente una delle opere più conosciute e discusse di Wanderley Guilherme, è stato originariamente pubblicato in Ordine borghese e liberalismo politico (Due città, 1978). Vi si delinea una sorta di bilancio della dottrina e dell'azione politica liberale in Brasile dal 1822 in poi.
Una delle sue tesi centrali sostiene che pochi autori nel Paese abbiano notato o evidenziato il carattere storico (e quindi, in una certa misura, accidentale) dell'associazione tra concetti relativi ai diritti civili e politici e l'instaurarsi di società di mercato. Pensando di essere le due facce della stessa medaglia, i liberali brasiliani si sono sempre mossi nello spazio ristretto di un falso dilemma, un'ambiguità ricorrente messa in luce per la prima volta da Oliveira Vianna negli anni '1920: “come costruire un sistema politico liberale senza una società liberale?
Tracciate le pietre miliari del liberalismo in Brasile, a partire dai suoi paradossi, Wanderley Guilherme tenta una mappatura di questo filone, in cui spiccano due correnti apparentemente contrastanti, “liberalismo dottrinario” e “autoritarismo strumentale”.
Fiduciosi nell'indissolubilità tra le libertà fondamentali (di associazione, pensiero, manifestazione e organizzazione politica) e “l'organizzazione sociale ed economica che equipara la massimizzazione dei profitti individuali alla massimizzazione del benessere generale”, entrambe mirano allo stesso fine, la impianto della società di mercato in Brasile, in modi, o meglio, attraverso diverse accentuazioni.
Mentre i liberali dottrinari credono, in senso idealistico, che la sola liberalizzazione politica sia sufficiente per attuare il liberalismo economico, gli “autoritari” credono che solo un sistema politico autoritario consentirebbe l'abbattimento delle barriere e la transizione verso un sistema sociale autenticamente liberale. La tenuità della differenza tra queste due posizioni, la loro convergenza “al limite”, è stata dimostrata lungo tutta la storia brasiliana sia dall'azione autoritaria dei “dottrinari” che sono saliti al potere sia dalla performance del partito più tipicamente liberale della storia brasiliana : l'UDN.
Il secondo saggio, pubblicato un anno dopo in Cittadinanza e giustizia (Campus, 1979), riprende – all'interno di ben documentate ricerche storiche sulla legislazione sindacale e previdenziale brasiliana – alcuni temi, in parte sviluppati nel precedente articolo, in particolare, il ruolo dello Stato.
Se in Europa lo Stato liberale non ha mai trascurato, almeno, di garantire il funzionamento del mercato come efficiente meccanismo di allocazione di beni e valori, perché tra noi si ricorre sempre all'utopia di uno Stato non interventista ?
La risposta di Wanderley Guilherme, avanzata nel primo saggio, è che l'attore principale di questa commedia, la classe capace di plasmare simultaneamente l'apparato statale e la società secondo la logica del mercato, la borghesia nazionale, non ha partecipato. In Brasile la borghesia non è emersa come classe organizzata perché, invece di essere integrata attraverso la mediazione di un mercato nazionale (e di uno Stato capace di regolarlo), si è forgiata attraverso la mediazione di un mercato internazionale il cui funzionamento è sempre stato in a carico di altri stati nazionali (Inghilterra e poi USA).
Tuttavia, dal 1840 in poi, “è emersa un'ideologia protezionista che ha collegato la vera autonomia politica all'autonomia economica, l'autonomia economica all'industrializzazione, l'industrializzazione al nazionalismo e, infine, il nazionalismo all'intervento statale o al protezionismo economico”. L'equilibrio sociale di queste due strategie politiche, tuttavia, è complementare. Sia nell'Antica Repubblica che nello Stato post 1930, lo sforzo di regolazione sociale (su iniziativa del Congresso o come rivendicazioni dei lavoratori organizzati) si rivolse soprattutto alla regolazione del processo cumulativo e quasi mai all'attuazione di politiche sociali compensative, matrice dello Stato della previdenza sociale.
La principale conseguenza, tracciata da Wanderlei Guilherme, di questa concentrazione di istanze nel processo cumulativo fu la creazione, dal 1930 in poi, di quella che l'autore chiama “cittadinanza regolamentata”. Lo Stato, mentre incoraggiava (e regolava) la differenziazione della struttura produttiva, l'accumulazione industriale, istituiva un sistema di “regolazione sociale” ad essa coestensiva. In essa il diritto di cittadinanza prevale solo all'interno di uno schema di stratificazione occupazionale definito dalla norma giuridica, cioè dipende dalla disciplina della professione, dall'esistenza della tessera professionale e dal sindacato pubblico.
Nel terzo articolo, Wanderley Guilherme cambia tono, ma non le sue convinzioni. Secondo lui stesso, “ha sostituito lo stile asettico della ricostruzione storica con una retorica argomentativa adeguata ai conflitti contemporanei”. Così, l'apologia democratica assume quasi la forma di una diffamazione contro i tentativi di riforma politica, difesi da imprenditori, giornalisti, politici e sociologi, che propongono l'introduzione del voto distrettuale misto, la riduzione del numero dei partiti, l'estinzione del voto obbligatorio e modifiche dei quorum elettivi e delle decisioni parlamentari. In questo “impeto a fabbricare architetture sociali”, Wanderley Guilherme intuì la minaccia di un “ritorno istituzionale”, in una nuova veste, al regime oligarchico.
È possibile dipanare in ogni saggio, al di là delle convinzioni e dell'attivismo dell'autore, frammenti del dibattito politico dell'epoca. Il primo saggio, ad esempio, prende posizione sulla matrice ideologica del regime militare, questione che allora riguardava non solo le linee di continuità del pensiero conservatore brasiliano, ma anche la questione della sua durata e del tipo di società che stava nascendo in quel momento... Il secondo saggio, a sua volta, rimanda alla discussione sul corporativismo, sul nazional-sviluppismo, sul famigerato “populismo”, nella terminologia della sociologia dell'USP.
L'attualità del libro si basa sia sul fatto che queste questioni rimangono aperte e sono decisivamente importanti nella scelta delle direzioni future per il paese, sia sulla ricostruzione storica completa che configura una sorta di sintesi della storia politica brasiliana. Tuttavia, in aggiunta, i tre saggi spiegano il nucleo del pensiero di Wanderley Guilherme, con diagnosi e prognosi sempre più rilevanti.
La questione decisiva di Decenni di stupore e di apologia democratica, basato sul presupposto weberiano che l'economia e la politica seguono una logica propria, si esprime nel motto “perché, in Brasile, la politica arcaica non ha reso irrealizzabile l'economia moderna e perché quest'ultima, quando è stata robusta, non si è sbarazzata subito del ex” ?
Non è del tutto privo di interesse confrontare la risposta di Wanderley Guilherme con la tesi proposta, tra gli altri, da Robert Brenner, secondo la quale, nell'emergere del capitalismo, l'adozione di comportamenti economici innovativi è avvenuta nonostante ogni calcolo sulle sue conseguenze politiche. .
La persistenza, per così tanto tempo, di questo malinteso è rivelatrice. In che misura, del resto, i limiti della sfera politica non sono il risultato della concentrazione economica e del profilo della distribuzione del reddito? I tentativi di ritorno non sono legati, qua e là, a un nuovo ordine economico centralizzato concentrato in corporazioni monopolistiche e dipendente dai movimenti di un mercato mondiale?
*Ricardo Musse È professore presso il Dipartimento di Sociologia dell'USP.
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